di Sabino Morisco*

1. Uno dei maggiori problemi cui il codice del 1989 doveva porre rimedio era quello di contenere i tempi del processo penale. Si decise, con il nuovo codice, sulla base anche di una lettura dei sistemi processuali europei, di scommettere sull’introduzione e sulla valorizzazione dei riti alternativi. Pragmaticamente, si sottolineava l’inevitabilità dei riti differenziati per la tenuta del sistema ove mai si fosse riflettuto sul fatto che nessuna organizzazione giudiziaria, sia pure dotata di risorse infinitamente superiori a quelle dell’amministrazione della giustizia in Italia, avrebbe potuto affrontare l’onere di estendere a tutti i casi il dispendioso modello accusatorio. E tale soluzione, nella compilazione del nuovo codice, è stata quella che, di certo, rispetto alle altre concernenti interventi sull’attività del pubblico ministero, le forme degli atti e la limitazione dell’oggetto del processo, è stata, senza dubbio, la più praticata. Del resto, in un sistema processuale tendenzialmente accusatorio, oltre all’esigenza di attenuare le lungaggini processuali vi è quella, parimenti fondamentale, di prevedere una serie di norme, meccanismi ed istituti che mirino a garantire all’imputato il diritto di difesa ed altri fondamentali diritti, che, seppure in misura minore, di fatto trovano garanzia nei riti differenziati, quando il loro sacrificio passa, in ogni caso, dalla volontà della parte e del proprio difensore.

Si riteneva, all’epoca dell’introduzione del nuovo codice, che solamente un’ampia utilizzazione dei riti speciali avrebbe potuto soddisfare la fondamentale esigenza che, alla fase dibattimentale, giungesse solo il 10-20% dei procedimenti. Peraltro, la loro adozione appariva realizzare un doppio risparmio: da un lato l’economia globale dei tempi del processo; dall’altro, la riconosciuta possibilità di passare dall’uno all’altro di essi agevolava nel suo complesso l’utilizzo di vari meccanismi di semplificazione. Da qui, dunque, il rilievo per il quale l’instaurazione del rito accusatorio è andata di pari passo con una politica legislativa ad ogni costo attenta a fare in modo che il ricorso ai riti alternativi fosse più massiccio.

Tuttavia, bisogna prendere atto che l’obiettivo di accorciare i tempi del processo non è stato affatto rispettato, in quanto la percentuale dei processi che giungono davanti al giudice dibattimentale è di gran lunga superiore a quella sperata.

Con particolare riferimento al giudizio abbreviato, va detto che le ragioni di un limitato utilizzo sono senz’altro dovute a delle storture che si sono materializzate nella prassi che, di fatto, non permettono di celebrare il giudizio abbreviato quale effettivo giudizio allo stato degli atti. Ci si riferisce, in sostanza, alla considerazione che, quand’anche si proceda nelle forme del rito abbreviato allo stato degli atti ovvero sulla base dei soli atti risultanti fino all’ordinanza che ammette l’imputato al rito speciale, ci si trova dinnanzi a pubblici ministeri che procedono a nuove contestazioni o, ancora, procedono al deposito di altre risultanze probatorie sulla base della norma di cui all’art. 419 comma 3 c.p.p. Al cospetto di questa evenienza, allora, i difensori risultano di frequente fortemente demotivati al ricorso del giudizio abbreviato, una scelta questa che spesso, proprio perché è in teoria un procedimento allo stato degli atti, viene fatta poiché vi sono a parere del difensore delle lacune nelle risultanze investigative o, ancora, perché ad esempio il pubblico ministero non ha proceduto a una contestazione potenzialmente possibile.

2. Nel caso sottoposto alla nostra attenzione è accaduto che il pubblico ministero, nonostante si celebrasse il giudizio abbreviato, senza alcuna integrazione probatoria, avesse proceduto alla contestazione della circostanza aggravante della recidiva.

Va subito detto che la disciplina delle nuove contestazioni dibattimentali - tanto del fatto diverso che del reato concorrente o delle circostanze aggravanti (Cass. Pen., sez. V, 6 marzo 1984, in Giust. Pen., 1985,170) - è coerente, in linea di principio, con l'impostazione accusatoria del vigente codice di rito. In un sistema nel quale la prova si forma ordinariamente in dibattimento, detta disciplina mira, infatti, a conferire un ragionevole grado di flessibilità all'imputazione, consentendone l'adattamento agli sviluppi e agli esiti dell'istruzione dibattimentale, quando alcuni profili di fatto, pur pertinenti o strettamente collegati all'oggetto dell'imputazione, risultino nuovi o diversi rispetto a quelli emersi dagli elementi a suo tempo acquisiti nelle indagini e valutati dal pubblico ministero per l'esercizio dell'azione penale.

