Ogni lingua si caratterizza per una data e precisa disponibilità lessicale e semantica. «As the language is, so also is the nation», queste le parole scritte dalla penna di Otto Jespersen (1860-1943). In che misura, tuttavia, ciascun popolo è determinato dalla lingua che parla? e quanto questa influisce sulla costruzione sociale del mondo circostante?

La tesi del «relativismo linguistico», secondo cui l’idioma parlato è in stretto rapporto con la percezione della realtà, si fa tradizionalmente risalire a Wilhelm von Humboldt (1767-1835), filosofo e linguista tedesco, che espone le sue ricerche sul linguaggio in un’opera uscita postuma e intitolata nella edizione italiana La diversità delle lingue.

Nel suo significato più proprio, il relativismo linguistico afferma che «non esistono proprietà universali nelle lingue naturali. Ogni sistema linguistico è peculiare e non esiste limite nella diversità delle lingue né possibilità di confronto fra sistemi diversi», per dirla con Beccaria; una tale posizione, tuttavia, non si rinviene in maniera così decisiva nel pensiero di Humboldt. Egli, infatti, descrisse il linguaggio come organo formativo del pensiero, unito agli organi vocali e all’udito in una costituzione originaria della natura umana; è, dunque, l’attività soggettiva a dare forma agli oggetti del pensiero, secondo ciò che il linguista denominò innere Sprachform, «forma linguistica interna».

La posizione di Humboldt, in effetti, non fu quella di un relativismo forte; il tentativo che emerse dal suo lavoro si caratterizzò per la volontà di conciliare questa visione con quella di un universalismo linguistico che necessariamente sfociasse nell’apprendimento di un’altra lingua:

[…] ogni lingua traccia intorno al popolo cui appartiene un cerchio da cui è possibile uscire solo passando, nel medesimo istante, nel cerchio di un’altra lingua. L’apprendimento di una lingua straniera dovrebbe essere pertanto l’acquisizione di una nuova prospettiva nella visione del mondo fino allora vigente e lo è in effetti in certo grado, dato che ogni lingua contiene l’intera trama dei concetti e la maniera di rappresentazione di una parte dell’umanità.

Già prima di Humboldt, tuttavia, altri nomi contribuirono alla definizione di una tale tesi; Étienne Bonnot de Condillac (1715-1780), in Essai sur l’origines des connaissances humaines, sostenne che «ogni lingua esprime […] il carattere del popolo che la parla. In latino, per esempio, i termini dell’agricoltura recano con sé idee di nobiltà che non hanno nella nostra lingua». Nicolas Beauzée (1717-1789) parlò di «genio delle lingue», ossia la caratteristica particolare che contraddistingue le lingue l’una dall’altra, con l’idea che «è al modo in cui le parole vengono usate che bisogna ricorrere per riconoscere l’identità o la differenza del genio delle lingue e per stabilire se abbiano o meno qualche affinità con altre».

L’espressione genio della lingua non avrà immediatamente molta eco, ma ritroverà la sua importanza qualche secolo più tardi negli scritti di Edward Sapir (1884-1939), che usò tale concetto in un primo lavoro del 1921 per «designare l’insieme di quei tratti che caratterizzano la struttura di una data lingua». Sapir, che di sicuro conosceva Humboldt, pur senza mai citarlo, giunse a parlare di rapporto tra lingua e pensiero in termini simili a quelli usati dallo studioso tedesco. Come avrà modo di scrivere in La situazione della linguistica in quanto scienza, «gli esseri umani non vivono soltanto nel mondo obiettivo, e neppure soltanto nel mondo dell’attività sociale come si intende comunemente, ma dipendono in maniera importante dalla singola lingua che è divenuta il mezzo di espressione della loro società» e che «in gran parte noi vediamo, udiamo, e in generale proviamo le esperienze che proviamo proprio perché le abitudini linguistiche della nostra comunità ci predispongono a scegliere certe interpretazioni». Alcuni anni dopo lo studioso assumerà una posizione molto più marcata, sostenendo l’incommensurabilità tra due lingue diverse, se e solo se queste siano l’esito di tradizioni storiche e culturali molto distanti.

L’eredità di Sapir fu poi presa da un suo studente: Benjamin Lee Whorf (1897-1941), il quale, pur non essendo un linguista di professione, si guadagnò assieme al maestro un posto nell’etichetta ipotesi di Sapir-Whorf. Questa denominazione nient’altro esprime se non il principio di relatività linguistica nella sua forma più forte, da rintracciarsi nell’opera Linguaggio, pensiero e realtà, per cui i «differenti osservatori non sono condotti dagli stessi fatti fisici alla stessa immagine dell’universo, a meno che i loro retroterra linguistici non siano simili, o non possano essere in qualche modo tarati». Whorf è ricordato per i suoi studi sulla lingua hopi (lingua uto-azteca parlata in Arizona del Nord) che, a detta dell’autore, sarebbe una lingua «senza tempo»; in effetti, egli affermò che in questa lingua non esiste un concetto di tempo simile a quello matematico che noi abbiamo. Il tempo degli hopi sarebbe un «tempo psicologico, che è molto simile alla “durata” di Bergson»; in forza di ciò, arrivò alla conclusione generale che «i concetti di tempo e materia non sono dati a tutti gli uomini sostanzialmente nella stessa forma, ma dipendono dalla natura della lingua o delle lingue attraverso il cui uso si sono sviluppati». Il principio di relatività linguistica, espresso nei termini di Whorf, affascinò per anni gli studiosi, e avrebbe di certo continuato a farlo se il linguista Ekkehart Malotki (n.1938) non avesse pubblicato nel 1983 un libro intitolato Hopi Time, in cui si trattò delle molteplici espressioni di tempo presenti in quella lingua, rivelate dagli approfonditi studi sul campo in Arizona, che Whorf invece non svolse mai.

