Nell’ultimo decennio, il tema del sindacato esercitato dalla Corte di cassazione sulle sentenze del giudice amministrativo (e del giudice contabile) ai sensi dell’art. 111, comma 8, Cost., ha dato luogo ad un vivace dibattito dottrinario e giurisprudenziale.

I mobili confini del sindacato della Cassazione

Secondo l’impostazione tradizionale, alle Sezioni unite della Corte di cassazione è devoluto il controllo sull’osservanza dei c.d. “limiti esterni” della giurisdizione amministrativa, potendo stabilire il perimetro entro cui il g. a. possa ritenersi investito del potere di decidere una determinata controversia, sia in relazione alla giurisdizione di altri giudici, sia in rapporto alle attribuzioni di altri poteri dello Stato. Il sindacato sulle pronunce del giudice amministrativo in relazione alle violazioni di norme sostanziali (errores in iudicando) e processuali (errores in procedendo) è, invece, esercitato dal Consiglio di Stato nella sua veste di guardiano dei c.d. “limiti interni”.

Più di recente, tuttavia, nell’ambito di una più ampia riflessione sulla stessa attualità della giustizia amministrativa (avviata già da Nigro M., È ancora attuale una giustizia amministrativa?, in Il Foro italiano, 1983, V, cc. 249-258, spec. 252; successivamente Orsi Battaglini A., Alla ricerca dello Stato di diritto. Per una giustizia «non amministrativa» (Sonntagsgedanken), Milano, 2005), si è iniziato a mettere in discussione il tradizionale assetto dei rapporti tra giudice amministrativo e giudice ordinario, anche alla luce della grande estensione dei casi di giurisdizione esclusiva (Carratta A., Diritti fondamentali e riparto di giurisdizione, in Rivista di diritto processuale, 2010, 27 ss.; Travi A., Luci ed ombre nella tutela dei diritti davanti al giudice amministrativo, in Questione giustizia, 2015, 153 ss.; Cudia C., Appunti per un dibattito su Cassazione e pubblica amministrazione, in Diritto pubblico, 2015, fasc. 1, 127 ss.). E infatti, poiché il quadro attuale ammette che sulle questioni di diritto civile, nell’ambito delle rispettive giurisdizioni, si possano pronunciare, quali giudici di ultima istanza, sia la Corte di cassazione, sia il Consiglio di Stato, ciò comporta il rischio che in certe situazioni si formi sulle medesime disposizioni una giurisprudenza amministrativa diversa da quella civile, tenuto anche conto che l’ordinamento non prevede uno strumento di raccordo istituzionale fra i due plessi giurisdizionali.

Di qui, lo sviluppo nella prassi di orientamenti giurisprudenziali che, a costituzione invariata, hanno tentato di allargare i confini della nozione di “giurisdizione” al fine di ampliare il controllo della Cassazione sul giudice amministrativo. Tale tendenza sembrerebbe tuttavia essere stata recentemente limitata dalla Corte costituzionale, con l’importante sentenza 18.1.2018, n. 6.

I recenti tentativi di estensione del sindacato

Venendo all’impostazione tradizionale del controllo in Cassazione delle sentenze del giudice amministrativo, va evidenziato che per molto tempo si è concepita la presenza di  una questione inerente la giurisdizione in caso di: a) sconfinamento in altra giurisdizione (difetto relativo) o negazione della propria giurisdizione; b) eccesso di potere giurisdizionale (quando il Consiglio di Stato invade le attribuzioni riservate al legislatore o all’autorità amministrativa); c) difetto assoluto di giurisdizione (quando la pretesa dedotta in giudizio non sia suscettibile di tutela giurisdizionale); d) rifiuto di giurisdizione, basato sull’erroneo convincimento che la pretesa non possa essere tutelata (Chieppa R. - Giovagnoli R., Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2017, 1225).

