di Valeria Di Masi

Cassazione Penale, Sez. I, ( ud. 17.12.2008) 13.01.2009, n 1066, Pres. Chieffi, Rel. Corradini
La richiesta di patteggiamento non è più revocabile dal momento in cui si forma il consenso tra le parti, nessun recesso è ammesso dal momento in cui le parti manifestano la propria volontà dando vita all’accordo tra esse.

Svolgimento del processo

OSSERVA

Con provvedimento in data 28 marzo 2008 il GIP del Tribunale di Bari, su istanza di Q.G., imputato dei reati di cui al D.Lgs. n 22 del 1997, artt. 53 bis e 51, che aveva dichiarato di "togliere effetto" all'accordo sulla pena ex art. 444 c.p.p. perfezionato dal suo procuratore speciale con il Pubblico Ministero, ha revocato la ordinanza con cui era stata fissata la udienza per la decisone, ai sensi dell’art. 447 c.p.p. ed ha disposto la restituzione degli atti al Pubblico Ministero, ritenendo sussistente il diritto dell'imputato di recedere dalla volontà di definire il processo trattandosi di materia incidente sulla libertà personale in cui la volontà personale deve essere sempre revocabile.

Ha proposto ricorso per Cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari rilevando: l'applicazione della pena era un negozio processuale consensuale che diventava definitivo con l'incontro delle volontà e che non era revocabile, in quanto la legge  (art. 447 c.p.p., comma 3) escludeva la revocabilità persino durante il termine fissato dal giudice per esprimere il consenso o il dissenso, mentre il richiamo alla libertà personale operato dalla ordinanza impugnata era incongruo; il provvedimento del GIP era abnorme poichè faceva regredire il processo ad una fase ormai irrevocabilmente superata. Il Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso per l'accoglimento del ricorso.

Motivi della decisione

Il ricorso è fondato.

A parte la impossibilità di revocare il consenso al patteggiamento persino durante il termine fissato all'altra parte per esprimere a sua volta il consenso ovvero il dissenso  (art. 447 c.p.p., comma 3), una volta che vi è stato l'incontro delle volontà, come nel caso in esame, non è più possibile la revoca unilaterale poichè l'accordo è stato raggiunto.

In tal senso è anche la giurisprudenza consolidata di questa Corte (v. per tutte Cass. sez. 6 n. 26976 del 2007, rv. 237095).

Nè la circostanza che il consenso fosse stato espresso dal procuratore speciale dell'imputato invece che dall'imputato personalmente modifica tale disciplina poiché la procura speciale è prevista proprio per garantire che la volontà del procuratore speciale sia perfettamente corrispondente a quella dell'imputato, che peraltro non ha negato che la sua volontà, al momento del consenso al patteggiamento, fosse proprio quella espressa dal suo procuratore speciale, mentre ha sostenuto soltanto di avere modificato la volontà a causa del passaggio del tempo.

Il provvedimento impugnato, che ha comportato una indebita regressione del procedimento alla fase delle indagini preliminare, non consentita dalla legge una volta che ha già raggiunto la fase successiva, deve essere pertanto annullato senza rinvio con trasmissione degli atti al GIP del Tribunale di Bari per l'ulteriore corso.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la ordinanza impugnata e dispone la restituzione degli atti al GIP del

Tribunale di Bari.

Così deciso in Roma, il 17 dicembre 2008.

Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2009

Il commento

di Valeria Di Masi

Il recesso non è più esercitabile dal momento in cui le parti manifestano la loro volontà, determinando quindi nel procedimento effetti irreversibili.

Con il consenso, il procedimento si avvia verso un epilogo anticipato, che con l’assunzione della qualità di imputato e l’esercizio dell’azione penale, non consente il ritorno alla fase delle indagini preliminari.

L’art. 447 c.p.p. prevede che durante il termine concesso dal giudice per esprimere il consenso o il dissenso alla richiesta di patteggiamento, quest’ ultima non sia più revocabile; sarebbe illogico ritenere che una volta raggiunto l’accordo la richiesta possa essere revocata, considerato che, diversamente, non sarebbe tutelata la controparte.

