Le sentenze della prima sezione civile della Corte di cassazione dello scorso maggio 2017, con le quali è stata segnata perentoria svolta sul diritto all’assegno divorzile (10 maggio 2017 n. 11504) e all’assegno di contributo al mantenimento tra coniugi separati (16 maggio 2017 n. 12196), sono divenute di vasta notorietà nelle riviste di settore e nei media, animando commenti e discussioni.

Quest’ultimo responso ribadisce con fermezza il principio per cui in costanza del vincolo di coniugio, pur in regime di vita separata, il coniuge svantaggiato ha diritto a conservare il tenore di vita (definizione convenzionale che racchiude il complessivo confronto delle condizioni personali e patrimoniali dei coniugi) condotto durante la convivenza, salva ovviamente la condizione ostativa della declaratoria di addebito della sopravvenuta crisi del rapporto; la conferma di tale principio gioca un ruolo importante proprio nel confronto con la misura post-coniugale, nonostante la dizione normativa in ordine al possesso di “mezzi adeguati” che si rinviene nell’art. 156 c.c., sia in buona sostanza sovrapponibile a quella che si rinviene nell’art. 5, comma 6°, l. div.; senza trascurare che l’allentamento del vincolo che si produce già nella fase della separazione personale, sotto plurimi profili e tanto più secondo gli odierni costumi sociali, risulta di similare severità; peraltro, per un lasso temporale oramai di scarso rilievo (sei mesi, in caso di soluzione per mero consenso, od un anno, in ipotesi contenziosa).

Con la prima sentenza, di cui non sfugge il connotato “rivoluzionario” rispetto al radicato parametro decisorio pluridecennale, in estrema sintesi, rimarcata la natura assistenziale dell’assegno che trova titolo nella sentenza di status divorzile, viene invece affermato che questa misura solidaristica non sarebbe funzionale al mantenimento del cd. tenore di vita matrimoniale, a favore del coniuge svantaggiato richiedente, bensì ad assicurarne la condizione personale atta a condurre una esistenza libera e dignitosa, improntata al criterio generale dell’autoresponsabilità dei singoli.

Questo discrimine impone in primo luogo la verifica della ricorrenza di una condizione di non autosufficienza personale rispetto ad una tale soglia ed il giustificato mancato raggiungimento dell’indipendenza economica stessa.

Il possesso di redditi correnti, della casa d’abitazione od altra similare condizione sociale, secondo l’enumerazione esemplificativa offerta dalla stessa Corte di legittimità, impedisce pertanto il riconoscimento di tale diritto all’assistenza post-coniugale.

Il dato saliente del mutato indirizzo risiede in una logica che finisce, da un lato, per “accentuare” il significato dello status libertatis del “già coniuge” e, dall’altro, per “amputare” il composito dettato ex art. 5, comma 6°, l. div., i cui criteri non sarebbero rilevanti nella prima fase del giudizio, cioè ai fini del riconoscimento del diritto, ma solo nella successiva fase di fissazione del quantum; fase quest’ultima che però presuppone il positivo esito del medesimo primo scrutinio in punto an.

L’odierna interpretazione dell’immutato dato normativo, soluzione invero già presente, seppur di consistenza minoritaria, anteriormente alle sezioni unite del 1990 cui risale l’indirizzo consolidatosi per quasi un trentennio, ha subito prodotto, a cascata, disparati responsi da parte dei tribunali e delle corti d’appello.

Il panorama evidenzia posizioni di immediato allineamento, anche rigoroso ed oltre il principio affermato, ma non mancano espressioni di perplessità e persino di frontale reiezione di principio.

Una adesione radicale è stata mostrata dal Tribunale di Milano (ord. 22 maggio 2017), secondo cui il possesso da parte del coniuge richiedente di redditi correnti pari alla soglia di accesso al patrocinio a spese dello Stato (circa €. 1.000,00 mensili) è condizione di autosufficienza che inibisce di per sé il riconoscimento dell’assegno divorzile. La nuova disciplina sembra infine condivisa anche dal Tribunale di Torino (decr. 23 ottobre 2017), ma in fattispecie in cui la differenza di risorse economiche risultava in concreto assai contenuta.

Il Tribunale di Bari, anteriormente al nuovo indirizzo (sent. 18 aprile 2017), poneva già l’accento sul fatto che la misura non può costituire una impropria rendita di posizione.

Al contrario, una ferma critica alla nuova interpretazione è mossa dal Tribunale di Udine (sent. 1° giugno 2017), il quale, partendo dal presupposto secondo cui il nuovo indirizzo risulta largamente minoritario, contesta ogni elemento argomentativo del nuovo corso evidenziandone i punti di fragilità.

Innumerevoli le soluzioni intermedie, ma tutte accomunate dal disagio decisorio a fronte di fattispecie di merito cui mal si confà il nuovo indirizzo.

Le maggiori incertezze riguardano le ipotesi in cui il coniuge richiedente svantaggiato, pur munito di redditi correnti stipendiali oscillanti tra €. 1.000,00 e 1.500,00 mensili, veda l’altro in condizioni economico patrimoniali floride; casi in cui, ad esempio, all’insegnante con uno stipendio di €. 1.400,00 corrisponde un imprenditore o un professionista con reddito pari ad €. 6/7.000,00 mensili o superiore. Ebbene, questi casi fanno toccare con mano le criticità del nuovo corso. Difatti, anteriormente nessuno dubitava che l’insegnante in tali condizioni, magari dopo un lungo matrimonio con prole, avesse diritto all’assegno divorzile, mentre ora tale soluzione sembra esclusa dalla nuova giurisprudenza della Cassazione.

Sulla questione, il Tribunale di Mantova (sent. 26 maggio 2017) esclude con sicurezza che alla condizione di chi percepisce uno stipendio mensile di €. 1.450,00 possa riconoscersi solidarietà post-coniugale; ma la Corte d’appello di Genova (sent. 12 ottobre 2017), attraverso conclusioni apertamente dichiarate “prudenti” sulla possibile tenuta del nuovo indirizzo, partendo dal condivisibile rilievo secondo cui l’indirizzo quasi trentennale promanante dalle sezioni unite civili è stato messo in discussione dalla sezione semplice con disapplicazione dell’art. 374, comma 3°, c.p.c., riconosce €. 500,00 mensili alla ex coniuge insegnante con uno stipendio mensile di €. 1.800,00, a carico dell’altro con reddito mensile appena inferiore ad €. 4.300,00; di quest’ultimo responso colpisce l’analisi sociologica sulla precarietà del rapporto lavorativo, sulla infruttuosità del denaro e sul peso costituito dal possesso degli immobili, ma anche il fatto che l’unica figlia fosse stata cresciuta secondo un ricercato tenore di vita, cui anche la madre deve allora essere messa in condizioni di poter partecipare.

Anche il Tribunale di Roma ha manifestato incertezze e perplessità (sent. 21 luglio 2017), ponendosi in prospettiva “mediana”.

Quel che però colpisce è l’assenza di un criterio guida sicuro, assenza che rende davvero malferma anche la sola impostazione concreta dei contenziosi interessati da tale questione.

Proprio per questa ragione quanto mai opportuna appare la decisione del primo Presidente della Suprema Corte, che, raggiunto da istanza di parte ex art. 376, comma 2°, c.p.c. (ricorso n° 23138/2017 R.G.), l’ha accolta, investendo le Sezioni unite della risoluzione di questo grave contrasto di indirizzi giurisprudenziali.

Non v’è allora che confidare in una sollecita, puntuale e definitiva ricostruzione della retta interpretazione dell’art. 5, comma 6°, l. div.