Le polizze linked costituiscono un diffuso prodotto assicurativo del ramo vita in cui le prestazioni principali gravanti sulle parti sono collegate in tutto in parte all’andamento di un parametro di natura finanziaria, che può individuarsi nel valore di quote di fondi di investimento collettivo del risparmio o, ma sempre più raramente, di fondi interni all’impresa di assicurazione (polizze “unit-linked”) ovvero in indici o altri valori di riferimento, quali ad esempio un indice di borsa o l’indice ISTAT del costo della vita (“index-linked”).

A differenza del contratto di assicurazione sulla vita tradizionalmente inteso (che garantisce all’assicurato la futura corresponsione di un capitale predeterminato nel quantum fin dal momento della stipulazione del contratto), dunque, nelle polizze linked l’entità della somma dovuta dall’assicuratore all’assicurato al momento del verificarsi di un “evento attinente alla vita umana” varia nel corso della durata del rapporto contrattuale, in dipendenza delle oscillazioni del parametro finanziario “collegato”.

L’ideazione delle polizze collegate ha rappresentato, fin dagli anni ’70 dello scorso secolo, una soluzione contingente alla crisi dei prodotti vita tradizionali causata dall’inflazione. Di fatti, essi non apparivano più in grado di conservare il valore reale dei capitali versati a titolo di premio da parte degli assicurati, e, dunque, di assolvere quello scopo di capitalizzazione e messa in sicurezza del risparmio che aveva rappresentato la fortuna dell’assicurazione sulla vita (in specie per compensare le mancanze della previdenza pubblica).

Successivamente, le polizze linked si sono evolute come “prodotti ibridi”, che combinano la forma esteriore dei tradizionali contratti di assicurazione sulla vita, con la sostanza e con le logiche del collocamento presso il grande pubblico dei risparmiatori tipiche delle operazioni di investimento attuate mediante la sottoscrizione di prodotti finanziari. Esse si inseriscono, dunque, nel tentativo da parte delle imprese di assicurazione di offrire un complesso servizio di gestione del risparmio degli assicurati, che non sia più limitato alla conservazione del capitale da essi investito mediante il versamento dei premi, ma guardi alle lucrose, e spesso rischiose, opportunità offerte dal mercato dei valori mobiliari. Come è stato efficacemente detto, esse rappresentano «la sintesi di due anime diverse dello stesso mercato» (Pirilli, D., Le polizze unit linked (ancora) al vaglio della giurisprudenza, in Resp. Civile e Previdenza, 2017, 582).

Sul piano civilistico, le polizze in oggetto hanno sollevato un annoso dibattito che ha coinvolto la dottrina e la giurisprudenza anche di legittimità (da ultimo Cass., ord. 30.4.2018 che, nonostante la particolare risonanza mediatica, non ha che ricondotto alle conclusioni già raggiunte nella nota Cass., sent. 18.4.2012, n. 606) nell’individuazione della natura dei relativi contratti.

In particolare, dottrina maggioritaria ha evidenziato l’incompatibilità delle caratteristiche assunte dalle polizze linked (la struttura collegata e, dunque, l’assetto di rischi da esse realizzato tra le parti) rispetto alla causa del tipo contrattuale assicurazione sulla vita delineato dagli artt. 1919 e ss. c.c. Da una parte, infatti, variando l’entità del capitale cui l’assicurato ha diritto in virtù della variazione di un valore mobiliare o di un altro parametro di natura finanziaria, esse collocano in capo al contraente un rischio di investimento analogo a quello che caratterizza i prodotti stricto sensu finanziari, in particolare ove lo stesso contratto (è il caso del collegamento integrale realizzato dalle polizze linked “pure”) non garantisca all’assicurato la restituzione di quanto versato a titolo di premio, esponendolo anche a perdite in caso di variazione negativa del parametro sottostante o del manifestarsi di una situazione di insolvenza dell’emittente i titoli collegati (è quanto accaduto per migliaia di sottoscrittori di polizze del ramo III in occasione del fallimento della società Lehman Brothers Inc. nel 2008). Ove poi la prestazione dell’assicurato da altro non dipenda se non dalle oscillazioni del parametro finanziario collegato, non soltanto viene quanto meno messo in dubbio che l’impresa di assicurazione assuma alcun rischio legato alla durata dell’umana esistenza (in altre parole alcun “rischio demografico”), ma non si può certamente affermare l’idoneità delle polizze linked a soddisfare quelle finalità previdenziali che, secondo la Cassazione, definiscono la causa del contratto di assicurazione sulla vita. Rischio e previdenza, infatti, costituiscono un accostamento certamente ossimorico.