“Un triangolo che coinvolge l’organo giudicante cui è rimessa la valutazione della richiesta delle parti” ( In FERRAIOLI, Patteggiamenti e crisi della giurisdizione , in Quad. giust., 1988, 371),così viene definito il patteggiamento; a dare impulso a questo rito è una richiesta, che le parti presentano all’autorità giudicante; tale richiesta consta di una proposta di definizione anticipata del procedimento che termina poi con una sentenza di condanna.

Il patteggiamento quindi, consente ad accusa e difesa di stabilire la pena che l’organo giudicante (in TONINI, Manuale di procedura penale, Milano, Giuffrè, 2006, 624-625) ha il dovere di accertare in funzione dei canoni legali; questa caratteristica induce a collocare il patteggiamento su una linea di confine tra alternative nel processo e alternative al processo (CHIAVARIO, Accertamento del fatto, alternative al processo, alternative nel processo, in Atti del convegno dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale, Urbino, 23 24 settembre 2005, p.14.)

Al centro dell’analisi in oggetto, circa la motivazione espressa dalla Suprema Corte di Cassazione, domina il ruolo della negoziazione tra le parti, quelle parti libere di raggiungere un accordo e quindi di patteggiare la pena.

La denominazione usuale stessa del rito, “patteggiamento”, sta ad indicare la presenza di una concorde richiesta delle parti, l’intesa tra imputato e pubblico ministero che si materializza con la volontà espressa e con la sottoscrizione autenticata.

Perché il rito sia ammissibile, la parte che riceve la proposta di patteggiare deve accettarla per far sì che si definisca il procedimento mediante l’applicazione della sanzione prevista; fondamentale è, quindi, l’accettazione della parte che riceve la richiesta, la quale deve dichiarare espressamente di accettare la proposta di patteggiamento.

Nonostante ciò, essendo la volontà umana per sua natura mutevole (CREMONESI, Il patteggiamento nel processo penale, Cedam, Padova, 2005, p.167 ), può accadere che nella fase di formazione dell’accordo, una o entrambe la parti vogliano rinunciare al concordato.

Il contenuto dell’accordo è nella piena disponibilità delle parti mentre spetta al giudice la valutazione conclusiva sulla fattispecie di reato in oggetto, sull’applicazione delle circostanze e sulla congruità della pena.

Va ricordato che, in tema di patteggiamento, in primis, l’accertamento della responsabilità è decisamente meno approfondito rispetto al giudizio ordinario, poiché esso non implica, né potrebbe mai implicare - a meno di trasformarsi in una sottospecie di giudizio abbreviato - il pieno accertamento della colpevolezza ( Dell’anno, Prova di innocenza e "patteggiamento", in Giust. pen., 2005, 673).  Il giudice si limita a verificare l'assenza di cause di non punibilità e, più in generale, a controllare che l'ipotesi fattuale prospettata dalle parti non sia contraddetta dagli atti del procedimento; esito ben diverso dal provare positivamente la colpevolezza, come hanno dovuto riconoscere, dopo alcuni tentennamenti, le Sezioni unite della cassazione e la stessa Consulta (Corte cost., sent. 6 giugno 1991, n. 251, in Cass. pen., 1991, 709; Cass. pen., Sez. un., 8 maggio 1996, De Leo, in Cass. pen., 1996, 3579; Id., Sez. un., 26 febbraio 1997, Bahrouni, in Dir. pen. proc., 1997, 1484 s.; Id., Sez. Un., 28 maggio 1997, Lisuzzo, in Cass. pen., 1997, 3341, con nota di Carcano. In dottrina, Peroni, La sentenza di patteggiamento, Padova, 1999, 149 s.; Ferrua, Studi sul processo penale, vol. III, Torino, 1997, 133 s.; Id., Il giusto processo, Bologna, 2005, 144).