La formula dei citati artt. 516 e 517 c.p.p. - alla luce della quale la diversità del fatto, il reato connesso e le circostanze aggravanti debbono emergere «nel corso dell'istruzione dibattimentale» - riflette tale finalità dell'istituto, evocando, primo visu, i soli mutamenti dell'imputazione imposti dall'evoluzione istruttoria e consente di qualificarlo come speciale e derogatorio con riguardo alle ordinarie cadenze processuali relative all'esercizio dell'azione penale e al suo controllo giudiziale.

Malgrado tale dato letterale e tale ratio, la giurisprudenza predominante - con l'avallo delle sezioni unite della Corte di cassazione (Cass. pen., sez. II, 28 ottobre 1998, n.4, in Ced Cass. 254684) - è dell'avviso che le nuove contestazioni previste dagli artt. 516 e 517 c.p.p. possano essere basate anche sui soli atti già acquisiti dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari (Sezioni Unite, 28 ottobre 1998, n. 4 con nota di Lozzi, Modalità cronologiche della contestazione suppletiva e garanzie difensive, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, 1, 338). Se da un lato, infatti, la contestazione suppletiva rappresenta una eventualità «fisiologica» in un sistema processuale ispirato alla centralità del dibattimento, che è sede naturale della rappresentazione e della elaborazione probatoria (dalla quale possono sorgere esigenze di modifica dell’imputazione) dall’altro lato, tuttavia, una interpretazione letterale della locuzione «nel corso», presente nell’art. 517 cod. proc. pen. (così come nell’art. 423 con riguardo all’udienza preliminare), si risolverebbe – ictu oculi – in «un formalismo esasperato ed ingiustificato», non essendo ravvisabile, neppure nell’ipotesi di nuova contestazione basata su elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari, alcuna violazione del diritto di difesa dell’imputato, messo comunque nelle condizioni di conoscere gli atti raccolti dalla pubblica accusa.

Tale soluzione ermeneutica si fonda - oltre che su argomenti ritenuti desumibili dalla direttiva n. 78 della legge delega per l'emanazione del nuovo codice di procedura - precipuamente sul rilievo che, impedendo la nuova contestazione dibattimentale nell'ipotesi considerata, si produrrebbero risultati incongrui. Da un lato, infatti, nel caso di reato connesso, il procedimento dovrebbe retrocedere alla fase delle indagini preliminari, con conseguente vulnus dei principi di immediatezza e concentrazione del dibattimento; dall'altro lato, nel caso di circostanza aggravante, la mancata contestazione nell'imputazione originaria risulterebbe irreparabile, non potendo l'aggravante formare oggetto di un autonomo giudizio penale, con correlata contrazione dell'ambito di esercizio dell'azione penale, in asserita frizione con l'art. 112 Cost. Peraltro, secondo questo filone ermeneutico, non vi sarebbe nemmeno alcuna violazione delle prerogative difensive, posta la facoltà per la difesa di chiedere in ogni caso un termine a difesa non inferiore a quello a comparire previsto dall’art. 429 c.p.p (Spangher, Fatto e qualifica giuridica nell’imputazione per reato colposo, in Riv. it. dir. proc. pen., 1970, 297).

Appare chiaro come, per tale via, l'istituto delle nuove contestazioni venga obtorto collo a proporsi, non più soltanto, come uno strumento, speciale e derogatorio, di risposta ad una evenienza pur “fisiologica” al processo accusatorio (quale l'emersione di nuovi elementi nel corso dell'istruzione dibattimentale), ma, anche, come possibile correttivo rispetto ad una evenienza “patologica”, potendo essere utilizzato pure per porre rimedio, tramite una rivisitazione degli elementi acquisiti nelle indagini preliminari, ad eventuali incompletezze od errori commessi dall'organo dell'accusa nella formulazione dell'imputazione.

Nondimeno, non può sottacersi come, per tale via, si vada ad incidere negativamente su alcune facoltà della difesa e, indirettamente, anche sulla possibilità di accelerazione dei tempi del processo. In sostanza, ci si riferisce al fatto che un difensore, il quale ha sin dall’origine il quadro chiaro delle imputazioni, anziché procedere attraverso le forme dibattimentali, può scegliere di proseguire attraverso il ricorso ai riti alternativi .