Sotto il versante giurisprudenziale va dato atto che l’impostazione tradizionale è stata sempre seguita dalle Sezioni unite, salvo poche eccezioni. La Cassazione, per esempio, ha costantemente escluso dal suo sindacato le sentenze del Consiglio di Stato in materia di diritti soggettivi conosciuti nell’ambito della giurisdizione esclusiva, sconfessando le aperture di una parte della dottrina (il riferimento è a Cass., S.U., 17.7.1973, n. 2078). In altre occasioni, inoltre, ha fornito un’interpretazione restrittiva della categoria dell’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore o per vizi di costituzione del giudice (ex multis, Cass., S.U., 20.7.2012, n. 12607 e 1.7.2009, n. 15383). La giurisprudenza, pertanto, ha limitato il suo sindacato ai soli casi eccezionali di sconfinamento, escludendo il sindacato sul modo di esercizio della funzione giurisdizionale, anche nei casi di violazioni gravi come la motivazione inesistente o apparente (Cass., S.U., n. 7799/2005).

In sintesi, secondo l’impostazione tradizionale ancora prevalente – a fortiori ratione, come si vedrà, dopo la sentenza n. 6/2018 della Corte costituzionale – il concetto di eccesso di potere giurisdizionale è definito come “superamento dei cd. limiti esterni della giurisdizione”, nei soli casi di «esercizio di un potere giurisdizionale sostanzialmente inesistente» (Lamorgese A., La giurisdizione contesa, Torino, 2014, 65).

È tuttavia d’uopo segnalare che di recente si è andata progressivamente affermando la tendenza ad ampliare l’ambito del sindacato dalla Corte di cassazione, facendo leva sui principi di effettività della tutela, unità funzionale della giurisdizione, giusto processo e primazia del diritto UE (in senso favorevole cfr. Corpaci A., Note per un dibattito in tema di sindacato della Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato, in Diritto pubblico, 2013, 341 ss.).

Le ragioni di questo mutamento di prospettiva sono state ricostruite puntualmente dalla sentenza delle Sezioni unite del 23.12.2008, n. 30254, nella quale è stato affermato che «è norma sulla giurisdizione non solo quella che individua i presupposti dell'attribuzione del potere giurisdizionale, ma anche quella che dà contenuto al potere stabilendo attraverso quali forme di tutela esso si estrinseca». Rientrerebbe, quindi, nello schema logico del ricorso per motivi inerenti alla giurisdizione «l’operazione che consiste nell'interpretare la norma attributiva di tutela, per verificare se il giudice amministrativo non rifiuti lo stesso esercizio della giurisdizione, quando assume della norma un'interpretazione che gli impedisce di erogare la tutela per come essa è strutturata».

Alla base di questo approdo giurisprudenziale vi è la convinzione che taluni errori in procedendo o in iudicando (censurabili esclusivamente dal Consiglio di Stato) possano essere, per la loro manifesta gravità, il sintomo del superamento dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa.

Con la valorizzazione della concezione cd. funzionale, si è registrato, in altre parole, un passaggio dal sindacato sull’an e sul quantum della giurisdizione ad un controllo sul «quomodo del concreto esercizio della giurisdizione da parte del giudice amministrativo» (Verde, G., La Corte di Cassazione e i conflitti di giurisdizione (appunti per un dibattito), in Il Diritto processuale amministrativo, 2013, 367 ss., spec. 375).

Pur tuttavia, gli orientamenti giurisprudenziali fondati sulla concezione funzionale non sono stati numerosissimi ed hanno riguardato principalmente:

  1. a) la negazione del risarcimento del danno per pregiudiziale amministrativa (tra le prime Cass., S.U., 13.06.2006, 13659; Cass., S.U., 23.12.2008, n. 30254; Cass., S.U., 16.12.2010, n. 25395);

  2. b) il radicale stravolgimento delle norme europee come interpretate dalla Corte di giustizia in materia di appalti (Cass., S.U., 06.02.2015, n. 2242 e, tra le ultime, , S.U., 29.12.2017, n. 31226).

Nella gran parte dei casi, invero, la Cassazione ha mantenuto un certo self-restraint.

Infatti, la nozione di “eccesso di potere giurisdizionale” non è stata ampliata fino a ricomprendere il rifiuto immotivato da parte del G.A. di operare il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE (Cass., S.U., n. 956/2017; S.U., n. 21617/2017; S.U., 2569/2016) ovvero il caso in cui il giudice amministrativo abbia negato in concreto della sussistenza di una situazione di interesse legittimo (Cass., S.U. n. 19391/2007).