La verifica circa la non sussistenza di cause di proscioglimento ai sensi dell'art. 129 c.p.p. si colloca, secondo un ordine logico consolidato nella giurisprudenza, in una fase antecedente al vaglio della richiesta di applicazione della pena (Cass. pen., Sez. VI, 18 dicembre 1996, Laugi, in C.E.D. Cass., n. 207528; Id., Sez. V, 22 marzo 1996, Sarienti, in Dir.pen. e proc., 1996, 696; Id., Sez. VI, 19 dicembre 1995, Meli, ivi, 1996, 696; Id., Sez. VI, 22 settembre 1995, Marzocco, in C.E.D. Cass., n. 203000; Id., Sez. VI, 5 novembre 1993, Branche, in Arch.n.proc.pen., 1994, 543).

In quest'ottica «la pronuncia di proscioglimento è indipendente dalle valutazioni e dalle prospettazioni contenute nelle determinazioni pattizie».

L’utilizzo di schemi negoziali nell’applicazione della pena non può implicare la rinuncia da parte della giurisdizione di quel vaglio minimo che è presupposto indispensabile di un sistema improntato al metodo della giurisdizione. Sicchè, la valutazione di cui all’art. 129 c.p.p. rileva non già come oggetto dell'accordo delle parti, ma quale doverosa prerogativa del giudice: è, dunque, “un presupposto del rito, ma sottratto alla negoziabilità delle parti in quanto avente un oggetto radicalmente indisponibile» ( Di Chiara, L'architettura dei presupposti, in AA.VV., Il patteggiamento, Milano, 1999, 48; Santoro, L’art. 444, comma 2 c.p.p. sembra limitare i poteri decisori del giudice al controllo circa la possibile emanazione di un provvedimento ex art. 129 c.p.p., alla corretta qualificazione giuridica del fatto, alla corretta applicazione e comparazione delle circostanze prospettate dalle parti e alla congruità della pena, tacendo sull'operatività delle regole di giudizio contenute negli artt. 529 segg. c.p.p. (Dell’anno, Prova di innocenza e "patteggiamento")

Legittimo chiedersi, a questo punto, se tali regole possano trovare ingresso nel procedimento che applica la pena su accordo delle parti e, in caso affermativo, in che misura questo ingresso possa avvenire (Dell’anno, Prova di innocenza e "patteggiamento").  Si tratta, invero, di definire eventuali direttive che coinvolgano direttamente il rapporto tra momento sanzionatorio, ove si concetra lo schema negoziale proprio del rito, e accertamento della colpevolezza (Conso, I nuovi riti differenziati tra "procedimento" e "processo" ).

In proposito, non può non evidenziarsi come la natura dell'accertamento sotteso al rito, strutturalmente incompatibile con adempimenti istruttori e, per contro, ancorato esclusivamente alla piattaforma degli atti d'indagine, possa fare propendere per l'inoperatività delle suddette regole di giudizio (Fanizzi, Atipicità della sentenza di «patteggiamento» e princìpi costituzionali, in Riv.pen., 1994, 117; Maccarrone, Ancora sulla natura della sentenza emessa ex art. 444 c.p.p., in Giust.pen., 1994, III, c. 413; Rigo_,_ Il procedimento, in AA.VV.:, Il patteggiamento, cit., 70. In giurisprudenza, Cass. pen., Sez. un., 9 giugno 1995, Cardoni, in Cass. pen., 1996, 473, n. 219, con nota di Vessichelli, Prova insufficiente o incompleta e proscioglimento a norma dell'art. 129 c.p.p.; Id., Sez. un., 26 febbraio 1997, Bahrouni, in Dir.pen. e proc., 1997, 1484, con il commento di T. Trevisson Lupacchini)

Va da sé che uno schema siffatto si esporrebbe a rilievi insuperabili per effetto della lacerazione che si aprirebbe tra la regola decisoria in questione e il parametro dell'inidoneità probatoria di cui all'art. 125 disp. att. c.p.p. (  Marzaduri, Bre_vi considerazioni sui poteri del giudice nell'applicazione della pena su richiesta delle parti,_ in Cass. pen., 1990, 730 )