Sul punto parte della dottrina ha avuto modo di affermare che “è pur vero che nel codice vigente, di stampo accusatorio, la modifica dell'imputazione è una eventualità fisiologica, tuttavia, essendo l'assunzione delle prove riservata al dibattimento, è normale che la diversità del fatto imputato o la possibilità di contestare un nuovo reato emerga dall'assunzione delle prove effettuata in sede dibattimentale. Parimenti, è del tutto logico l’intento del legislatore (come risulta dalla lettera della legge) di aver voluto limitare la contestazione suppletiva al fatto che la necessità di modifiche dell'imputazione emerga da risultanze probatorie dell'istruzione dibattimentale e non da elementi probatori già acquisiti nelle indagini preliminari. Infatti, le indagini preliminari vengono compiute "per le determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale" e, pertanto, a conclusione delle indagini preliminari, il pubblico ministero, se ritiene di poter formulare il giudizio prognostico previsto dall'art. 125 delle disposizioni di attuazione e, cioè, di avere elementi idonei a sostenere l'accusa in sede dibattimentale, ha l'obbligo di esercitare l'azione penale. In caso contrario richiederà il decreto di archiviazione rendendo così possibile il controllo giurisdizionale sul mancato esercizio dell'azione penale” (Lozzi, Modalità cronologiche della contestazione suppletiva e garanzie difensive, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, 1, 338). Ed ancora sempre la medesima dottrina afferma, in ordine alla garanzie difensive, che “non è esatto che la contestazione effettuata subito dopo l'apertura del dibattimento sulla base delle indagini preliminari non comporti alcun pregiudizio per la difesa. Le Sezioni Unite hanno inspiegabilmente dimenticato che in tal caso si vanifica, in ordine al fatto tardivamente contestato, quell'importante esercizio del diritto di difesa previsto dalla normativa la quale impone, prima dell'esercizio dell'azione penale, l'invito a presentarsi per rendere l'interrogatorio e si vanifica, altresì, la funzione fondamentale dell'udienza preliminare e, cioè, il controllo delle imputazioni azzardate, che pure costituisce una importante attuazione del diritto di difesa”.

