Il 2 agosto del 1920 la firma del Protocollo di Tirana sancì la fine del protettorato italiano sull’Albania. Tale protocollo fu salutato dall’allora primo ministro Giovanni Giolitti come «l’estirpazione di un dente, per la quale il paziente esita e ritarda, ma di cui poi alla fine è lieto di essersi liberato». Queste parole accompagnarono le altre considerevoli rinunce da parte italiana ad un ruolo di potenza nell’Adriatico e nel Mediterraneo orientale, dal riconoscimento di Fiume come città libera (30 dicembre 1920) al progressivo abbandono di ogni velleità in Asia Minore ai danni della rinata Repubblica turca a guida kemalista. Risulta cionondimeno evidente quale fosse l’iniziale estensione dei progetti e delle ambizioni del Regno d’Italia, unica tra le potenze dell’Intesa a essere riuscita non soltanto a sconfiggere il suo storico nemico, l’Impero Austro-Ungarico, ma ad aver anche assistito alla sua dissoluzione.Immagine 0Arditi del Regio Esercito italiano

Improvvisamente l’Italia si era trasformata in una delle principali potenze dell’Europa occidentale, la terza dopo Regno Unito e Francia, la sola per ragioni geografiche a poter sopperire al vuoto causato dalla fine del dominio asburgico sul Danubio e nei Balcani. Per la prima volta nella sua breve storia unitaria, l’Italia ebbe anche modo di influenzare l’ex rivale austriaca, ridotta ad un piccolissimo Stato, mediante l’invio di un contingente militare a Vienna. La fine della duplice monarchia rappresentava in apparenza la conclusione dell’annoso problema del confine orientale, dell’irredentismo in Trentino, Venezia Giulia e Dalmazia, della chiusura strategica della penisola lungo le Alpi.

Nei fatti, la Quarta Guerra d’Indipendenza rappresentò la riapertura, piuttosto che la chiusura, della questione dei confini. Il completamento dell’Unità nazionale apriva le porte ad ambizioni di allargamento della sfera di influenza italiana in Europa Orientale e nel Mediterraneo. Un simile ambizioso programma incontrò però, oltre all’ostilità francese e in parte britannica, anche un ostacolo inaspettato: la nascita del Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni, potenza in grado di inglobare buona parte delle popolazioni slave meridionali e in grado di esercitare una decisa influenza sull’Adriatico, in diretta concorrenza con le aspirazioni italiane. Quasi a sintetizzare l’evoluzione dei rapporti di forza nel Mar Adriatico si potrebbe citare l’affondamento, avvenuto nella notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre del 1918, della nave ammiraglia della marina asburgica, la Viribus Unitis, ad opera di due incursori italiani, Rossetti e Paolucci. La nave era in realtà divenuta da poche ore, poco prima dell’esplosione, la nuova nave ammiraglia della marina serbo-croata-slovena.

Non è del tutto chiaro se questa informazione fosse giunta ai comandi italiani, i quali comunque inavvertitamente sancirono l’inizio di una nuova questione orientale.Immagine 1Cartolina - foto dell'affondamento della corazzata austriaca "Santo Stefano"

Lo stesso invio di un contingente in Austria sanciva un clamoroso cambio di prospettiva: l’idea italiana era di utilizzare la neonata repubblica austriaca in funzione anti-slava. Il 4 novembre del 1918 le truppe italiane presero il possesso di Zara, punta di diamante del litorale dalmata spettante all’Italia secondo il Patto di Londra.

Sempre in questa ottica l’Italia comprese l’importanza strategica dell’Albania per il controllo dell’accesso all’Adriatico. L’Italia era intenzionata ad assumerne il protettorato per porre anche un limite meridionale all’estensione dell’influenza slava. Fu la Francia, d’altra parte, a spingere maggiormente contro l’idea di una Grande Albania, filo-italiana (realizzatasi, alla fine, sotto il fascismo).