Nondimeno, una regola legale decisoria per la pronuncia di patteggiamento che limitasse le prerogative del giudice ad un controllo di natura quasi “notarile”, legato alla possibile applicazione dell’art. 129 c.p.p. e poco più si porrebbe in contrasto con il dettato costituzionale per cui nulla poena sine iudicio (art. 27, comma 2 Cost.) (V. Papagno, L’interpretazione del giudice penale tra regole probatorie e regole decisorie, Giuffré, Milano, 533;  Pacileo, L'alternativa tra applicazione della pena su richiesta di parte e proscioglimento, in Cass. pen., 1991, 358, e Sanna, Opposizione a decreto penale di condanna ed operatività dell'art. 129 c.p.p., in Riv.it.dir. e proc.pen., 1994, 1148).

Alla base dei contrasti giurisprudenziali sul tema in osservazione, vi è l’impossibilità di revocare il consenso al patteggiamento una volta raggiunto l’accordo tra le parti e durante il termine concesso all’altra parte per esprimere il proprio consenso o dissenso.

E’ l’art. 447, comma 3, c.p.p. a sancire che una volta formulata la richiesta di patteggiamento, il giudice fissa un termine entro il quale l’altra parte deve esprimere il proprio consenso o il dissenso e in questo lasso temporale non è consentito al soggetto proponente di revocare o di modificare la richiesta.

La divergenza interpretativa si concretizza in due orientamenti, il primo conferma la tesi del disposto citato e, quindi, dell’irrevocabilità del consenso espresso; infatti sul piano normativo emergono l’irrevocabilità e l’immodificabilità della proposta, questo impedimento è valido per entrambe le parti e non prevede quindi differenzazioni; al contrario, il dissenso all’accordo da parte dell’imputato è insindacabile, mentre quello espresso dal pubblico ministero necessita sempre di motivazione e può essere ritenuto ingiustificato dall’autorità giudicante.

La revoca al patteggiamento è ammissibile solo quando tra pubblico ministero e imputato si formi il contrarius consensus  ( CREMONESI, Il patteggiamento nel processo penale)  nessuno può unilateralmente liberarsi dal vincolo, perciò è prevista la facoltà di revocare il precedente accordo solo congiuntamente, a meno che non sia già stata emessa sentenza.

Quindi, il patteggiamento, perfezionato l’accordo con il consenso dell’altra parte, non può essere annullato unilateralmente; la questione nasce riguardo l’irrevocabilità dell’accordo prima che il giudice emetta una decisione, dato che alle parti non è consentito scioglierlo autonomamente, l’impossibilità di revocare il consenso al patteggiamento è assoluta e il cambiamento d’opinione non è ammissibile ( Cass. pan., Sez. III, 8 novembre 1991, Faticanti, in C.E.D. Cass., n. 188720 )

Siamo di fronte ad un negozio processuale consensuale che diventa definitivo con l’incontro delle volontà e, in sostanza, con il perfezionamento dell’accordo ( Cass. Pen., Sez. V, 23 ottobre 2007, n. 45749, in C.E.D. Cass., n. 238495; Id., Sez. III, 9 dicembre 1997, Peruzzo, in Il Fisco, 1999, 599 con nota di Izzo; Id., Sez. II, 17 aprile 1997, Ferraro, in C.E.D. Cass., n. 207828; Id., Sez. III, 8 novembre 1991, Faticanti, cit.; Id., Sez. III, 27 marzo 1992, Iezzi, in Giur. it., 1993, II, 17, con nota di Caprioli; in Riv. it. dir. e proc. pen., 1993, 1418, con nota di Cenci).

Raggiunto questo non è più possibile tornare indietro ed è abnorme qualsiasi provvedimento che disponga la revoca del consenso (Cass. pen., Sez. V, 23 ottobre 2007, n 45749 ).