3. Il medesimo problema nell’ambito dei riti speciali ovvero se l’imputato ha la possibilità di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al fatto diverso contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’ esercizio dell’azione penale annovera una recente sentenza del Giudice delle leggi. Ci si riferisce, più propriamente, alla sentenza n. 333/2009 secondo cui la preclusione alla fruizione dei vantaggi connessi al rito abbreviato, nell'ipotesi in cui la contestazione dibattimentale di un reato concorrente concerna un fatto che già risultava dagli atti di indagine, implicherebbe, anzitutto, una indebita compressione del diritto di difesa. All'imputato non potrebbe essere, difatti, addebitata alcuna colpevole inerzia né potrebbero essergli addossate le conseguenze negative di un «prevedibile» sviluppo dibattimentale il cui rischio sia stato liberamente assunto. Secondo il Giudice delle leggi, procedendo in tale direzione, la disciplina si porrebbe, altresì, in contrasto con l'art. 3 Cost., determinando una disparità di trattamento tra imputati in situazioni eguali, a seconda che il pubblico ministero valorizzi integralmente i risultati delle indagini sin dal momento dell'esercizio dell'azione penale, con la contestazione di tutti i reati ipotizzabili (consentendo così all'imputato di esercitare la facoltà di accesso al rito abbreviato) ovvero contesti inizialmente solo alcuni di tali reati, per poi ampliare l'accusa in dibattimento. Sul punto, va ricordato che se, in un primo momento, la Consulta aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 516 e 517 c.p.p., nella parte in cui non prevedevano la facoltà dell'imputato di richiedere al giudice del dibattimento detta applicazione, relativamente al fatto diverso o al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerneva un fatto già risultante dagli atti di indagine al momento dell'esercizio dell'azione penale (sentenza n. 265 del 1994) e l'inammissibilità dell'omologa questione di legittimità costituzionale relativa al giudizio abbreviato (sentenze n. 265 del 1994 e n. 129 del 2003), successivamente il Collegio aveva ritenuto che le considerazioni poste a base delle declaratorie di inammissibilità di cui alle sentenze n. 265 del 1994 e n. 129 del 2003 (che avevano come termine di riferimento l'originaria disciplina del giudizio abbreviato) dovessero essere riviste alla luce delle rilevanti modifiche introdotte dalla l. 16 dicembre 1999, n. 479, con cui il rito alternativo è stato svincolato dai presupposti della definibilità del processo allo stato degli atti e del consenso del pubblico ministero. In sostanza, secondo questo filone interpretativo, a seguito delle riforme degli anni 1999-2000, il giudizio abbreviato non sarebbe più, come in origine, un giudizio «cristallizzato», ma avrebbe assunto opposte caratteristiche di “fluidità”, sia sul versante probatorio sia su quello dell’imputazione. L’imputato il quale opti per il rito alternativo sa, infatti, che potrebbe essere comunque disposta dal giudice un’integrazione probatoria, che abiliterebbe il pubblico ministero ad operare contestazioni suppletive. Sulla base di tali argomentazioni, la Corte Costituzionale concludeva per la illegittimità parziale dell'art. 517 c.p.p., per rimuovere i profili di contrasto con gli artt. 3 e 24, comma 2, Cost. nonché al fine di eliminare la differenza di regime, in punto di recupero della facoltà di accesso ai riti alternativi di fronte ad una contestazione suppletiva "tardiva”, a seconda che si discutesse di "patteggiamento” o di giudizio abbreviato. Pur tuttavia è facilmente intuibile come, per siffatta strada, il ricorso al giudizio abbreviato sarebbe stato ancora minore. La scelta da parte dell’imputato di procedere secondo il rito de quo e, quindi, di rinunciare al dibattimento col pericolo di vedersi comunque fare nuove contestazioni o procedere con nuovi elementi di prova rappresenta un reale deterrente. Se è vero che la modifica introdotta con la legge 479/1999 aveva come fine quello di incentivare il ricorso al giudizio abbreviato è parimenti vero che, spesso, la scelta di proseguire per il mezzo di siffatto rito deflattivo è strettamente connessa alla constatazione di un quadro probatorio carente e, quindi, più propedeutico ad un provvedimento assolutorio. La possibilità per il giudice di assumere una prova con l’ulteriore potere del pubblico ministero di procedere ad una nuova contestazione va a frustrare spesso questa valutazione strategica di natura difensiva, la quale, rebus sic stantibus, troverebbe più conveniente prediligere la celebrazione del processo secondo le cadenze dibattimentali, piuttosto che rinunciare a quelle garanzie attuabili solo in dibattimento col pericolo sempre costante di una di “fluidità”, tanto sul versante probatorio che su quello dell’imputazione. Anche se è vero che a fronte di una nuova contestazione l’imputato ha comunque la possibilità, nell’ambito del giudizio abbreviato, di scegliere di continuare col dibattimento. Tuttavia, appare chiaro come per tale strada vadano ad allungarsi i tempi del processo e soprattutto il ricorso ai riti deflattivi . In sostanza la cristallizzazione del quadro processuale, sia dal punto di vista probatorio che da quello dell’imputazione avrebbe dovuto rappresentare un connotato «ineliminabile» del giudizio abbreviato: e ciò nella considerazione che la contestazione suppletiva, anche se basata su elementi acquisiti in precedenza, costituisce fattore idoneo a mutare gli equilibri fra le parti e le strategie difensive dell’imputato. Come rilevato, difatti, in più occasioni dalla stessa Corte costituzionale, le valutazioni dell’imputato circa la convenienza del rito speciale dipendono anzitutto dalla concreta impostazione data al processo dal pubblico ministero.

4. Ora, un altro profilo problematico su cui si è discusso è se, una volta ammesso il giudizio abbreviato, sia possibile per il pubblico ministero procedere ad una nuova contestazione senza che venga disposta alcuna integrazione probatoria sia su impulso di parte sia su impulso del giudice. In questa ipotesi, in realtà, il distinguo se si tratta di nuova contestazione sulla base di atti già a conoscenza del pubblico ministero o di atti sopravvenuti teoricamente non sussiste dal momento che, in ogni caso, si tratta dei medesimi atti, posto che con siffatto rito la prova si cristallizza; problema, questo, il quale non si pone nel caso in cui, sebbene vi sia stato la richiesta di procedere con il giudizio abbreviato, non sia ancora intervenuta l’ordinanza di ammissione da parte del giudice.