Alcuni autori, comunque, non hanno lesinato critiche all’orientamento contraddittorio ed oscillante delle Sezioni unite, «che spesso dà l’impressione di una giurisprudenza del caso per caso e, talora e purtroppo, di una giurisprudenza octroyée» (Verde, G., cit., 369).

Corte costituzionale n. 6 del 2018

Con la sentenza n. 6/2018, la Corte costituzionale è intervenuta per chiarire i rapporti tra giurisdizione ordinaria e amministrativa, tracciando in modo netto i confini del sindacato della Corte di cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato ai sensi degli artt. 111, co. 8, Cost., 110 c.p.a. e 362, co. 1, c.p.c.

La “storica” pronuncia, che ha avuto origine da un’ordinanza di rimessione della Corte di cassazione in cui si dubitava della compatibilità costituzionale dell’art. 69, co. 7, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, in relazione all’art. 117, co. 1, Cost., con specifico riguardo ai principi di diritto enunciati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nelle sentenze Mottola e Staibano, ha stabilito che l’orientamento dottrinario e giurisprudenziale secondo cui «il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione […] comprenda anche il sindacato su errores in procedendo o in iudicando non può qualificarsi come una interpretazione evolutiva» poiché una siffatta lettura dell’art. 111, co. 8, Cost. «non è compatibile con la lettera e lo spirito della norma costituzionale».

Il giudice delle leggi ha avuto modo di precisare il concetto di controllo sull’osservanza dei limiti esterni della giurisdizione «non ammette soluzioni intermedie, come quella […] secondo cui la lettura estensiva dovrebbe essere limitata ai casi in cui si sia in presenza di sentenze “abnormi” o “anomale” ovvero di uno “stravolgimento”, a volte definito radicale, delle “norme di riferimento”».

Difatti, prosegue la Corte, «[a]ttribuire rilevanza al dato qualitativo della gravità del vizio è, sul piano teorico, incompatibile con la definizione degli ambiti di competenza e, sul piano fattuale, foriero di incertezze, in quanto affidato a valutazioni contingenti e soggettive». Sulla base di tali premesse, pertanto, «[l]’intervento delle sezioni unite, in sede di controllo di giurisdizione, nemmeno può essere giustificato dalla violazione di norme dell’Unione o della CEDU» poiché, diversamente opinando, verrebbe «ricondotto al controllo di giurisdizione un motivo di illegittimità (sia pure particolarmente qualificata)».

Tale pronuncia, inserendosi nel più ampio dibattito sull’unità della giurisdizione, rappresenta un evidente limite alla possibilità di ricorrere ad un’interpretazione evolutiva dell’art. 111 Cost., caldeggiata da una parte della dottrina e della giurisprudenza, anche al fine di superare le criticità connesse alla mancata previsione di un terzo grado di giudizio nelle materie di giurisdizione esclusiva.

Criticità e prospettive

Una volta ricostruito, sia pur sommariamente, il quadro giurisprudenziale e dottrinario nel quale si innesta la sentenza n. 6 del 2018, il suo impatto risulta ancor più evidente.

Sono di particolare pregio, infatti, i rilievi che la Corte ha mosso per negare la rilevanza della questione sollevata dalle Sezioni unite nella veste di giudice dei conflitti di giurisdizione, in quanto compendiano efficacemente le ragioni storico-sistematiche situate sullo sfondo dell’art. 111, co. 8, Cost.

In primo luogo, infatti, l’anzidetta disposizione «attinge il suo significato e il suo valore dalla contrapposizione con il precedente comma settimo, che prevede il generale ricorso in cassazione per violazione di legge contro le sentenze degli altri giudici, contrapposizione evidenziata dalla specificazione che il ricorso avverso le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti è ammesso per i «soli» motivi inerenti alla giurisdizione». Da ciò ne consegue che «deve ritenersi inammissibile ogni interpretazione di tali motivi che, sconfinando dal loro ambito tradizionale, comporti una più o meno completa assimilazione dei due tipi di ricorso».