L’ipotesi del protettorato incontrava inoltre la decisa opposizione di Wilson e la delusione da parte degli ambienti nazionalistici albanesi: se la risoluzione del problema del principio di nazionalità da parte italiana aveva trovato una propria felice conclusione, ora era l’Italia stessa a negare tale principio nei confronti di due nazioni vincitrici (Regno Serbo-Croato-Sloveno) o parzialmente neutrali (Albania).

A ciò si aggiungeva l’esplodere della situazione inerente alla città di Fiume, sottoposta dall’8 settembre del 1920 all’occupazione dei legionari di D’Annunzio, ma non rientrante (come il protettorato albanese) negli accordi sanciti dal Patto di Londra.

Su due piani completamente opposti, la diplomazia italiana perseguiva le proprie aspirazioni sulla “irredenta” Fiume e nei confronti di slavi e albanesi. Sulla stessa lunghezza d’onda si ponevano le basi per una velleitaria penetrazione in Asia Minore, che contribuì a isolare ulteriormente l’Italia, accusata di non aver sufficientemente contribuito alla guerra contro l’Impero Ottomano.

Il tutto avveniva mentre le strutture del regime parlamentare italiano davano segni di cedimento, mentre la violenza e il cameratismo importati dalla guerra, le spinte rivoluzionarie dei socialisti e la nascita del mito della “vittoria mutilata” causavano lo sfaldamento della classe dirigente liberale. L’Italia non sembrava avere le forze e la coesione interna per poter esercitare un ruolo di primo piano nel Mediterraneo, pur nel proprio rango da grande potenza acquisito con la fine degli Imperi centrali. L’allargamento del “confine” italiano alla Dalmazia, all’Albania, all’Asia Minore fu accompagnato dalla progressiva smobilitazione degli effettivi dell’esercito italiano, dati i costi insostenibili.

Fu da tali presupposti che scaturì il progressivo contenimento dell’estensione dell’influenza militare italiana, il ritiro dall’Asia Minore e dall’Albania, tranne dall’isola di Saseno di fronte a Valona, a cui si è già accennato, e infine il ridimensionamento del controllo italiano in Dalmazia, circoscritto a Zara e alle isole di Cazza, Lagosta e Pelagosa. I due principali autori di tali decisioni, Nitti e Giolitti cercavano così di trovare una mediazione tra le spinte di una parte degli ambienti nazionalisti italiani e le esigenze strategiche italiane.

Fu una soluzione apparente, oltreché il canto del cigno del regime liberale, vincitore della guerra e sconfitto dalle tensioni interne. Circoscritta nei propri confini, comunque di molto allargati verso est, l’Italia tornò ferocemente alla ribalta nel medesimo contesto, quando l’insoddisfazione per la “vittoria mutilata” fu convogliata nelle mire espansionistiche fasciste in tutto il Mediterraneo.

Per saperne di più:

Per avere un’idea del clima che accompagnò il travagliato passaggio dei territori orientali dall’universo asburgico all’Italia ormai avviata verso il fascismo, si consiglia Annamaria Vinci, Sentinelle della patria. Il fascismo al confine orientale 1918-1941, Laterza, Roma 2011. Molto utile per approfondire le tematiche strettamente politiche e militari delle occupazioni italiane dopo la Grande Guerra è invece la raccolta di saggi a cura di Raoul Pupo, La vittoria senza pace. Le occupazioni militari italiane alla fine della Grande Guerra, Laterza, Roma 2014.

Immagine di copertina:  Soldati italiani in trincea si riscaldano a un fuoco improvvisato durante la prima Guerra mondiale, da Wikimedia commons.
Foto degli Arditi del Regio Esercito italiano, da Wikimedia Commons.
Immagine dell'affondamento della corazzata austriaca "Santo Stefano", via Wikimedia Commons.
Le informazioni sull'attribuzione sono presenti nei link alle immagini.

Argomenti

#politica di potenza#irredentismo#prima guerra mondiale#confini#frontiere