Considerato capace di riflessioni articolate e dotato di intelligenza, l’essere umano reagisce agli stimoli tramite l’articolazione di risposte complesse; egli è votato all’apprendimento, ma è possibile che anche la tecnologia si dimostri capace di apprendere?

La risposta, secondo il parere del filosofo, scrittore e musicologo del XX secolo Günther Anders, è affermativa: le macchine – ovvero, nell’accezione di Anders, qualsivoglia prodotto ottenuto tramite la tecnica – sono capaci, in senso lato, di imparare dai propri errori. Tale idea è espressa nel saggio L’uomo è antiquato, dal quale sono tratte tutte le citazioni che si incontrano nel presente articolo, e che costituiscono i pilastri del lessico andersiano. Esemplare della capacità di apprendimento delle macchine è il fatto che, qualora una macchina sia prodotta con un difetto, gli oggetti dello stesso tipo che saranno creati posteriormente non presenteranno più la suddetta imperfezione. Per di più, nel caso in cui si scopra un modo attraverso cui un prodotto possa essere reso migliore, i prodotti successivi saranno dotati delle nuove caratteristiche, che li renderanno più utili ai loro fini.

Inoltre, le macchine sono spesso capaci di calcoli e di operazioni molto complesse, che le facoltà umane non riescono a riprodurre. In questo modo, sostiene Anders, gli oggetti della tecnica apprendono e si migliorano. D’altra parte, l’essere umano non riesce a cambiare alla stessa velocità delle macchine, data la sua finitezza e irripetibilità. Ogni individuo è infatti caratterizzato da delle peculiarità che lo rendono unico, impossibile da standardizzare. E ancora, le macchine hanno sviluppato una possibilità che è preclusa all’essere umano: il modo per “vivere” sempiternamente, ovvero la «reincarnazione industriale». Quest’ultima si delinea come l’esistenza in serie dei prodotti; ad esempio, asserisce Anders, la durata di una lampadina è limitata, ma una nuova lampadina continua la vita della vecchia, perfettamente indistinguibile dalla precedente. Ciò porta il filosofo a prendere una posizione radicale: «l’uomo è più mortale dei suoi prodotti».

L’individuo si sforza così, in un anelito irrealizzabile, di approssimarsi all’eternità delle macchine in un modo tutto suo, tramite l’iconografia, ovvero l’ipertrofica produzione di immagini, di copie di sé, per essere anch’egli prodotto in serie, per imparare ad essere immortale, per «smentire la sua insopportabile unicità».

Si potrebbe obiettare al filosofo che le macchine non siano autoprodotte, bensì opera di un creatore umano: non dovrebbe forse l’individuo, in quanto creatore, provare orgoglio per aver messo al mondo tanta perfezione capace di apprendere più velocemente dell’uomo? In primis, Anders sostiene che non esista un noi che abbia costruito le macchine, dal momento che solo gli scienziati se ne possono dire i reali creatori, mentre tutti gli altri ne sono meri fruitori. Inoltre, quelli che sono stati concepiti come mezzi funzionali all’umanità stanno diventando sempre di più dei fini, dei prodotti in sé e per sé, di cui gli umani sono i mezzi. Ancora, si può essere orgogliosi di qualcosa che porti le tracce del proprio lavoro, ma non dei prodotti industriali, che possono provocare, con la loro illimitata capacità di apprendimento, immensa inquietudine nell'essere umano, fino a farlo sentire «a disagio nella propria pelle di creatura».

L’incapacità di apprendere alla stessa velocità delle macchine traghetta gli esseri umani dall’orgoglio di aver costruito qualcosa alla «vergogna prometeica» per «il fatto di essere nati e di non esser stati fatti». Puntualizza in tal senso Anders: «Oggi il self-made man vuole diventare anch’esso un prodotto, perché non vuole essere qualcosa di non fatto»; esser nato, questo «il peccato originale» dell’umanità. La conseguenza di ciò è che «il corpo dell’uomo è ottuso e sabota le macchine»: dato che le prestazioni umane sono inferiori di quelle dei prodotti della tecnica, l’umanità è un peso per questi ultimi: «le ali senza Icaro volerebbero».

Perituro e privo delle doti dei prodotti industriali, l’essere umano è dunque condannato a patire la sua inferiorità cognitiva, osservatore passivo dell’allargarsi del divario che separa le sue capacità da quelle delle macchine? Il pessimismo andersiano sembra qui, contrariamente ad ogni aspettativa, aprire uno spiraglio di speranza: l’umanità riesce meglio delle macchine nell’apprendimento della realtà circostante, nel dare significato al mondo e nel produrre giudizi morali. Ciò è possibile però solo se l’individuo – di solito indifferente al mondo che abita – riesce a deformarlo, ad esagerarlo o a rimpicciolirlo. Questa la missione di Anders, il quale sostiene che, per comprendere appieno l’essenza del tempo in cui si vive, occorra portarlo alle sue estreme conseguenze, narrando scenari che sembrano irrealizzabili, anche se spesso più probabili di quanto si pensi. Ad esempio, per apprendere le potenzialità di uno strumento della tecnica quale la bomba atomica, occorre esagerare la realtà, comprendere che quell’ordigno apparentemente innocuo possa distruggere l’intera umanità. Allo stesso modo, rimpicciolire i drammi della quotidianità, riportando, anziché i numeri delle catastrofi, le singole storie di coloro che vi hanno perso la vita, aiuta l’individuo ad empatizzare, a ri-apprendere un alfabeto delle emozioni che sembra, nell’era della tecnica, essere finito nel dimenticatoio. Solo così l’individuo può uscire dal suo «analfabetismo emotivo» ed apprendere qualcosa che è precluso alle macchine: l’empatia verso gli altri e la capacità critica, ovvero la facoltà del giudizio morale.

Forse è vero che «le ali senza Icaro volerebbero», ma probabilmente, senza il giudizio morale di Icaro, un mondo popolato dai prodotti della tecnica finirebbe per distruggere se stesso.

Per saperne di più:

L’articolo dialoga con l’edizione del 2007, edita da Bollati Boringhieri, del primo volume de L’uomo è antiquato di Anders. Per approfondire le tematiche esposte, si consiglia la lettura del testo Tecnocrazia e analfabetismo emotivo. Sul pensiero di Günther Anders di Natascia Mattucci, edito da Mimesis nel 2018.

Immagine da Wikimedia Commons. Foto di Icarus, scultura di Rogério Timóteo. This file is licensed under the Creative Commons Attribution 3.0 Unported license.

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