In definitiva, spetta al giudice di merito «interpretare il contratto al fine di stabilire se esso, al di là del nomen iuris attribuitogli, sia da identificare effettivamente come polizza assicurativa sulla vita (in cui il rischio avente ad oggetto un evento dell'esistenza dell'assicurato è assunto dall'assicuratore), oppure si concreti nell'investimento in uno strumento finanziario (in cui il rischio c.d. di performance sia per intero addossato sull'assicurato» (Cass., sent. 18.4.2012, n. 6061). A tal fine egli potrà avvalersi di una serie di “indici rivelatori” della natura finanziaria del contratto: il versamento del premio in una soluzione unica, la durata fissa o a termine molto breve del contratto, la facoltà di esercitare diritto di riscatto trascorso un breve periodo dalla stipulazione della polizza (che consente all’assicurato di ottenere l’immediata liquidazione del controvalore dei premi in base al parametro finanziario linked, sulla base di una mera decisione di convenienza economica); il momento dedicato alla stipulazione delle polizze linked, spesso limitato al periodo temporale di emissione delle obbligazioni sottostanti.

Sintetizzando tali indici, la dottrina ha proposto l’utile classificazione tra polizze guaranteed linked, che garantiscono all’assicurato la restituzione del capitale, a volte prevedendo una maggiorazione minima, dunque conservano la natura di contratti assicurativi del ramo vita; partial guaranteed linked”, per le quali la garanzia di restituzione è solo parziale; bare linked, che fanno invece dipendere la determinazione della somma dovuta dall’assicuratore esclusivamente dall’incerto valore del parametro finanziario sottostante nel momento in cui l’obbligazione diventa esigibile (in poche parole, che realizzano un collegamento “integrale”). Tali ultime due specie, al venir meno della soglia minima di sicurezza insita nella stessa definizione di “assicurazione”, rappresentano null’altro se non lo strumento giuridico per la realizzazione di un’operazione di investimento.

Come noto, la qualificazione del contratto è sempre funzionale all’individuazione della disciplina applicabile ad esso e al rapporto da esso instaurato tra le parti. Nonostante la crescente rilevanza assunta dalla stipulazione di polizze linked nel mercato assicurativo, per lungo tempo il legislatore non si è interessato al fenomeno, se non nella misura in cui l’emissione di polizze assicurative-finanziarie incidesse sulla stabilità dell’esercizio dell’impresa di assicurazione (in questo senso, per chi voglia approfondire, le Direttive n. 79/267/CE, n. 91/674/CE e n. 92/96/CE, che facevano riferimento alle polizze linked esclusivamente ai fini della disciplina del margine di solvibilità, delle riserve tecniche e delle relative attività a copertura imposte alle imprese di assicurazione emittenti).

In assenza di una disciplina ad hoc, l’inedita esposizione dei sottoscrittori di polizze collegate al rischio finanziario ha fatto emergere altrettanto inedite necessità di tutela, di fronte alle quali gli strumenti approntati dalla normativa assicurativa (in particolare all’epoca antecedente l’emanazione del Cod. Ass.) si sono ben presto rivelati inadatti, specie sotto il profilo della tutela informativa precontrattuale degli assicurati.  Nonostante l’(abrogato) art. 100, comma 1, lett. f) t.u.f. escludesse letteralmente l’applicazione della disciplina sulla sollecitazione del pubblico risparmio (in particolare artt. 21 e 23 t.u.f., integrati dalla normativa regolamentare della Consob) al collocamento dei prodotti emessi dalle imprese di assicurazione, per garantire ai sottoscrittori delle polizze linked stipulate prima del 2006 una tutela efficace, in numerose occasioni i giudici di merito hanno qualificato le polizze loro sottoposte quali prodotti finanziari (si veda, per tutte, App. Milano, sent. 11.5.2016, n. 1800).