Il tenore letterale dell’ordito normativo in ordine alla materia de qua sembrerebbe escludere il potere per il pubblico ministero di procedere ad ulteriori contestazioni nel caso di giudizio abbreviato allo stato degli atti. Difatti, l’art. 441 comma 1 c.p.p,. afferma che nel giudizio abbreviato si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni previste per l’udienza preliminare, fatta eccezione per quelle previste dagli artt. 422 e 423 c.p.p; diversamente, nel caso in cui si celebri il giudizio abbreviato con l’assunzione di un mezzo di prova su iniziativa di parte o ad impulso del giudice, laddove per il pubblico ministero sarà invece possibile sia produrre ulteriori elementi di prova sia procedere ad una nuova contestazione, poiché in questo caso nel bilanciamento tra la celerità del processo e il diritto al contraddittorio e all’accertamento del fatto il legislatore preferisce preservare quest’ultime prerogative.

Ora, l'espressa esclusione della disposizione dell'art. 423 c.p.p. dal novero delle norme applicabili impedisce che nel corso del giudizio abbreviato il pubblico ministero possa modificare l'imputazione o contestare una circostanza aggravante. In sostanza, in tema di giudizio abbreviato non subordinato ad integrazione probatoria, e al di fuori del caso di integrazione probatoria disposta di ufficio, l'orientamento costante della giurisprudenza è nel senso di non consentire al pubblico ministero la modificazione dell'imputazione, in quanto il giudizio medesimo deve svolgersi secondo la sua struttura tipica, e cioè allo stato degli atti e con la conseguente immutabilità dell'originaria imputazione, con la nullità “in parte qua” della sentenza che si formi sui fatti o sulle circostanze ulteriori eventualmente contestati (Cass. pen., sez. III, 11 luglio 2007, n. 35624, Terlizzi, Rv 237293). Pertanto, secondo questa parte della giurisprudenza, il riconoscimento di una circostanza aggravante non può essere oggetto di contestazione suppletiva, vietandolo espressamente il menzionato art. 441 c.p.p., comma 1, e determinando, nel caso in cui avvenga, in applicazione dei principi desumibili dall'art. 522 c.p.p., comma 1, la parziale nullità della sentenza di condanna, pronunciata all'esito del giudizio abbreviato introdotto da richiesta incondizionata (Cass. pen., sez. IV, 14 febbraio 2007, n. 12259, Biasotto,  Rv 236199).

Sulla base di ciò si registra quella giurisprudenza la quale ritiene che il provvedimento reso dal giudice dell’udienza preliminare in giudizio abbreviato non subordinato ad integrazione probatoria, con il quale ha disposto, dopo la discussione delle parti, la regressione procedimentale al fine di sollecitare la obliterata contestazione della recidiva, si ponga al di fuori del sistema organico della legge processuale e rivesta, pertanto, il carattere della abnormità strutturale (Cass. pen., sez. V, 17 giugno 1999, n. 52054, in Ced Cass. 524684).

Nondimeno, sul punto si può osservare che non può dubitarsi dell'applicabilità, in sede decisoria, della disposizione di cui al primo comma dell'art. 521 c.p.p. (secondo la quale “nella sentenza il giudice può dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell'imputazione, purché il reato non ecceda la sua competenza”), benché non espressamente richiamata dalle disposizioni disciplinanti il giudizio abbreviato, segnatamente dall'art. 442 c.p.p., dedicato alla “decisione”. Non può invocarsi, in senso contrario, l'inapplicabilità dell'art. 423 c.p.p. al giudizio abbreviato, sancita dal menzionato art. 441 c.p.p., comma 1, perché tale disposizione riguarda soltanto i limiti apposti alla facoltà del pubblico ministero di modificare l'imputazione nel corso del giudizio e non interferisce in nessun modo con l'autonomo ed esclusivo potere-dovere del giudice di dare al fatto una diversa definizione giuridica.

In sostanza le regole del giudizio abbreviato sono sostanzialmente quelle del dibattimento, nel senso che il richiamo alle disposizioni previste per l'udienza preliminare, contenuto nell'art. 441 c.p.p., comma 1, riguarda le forme procedurali e non già i poteri decisori del giudice in relazione al fatto contestato. Per di più, può anzi notarsi come lo stesso legislatore abbia ammesso tale eventualità, consentendo nei casi di “modifica del titolo del reato” l'appello del pubblico ministero contro la sentenza di condanna (art. 443 c.p.p., comma 3).