Non si può tuttavia sostenere che il lavoro di Malotki abbia definitivamente confutato l’ipotesi di Sapir-Whorf; in Hopi Time vengono solo descritte e riportate le referenze di tempo presenti in detta lingua:

in generale, conclusioni di questo tipo, ovvero una risposta alla teoria di Whorf riguardo “se sia possibile una civiltà come la nostra con una concezione radicalmente differente del tempo”, posto che una concezione del tempo debba necessariamente variare a seconda dei parlanti di lingue diverse, dovrebbero essere lasciate ad altri. Il mio compito è stato semplicemente quello di rendere testimonianza della dimensione temporale nella lingua Hopi.

Possiamo dunque fin qui sostenere che l’azione del linguaggio sul pensiero sia una forma di determinismo? Alcuni autori, contrariamente a ciò, hanno affermato che il linguaggio orienta il pensiero all’interno di una certa prospettiva, fornendogli strutture di significato adeguate alla conoscenza del mondo, mettendo in risalto che la vera limitazione, invece, sta nel determinare il contenuto del pensiero senza ricorrere al linguaggio. Per determinare tale contenuto occorre, infatti, aver prima di tutto acquisito la forma linguistica di ciò che si vuole esprimere, sicché un contenuto è sempre tale tramite una lingua, la quale è matrice di ogni espressione: il pensiero non può determinarsi senza linguaggio. Si esprime con queste parole É. Benveniste (1902-1976) in un lavoro del 1966, quando scrive:

«la forma linguistica […] è non solo condizione di trasmissibilità, ma in primo luogo la condizione di realizzazione del pensiero. Noi cogliamo il pensiero solo quando è conforme agli schemi della lingua. All’infuori di questo, non c’è che volizione oscura, impulso che si risolve in gesti, mimica».

Possiamo trovare qualcosa nel pensiero che sia veramente scevro da qualsiasi rivestimento linguistico? Alla luce di queste considerazioni, sembrerebbe di no, soprattutto se «è ciò che si può dire che delimita e organizza ciò che si può pensare. La lingua fornisce la configurazione fondamentale delle proprietà che la mente riconosce alle cose». Alla questione se il linguaggio determini o meno il pensiero, e quindi la percezione della realtà, Benveniste sembra rispondere che non esiste affatto un rigoroso determinismo, ma che tuttavia il linguaggio è in rapporto con il pensiero e lo definisce nello stesso modo in cui le limitazioni fisiche, ad esempio, determinano i nostri movimenti. In tal senso, l’apprendimento di altre lingue può provocare un affrancamento dalla prospettiva in cui siamo conchiusi e determinati, senza però mai raggiungere una libertà assoluta dal linguaggio. Inoltre, nessun tipo di lingua può per se stesso e da solo favorire o impedire l’attività mentale. La possibilità del pensiero è legata alla facoltà di linguaggio, poiché la lingua è una struttura informata di significato, e pensare vuol dire maneggiare i segni della lingua.

Non è mai stata presentata alcuna prova, finora, che suffragasse un forte determinismo linguistico à la Whorf. Vogliamo qui ricordare la felice espressione del linguista spagnolo Francisco Villar che, non senza un certo romanticismo, raccoglie le istanze di molti studiosi del linguaggio che ciò nonostante conservano la tendenza a considerare la lingua come «la finestra attraverso la quale l’uomo guarda il suo mondo. La concezione che ciascun uomo ha del divino, dei suoi simili, delle relazioni familiari, del mondo, è profondamente radicata nella lingua materna in cui ha incominciato a parlare. Potremmo dire che se di un popolo conoscessimo soltanto la lingua, e nient’altro, sicuramente potremmo in buona misura comprenderne le mentalità, le credenze, le concezioni: in una parola, la sua Weltanschauung».

Inoltre, si provi a immaginare quale grande ricchezza l’uomo può attingere attraverso lo studio di una seconda lingua; si pensi a tutti quei termini, del resto intraducibili, che rappresentano concetti per gran parte inaccessibili ai parlanti un’altra lingua. Ad esempio, diversi sono stati gli studi tesi alla ricostruzione della cultura indoeuropea sulla sola base lessicale; un lavoro che spicca fra tutti è il celebre Vocabolario delle istituzioni indoeuropee di Benveniste, in cui si tenta di risalire attraverso la comparazione linguistica – risolvendone, pertanto, alcuni problemi legati a una erronea interpretazione lessicale – ad un quadro economico e sociale generale di tale popolazione, la cui esistenza è stata inizialmente ipotizzata sulla sola base linguistica. Per quel che concerne, infine, il problema del relativismo linguistico, non se ne può dare qui una soluzione definitiva; starà agli studi psicolinguistici ed etnolinguistici verificare la fondatezza di tale ipotesi, che per ora rimane un problema aperto.

Per saperne di più:

Il primo testo di riferimento per lo studio del relativismo linguistico è quello di Humboldt, La diversità delle lingue, Laterza, Roma-Bari 1991; un testo utile per comprendere la posizione di Sapir è La situazione della linguistica in quanto scienza, in T. Bolelli, Per una storia della ricerca linguistica. Testi e note introduttive, Morano, Napoli 1965, pp. 507-517; di Whorf consigliamo l’opera peculiare, Linguaggio, pensiero e realtà, Bollati Borighieri, Torino 1970.

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