Il giudice delle indagini preliminari non può, causa revoca del consenso, disporre la restituzione degli atti al pubblico ministero poiché automaticamente si determinerebbe una regressione del procedimento alla fase delle indagini preliminari.

La giurisprudenza sostiene che nessun recesso sia più possibile quando le manifestazioni di volontà delle parti abbiano, già prima della pronuncia della sentenza, determinato nel procedimento effetti irreversibili, ex art. 447 c.p.p., sarebbe illogico pensare che raggiunto l’accordo sia poi possibile revocare la richiesta.

Non è assolutamente prevedibile un potere unilaterale di recesso quando l’accordo ha ormai prodotto nel procedimento effetti irreversibili, dando cioè avvio ad un epilogo anticipato del procedimento che non consente più di fare passi indietro e quindi impedisce di tornare alla fase delle indagini preliminari.

La disposizione contenuta nell’art. 447 c.p.p. sarebbe assolutamente inutile se, una volta intervenuta l’accettazione, fosse concesso alle parti di revocare il consenso e così verrebbero meno anche i presupposti fondamentali del patteggiamento, come la massima semplificazione processuale e quindi la rapida definizione del processo.

Ancora, se fosse consentita la revoca del consenso, l’imputato presa visione degli atti dell’accusa potrebbe regolarsi in ordine alla conservazione dell’accordo sulla base delle risultanze delle indagini preliminari (Cass. pen., 27 marzo 1992, Iezzi ).

E’ chiaro che l’orientamento prevalente non accoglie l’ipotesi di revoca del consenso con conseguente “ritiro” dell’istanza di patteggiamento. Per espressa previsione dell’art. 447 cp.p. la parte che fa richiesta di patteggiamento non può ne modificare ne, tantomeno, revocare tale domanda fino a che non sia scaduto il termine concesso all’altra parte per prestare il consenso, anche perché diversamente l’istituto potrebbe essere utilizzato come espediente per rinviare senza limiti la definizione del procedimento e l’eventuale revoca dell’istanza diventerebbe un pericolosissimo ed inammissibile strumento di pressione sulle scelte del giudice in ordine ai tempi di giudizio sull’istanza di patteggiamento (Pretura Torino, 15 giugno 1991, Dif. pen. 1992, fasc. 35,95).

L’accordo e la determinazione della pena sono i presupposti giuridici per accedere al rito del patteggiamento; queste, insieme al potere dispositivo delle parti e all’impostazione pattizzia del giudizio, sono la ragione per cui non può considerarsi l’ipotesi di revoca del consenso, come fondamento dell’istituto stesso e da cui discende l’accordo, ovvero quella scelta coerente e consapevole espressione dell’interesse delle parti per cui ogni tipo di ripensamento sul suo contenuto non può costituire motivo di revoca (BRIZI, Il patteggiamento, Giappichelli, Torino, 2008, 25)

La motivazione su cui si basa l’ordinanza annullata dalla Suprema Corte fonda il diritto dell’imputato di recedere dalla volontà di definire il processo sul presupposto che “trattandosi di materia incidente sulla libertà personale, la volontà deve essere sempre revocabile”, ma, come già chiarito, raggiunto l’accordo la revoca del consenso non è più consentita ( Cass. pen., Sez VI, 10 aprile 2007, n.2 6976, in C.E.D. Cass., n. 237095 ).

Non è questo un caso in cui si affievolisce l’attenzione alla tutela della libertà personale; vedere rispetto al rito pattizzio un calo d’attenzione nei confronti dei diritti inviolabili è tesi inconsistente: questo è pur sempre un rito premiale che consente all’ imputato di scegliere “un male minore” anche se la natura della riduzione della pena è meramente processuale, ovvero prescinde dall’entità del fatto riferendosi solo alla rinuncia dell’imputato al rito ordinario.

Dal punto di vista dell’imputato sono diverse le rinunce ai diritti normalmente garantiti all’interno del procedimento ordinario, come la perdita del diritto di difendersi provando, ma il peso di queste mancanze è controbilanciato da una serie di cospicui vantaggi, come, in primis, lo sconto della pena fino ad un terzo.