In secondo luogo, con riferimento al tema dell’unità della giurisdizione, il giudice costituzionale ha nuovamente affermato che «l’unità funzionale non implica unità organica delle giurisdizioni, e che i Costituenti hanno ritenuto di dover tener fermo l’assetto precostituzionale, assetto che vedeva attribuita al giudice amministrativo la cognizione degli interessi legittimi e, nei casi di giurisdizione esclusiva, dei diritti soggettivi ad essi inestricabilmente connessi».

Infine, relativamente ai richiamati principi di effettività della tutela e giusto processo, fa notare la Corte che «non c’è dubbio che essi vadano garantiti, ma a cura degli organi giurisdizionali a ciò deputati dalla Costituzione e non in sede di controllo sulla giurisdizione».

Nonostante queste attestazioni di principio, tuttavia, permangono alcune perplessità relativamente all’“assetto incompiuto” della giustizia amministrativa.

La dottrina maggioritaria, nel corso degli anni, ha rammentato a più riprese che, de iure condendo, la via maestra rimane quella della riforma istituzionale, indicata più di un secolo fa da Ludovico Mortara per addivenire ad un giudice della giurisdizione a composizione mista (cfr. Verde, G., cit., 383; Maruotti, L., Questioni di giurisdizione ed esigenze di collaborazione tra le giurisdizioni superiori, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2012, 705 ss., spec. 720; Villata, R., "Lunga marcia" della Cassazione verso la giurisdizione unica ("dimenticando" l'art. 103 della Costituzione)? in Il Diritto processuale amministrativo, 2013, fasc. 1, 324 ss.). All’interno di questo filone di pensiero – favorevole ad un ripensamento della composizione del Supremo giudice della giurisdizione – è possibile distinguere tra chi configura come necessario l’intervento del legislatore costituzionale e chi, all’opposto, ritiene possibile la novella a Costituzione invariata (Roehrssen G., Considerazioni sui conflitti di giurisdizione, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1986, 1093 ss., spec. 1132), suggerendo l’integrazione delle Sezioni unite con due componenti del Consiglio di Stato, da attuarsi con legge ordinaria.

La soluzione da ultimo prospettata, auspicata già nel 2011 dal Presidente del Consiglio di Stato pro tempore De Lise, ha trovato pieno riscontro anche nel Memorandum sottoscritto dai vertici delle tre giurisdizioni superiori e consegnato al Presidente della Repubblica il 15 maggio 2017, con cui è stato sancito il reciproco impegno a «valutare, previe opportune consultazioni al proprio interno e con i competenti organi di autogoverno, la possibilità di promuovere l’introduzione di norme, a Costituzione invariata, che consentano forme di integrazione degli organi collegiali di vertice con funzioni specificamente nomofilattiche delle tre giurisdizioni […] con magistrati di altre giurisdizioni, quando si trattino questioni di alto e comune rilievo nomofilattico, ivi comprese, per le Sezioni unite della Corte di cassazione, quelle attinenti alla giurisdizione».

In conclusione, dopo la sentenza n. 6/2018 della Corte costituzionale, al giurista non resta che chiedersi se tale intervento non abbia messo definitivamente la parola fine alla disputa sui «motivi inerenti alla giurisdizione», in un certo senso superando gli auspici della dottrina favorevole alla rimeditazione della composizione delle Sezioni unite, oppure, all’opposto, se siffatta pronuncia non rappresenti l’ennesimo capitolo di una vexata quaestio alla quale il legislatore (ordinario e/o costituzionale) è tenuto a fornire una soluzione il più possibile condivisa.

Ad avviso di scrive, le criticità del sistema, soprattutto con riguardo all’assenza di un terzo grado di giurisdizione, meriterebbero un intervento di riforma a livello costituzionale, a prescindere dall’ammissibilità di un’interpretazione evolutiva che, a seguito del pronunciamento della Corte, sembra definitivamente preclusa.

Immagine: Jordiferrer [CC BY-SA 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)], from Wikimedia Commons

Pubblicato il 5 dicembre 2018