Successivamente, il legislatore (l. 28.12.2005, n. 262, c.d. “Legge sul risparmio” e d. lgs. 29.12.2003, n. 303, c.d. “Decreto Pinza”) ha pacificato la questione, disponendo ex lege che ai “prodotti finanziari emessi dalle imprese di assicurazione”, ovvero “le polizze e le operazioni di cui ai rami vita III e V” (art. 1, comma 1, lett. w-bis), dovessero essere in ogni caso applicate le norme previste per l’emissione di prodotti finanziari, a prescindere che fossero o meno polizze garantite (art. 25_bis_ t.u.f., nella formulazione abrogata alla data odierna). Tal soluzione è stata peraltro confermata dal d. lgs. 3 agosto 2017, n. 129, che ha essenzialmente riprodotto il contenuto dell’art. 25_bis_ t.u.f. all’art. 25_ter_, rubricato “Prodotti finanziari emessi da imprese di assicurazione”. Parimenti, le imprese assicurative emittenti prodotti del ramo III venivano sottoposte ai poteri di vigilanza, anche regolamentare, della Consob.

Nel corso della stagione normativa iniziata nel 2005 (integrata da una pioggia di interventi regolamentari dell’Ivass e della Consob, il cui sovrapporsi non ha certo giovato in termini di certezza del diritto), le regole di comportamento imposte per l’emissione e la distribuzione di polizze linked sono state così assimilate a quelle originariamente previste per i prodotti di investimento in senso stretto.

A livello comunitario, le più recenti manifestazioni di tal progetto sono rappresentate dal Regolamento UE n. 1286/2014 e dalla Direttiva 2016/97/UE Insurance Distribution Directive (2016/97/UE). Quest’ultima, in particolare, ha ricevuto attuazione in Italia con il d. lgs. 21 maggio 2018, n. 68, che ha introdotto nel dettato del t.u.f. la categoria dei Packaged Retail and Insurance-based Investment Products.

Nell’ambito di questo nuovo genus di prodotti, in particolare, assumono rilevanza gli IBIP (“Insurance-based Investment products”, tradotto dalla normativa domestica come “Prodotti di investimento assicurativi”), definiti come prodotti che “presentano una scadenza o un valore di riscatto esposti in tutto o in parte, in modo diretto o indiretto, alle fluttuazioni del mercato” (art. 1, comma 1, lett. w-bis.2) del t.u.f.).

Nonostante l’abrogazione dell’espresso richiamo alle polizze del ramo III, tal definizione non può che ad essa far pensare. E ciò anche per ragioni sistematiche, in quanto il novellato art. 25_ter_ del t.u.f. si riferisce ora proprio agli IBIP, disponendo che alla distribuzione di tale specie di prodotti si applichino le norme del Titolo IX Cod. Ass. (artt. 121_quate_r-121_septies_), riformate coerentemente al disposto della Direttiva sulla Distribuzione Assicurativa, a sua volta ispirato al contenuto della Direttiva 2014/65/UE Markets in Financial Instruments Directive.

Rimangono aperti, anche a seguito della riforma, i dubbi circa il rapporto tra le categorie normative succedutesi nella normativa settoriale assicurativa e finanziaria, da ultimo la nozione di IBIP, e il contratto di assicurazione sulla vita disciplinato dal Codice civile, ai fini dell’applicazione o meno delle norme particolarmente favorevoli che quest’ultimo dedica all’assicurazione sulla vita (specie dell’art. 1923 c.c. che rappresenta un importante strumento di separazione patrimoniale in capo agli assicurati). Essenzialmente fondato sulle finalità previdenziali che ostano al trasferimento del rischio di perdita del capitale versato a titolo di premio, il tipo codicistico sembra essere ormai lungi dalla prassi assicurativa e dalla nozione di assicurazione sottesa alla normativa di matrice comunitaria.

Bibliografia essenziale

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Pubblicato il 30/01/2019