Per altro, l’accordo interviene esclusivamente tra le parti, le quali devono attenersi ai requisiti di congruità della pena, possedendo, comunque, piena autonomia nella formulazione dello stesso; il giudice infatti non può intervenire sul contenuto dell’accordo fra le parti se non per accoglierlo o respingerlo, a questo è riservato il compito di controllare l’esattezza della qualificazione giuridica del fatto, delle circostanze a questo afferenti nonché alla congruità della pena.

La limitazione del potere negoziale delle parti alla sola commisurazione della pena, è utilizzata dalla giurisprudenza per avvalorare l’orientamento interpretativo di tal stregua: la struttura dell’applicazione della pena su richiesta delle parti - come delineata dal codice di rito - non lascia alle parti alternativa rispetto a una composizione a contenuto sanzionatorio. Ciò che emerge, oltre che dalla lettera delle disposizioni di cui agli artt. 444 e segg. c.p.p. anche dal fatto che lo schema negoziale individua nella rinuncia dell'imputato a contestare l'accusa, la condizione per l'accesso di quest'ultimo alla diminuzione «fino a un terzo» della pena ed agli ulteriori «benefici» elencati nell'art. 445, comma 1 c.p.p. ( LORUSSO:Il processo penale italiano tra micro-sistemi e codificazione, in Dir. pen. proc., 2007, 425 ).

La ratio del descritto equilibrio è del resto ben nota: all'applicazione della pena su richiesta (Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale) è affidata la delicata mediazione tra esigenze di deflazione dei carichi giudiziari e di completezza dell'accertamento penale (Conso, Mediazione penale: un optional o una cosa dovuta?)

Dovrebbe a questo punto apparire evidente la natura «elusiva» - con conseguente inammissibilità - di pattuizioni nelle quali il contenuto transattivo preluda, ad onta della formale richiesta di applicazione della pena, ad un epilogo proscioglitivo. Per parte sua, il giudice, posto dinnanzi a prospettazioni di tal fatta, non potrebbe che negare alle parti l'accesso al rito, convogliando il procedimento sui binari del giudizio ordinario.

Anche l’ipotesi in cui il consenso sia stato prestato non direttamente dall’imputato ma dal procuratore speciale non modifica tale disciplina poiché, la procura speciale è prevista proprio per garantire la corrispondenza tra la volontà dell’imputato e quella del procuratore speciale e, comunque, qualora il difensore formuli la richiesta in presenza dell’imputato si ritiene che non si necessaria la procura speciale (Cass. pen., Sez. I, 15 maggio 1995, Bruni, in C.E.D. Cass., n . 202357)

L’istituto del patteggiamento proviene dai sistemi di common law  incentrati sulla praticità dell’esperienza concreta, che contribuisce a delineare il plea bargaining, da un lato come ovvio ed agevole rimedio a quelli che sono i pericoli della prescrizione, dall’altro come strumento con cui fronteggiare il problema dell’ingente carico di lavoro giudiziario.

La giustizia negoziata (AMODIO, Accertamento del fatto, alternative al processo, alternative nel processo, in Atti del convegno dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale, Urbino, 23 24 settembre 2005, p. 72.) nasce, quindi, per un’esigenza pratica ben precisa e l’immodificabilità della richiesta di patteggiamento, così come l’irrevocabilità, possono essere ritenuti argomenti probanti l’esistenza di un generale principio di irrevocabilità delle dichiarazioni espresse una volta intervenuto l’accordo; soluzione che si pone i linea con il principio di economia processuale.

L’indirizzo giurisprudenziale opposto prevede che il consenso sia revocabile fino a che il giudice non abbia emesso sentenza, riconoscendo all’atto negoziale concretizzatosi nel consenso alla definizione del procedimento penale con tale rito alternativo e, quindi, alla conseguente richiesta il carattere della revocabilità e modificabilità fino alla scadenza del termine fissato concesso all’altra parte per esprimere l’approvazione o il dissenso.

La norma in questione rappresenta una deroga al principio generale della revocabilità, ma una volta scaduto il termine sancito dal terzo comma dell’art. 447 viene meno la ragione della deroga e la richiesta riacquista il suo carattere originario di revocabilità e modificabilità fino poi alla decisione.

In sostanza, mutuando concetti giuridici tipici del diritto privato, potremmo dire che questo orientamento dottrinario e giurisprudenziale considera il consenso alla anticipata definizione del procedimento penale come un negozio giuridico recettizio, per cui la manifestazione di volontà in esso contenuto diverrebbe immodificabile solo allorquando l’altra parte si è espressa su di essa accogliendone la sostanza.

Va detto, comunque, che questo orientamento è del tutto marginale poiché la preponderante giurisprudenza accoglie la tesi dell’irrevocabilità del consenso anche se in passato si è accettata la soluzione opposta (Cass. pen., Sez.I, 24 giugno 1991, Grossi ed altri, in Arch. n. proc. pen., 1991, 732) ravvisante la possibilità di inquadrare in quest’ ambito la fattispecie del negozio civile; proposta, assenso e consenso costituiscono il fulcro del negozio giuridico ex art 1321c.c. “…l’accordo di due o più parti…”.

Ad onta dell’art. 444 c.p.p., l’accordo non ha carattere patrimoniale pur possedendo la ratio del contratto; sicché, la sovrapposizione alla figura del contratto e le similitudini emergenti con il negozio civile non sono sufficienti a modificare i tratti somatici di un accordo che non condivide prospettiva alcuna con quello avente effetti civilistici.

L’accordo tra le parti che caratterizza il rito in questione non è, quindi, inquadrabile nella categoria dei negozi giuridici di diritto privato, richiesta e consenso provenienti dalle parti , sono rivolte al giudice; alla base vi è un accordo quindi la volontà è implicita, quella volontà che costituisce il presupposto giuridico necessario per l’applicabilità della pena concordata (Cass. pen., Sez.I, 24 giugno 1991, Grossi ed altri, cit., 1991, 732; Id., Sez. I, 28 giugno 1991, Del Sorbo, in Cass. pen., 1992, 373 ).

Il patteggiamento sarebbe si un negozio giuridico processuale recettizio ma nel senso che, pervenuto a conoscenza dell’altra parte, non può essere ne revocato ne modificato unilateralmente ed è sottoposto al controllo giudiziale (Cass., Sez. III, 5 dicembre 1997, Alighieri, in C.E.D. Cass., n 209512 )

Questa pronuncia che accoglie un orientamento alternativo rispetto al dettato dell’art. 447 c.p.p. individua all’interno dello stesso una deroga al principio generale di revocabilità e modificabilità della richiesta ( Cass. pen., Sez .I, 24 giugno 1991, Grossi; MANISCALCO, Il patteggiamento, Utet, Torino, 2006, p.78 ), per la Suprema Corte non è possibile che le parti ritrattino ad accordo intervenuto.

La fermezza dell’orientamento giurisprudenziale emerge con chiarezza anche dal dall’orientamento della Corte (Cass. pen., Sez. IV, 19 giugno 2007, R.P., in C.E.D. Cass., n. 236998) per cui, una volta sottoposto l’accordo sulla pena al giudice, le parti non possono più revocare unilateralmente il consenso prestato al patteggiamento, evidenziando però come nel caso tale divieto venga violato, l’errore del giudice possa essere fatto valere impugnando la sentenza di primo grado.

Nessun motivo giustifica quindi la revoca dell’accordo consentendo l’indebita regressione del procedimento alla fase delle indagini preliminari, sicché la revoca unilaterale del consenso prestato è priva di ogni efficacia e, pertanto, l’ordinanza deve essere annullata senza rinvio con trasmissione degli atti al giudice del merito.

Pubblicato il 13/10/2009

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