5. Sarebbe bene, a questo punto, rimarcare che un conto è procedere alla contestazione di un fatto diverso o nuovo o, ancora, alla contestazione di una qualsiasi circostanza aggravante, altro procedere alla contestazione della recidiva. Nessuno potrebbe contestare che la recidiva è considerata nel nostro ordinamento, a tutti gli effetti come una circostanza aggravante del reato, precisamente un'aggravante inerente alla persona del colpevole, come si desume dal fatto che essa risulta inclusa nel giudizio di comparazione previsto dall'art. 69 c.p. (Cass. pen., sez. V, 24 marzo 2009, Baron, n. 22619, in Ced Cass. 235489). Ne deriverebbe che la disciplina prevista nel giudizio abbreviato sulla contestazione delle aggravanti e, in genere, sulla modifica dell'imputazione trova applicazione anche per la "recidiva", soprattutto quando si tratta di giudizio abbreviato non condizionato.

Tuttavia, in merito a siffatta circostanza, è facile osservarsi come non si tratterebbe di una vera e propria aggravante ai sensi dell'art. 423 c.p.p., essendo attinente alla persona dell'imputato e da questi conosciuta attraverso la semplice lettura del certificato del casellario. In sostanza, se è vero che la scelta dell’abbreviato molto spesso passa attraverso il fatto che le indagini del pubblico ministero sono state lacunose oppure si registra un difetto in merito alle imputazioni è, parimenti, certo che l’imputato non può non sapere di essere recidivo e che la mancata contestazione non sia altro se non un errore da parte del pubblico ministero. La contestazione della recidiva consiste più propriamente nella contestazione non di un fatto in teoria oggetto di discussione e rispetto al quale potrebbe nascere la necessità di azionare ogni prerogativa difensiva, ma di un dato chiaramente incontrovertibile. Ragion per cui se è vero che il rito abbreviato è un procedimento allo stato degli atti, nel quale non è assolutamente applicabile la disciplina delle nuove contestazioni, atteso il tenore letterale dell’art. 441 c.p.p. e ancora la ratio sottesa all’introduzione nel nostro sistema di tale istituto ovvero quello dell’accelerazione dei tempi del processo, appare chiaro come siffatte problematiche non possano essere messe in luce e in discussione quando venga, come nel caso di specie, contestata la recidiva che, se è vero che è una circostanza aggravante, è in ogni caso un dato inconfutabile su cui la difesa nulla può eccepire.

Probabilmente, questo rappresenta l’unico caso in cui nell’ambito di un giudizio abbreviato senza la parentesi dell’integrazione probatoria il pubblico ministero possa procedere ad una nuova contestazione, restando evidentemente anche con siffatta contestazione un procedimento allo stato degli atti, non comportando ulteriori fatti da cui scaturirebbero ulteriori passaggi di natura difensiva e giudiziale ma semplicemente dati, peraltro già a conoscenza certa ed inequivocabile da parte del difensore. Sotto tale angolatura, occorre sottolineare come, peraltro, il certificato penale faccia parte del fascicolo del dibattimento e, quindi, come tale non può anche per tale via avere un effetto sorpresa e per il l’imputato e per la stessa autorità procedente. Aspetto fondamentale soprattutto quando a fronte di una contestazione suppletiva in dibattimento si decida poi per quella imputazione di procedere nelle forme del rito abbreviato.

A questo proposito va detto che, in ogni caso, è necessaria la contestazione puntuale dei singoli tipi di recidiva con il giudice il quale, in seguito a siffatta contestazione, deve praticare un correlativo aumento di pena e, comunque, in ogni ipotesi in cui dalla sussistenza di essa debba derivare all’imputato uno svantaggio giuridicamente apprezzabile poiché essendo la recidiva una circostanza aggravavate del reato non può produrre l’effetto dell’inasprimento della pena, se non quando risulti contestato il fatto specifico (Cass. pen., sez. VI, 27 febbraio 1996, p.m. in c. Caccavallo, in Ced Cass. 205072). Peraltro, sul punto la giurisprudenza ha chiarito come ai fini della contestazione di una circostanza aggravante non è indispensabile una formula specifica espressa con la sua enunciazione letterale, né l’indicazione della relativa disposizione di legge, essendo sufficiente che, conformemente al principio di correlazione tra accusa e sentenza, l’imputato sia posto nella condizione di espletare pienamente la propria difesa sugli elementi di fatto integranti l’aggravante (Cass. pen., sez. II, 28 ottobre 2003, Ruggio, in _Ced Cas_s. 227076).

* Dottore di Ricerca, Università degli studi di Bari

Pubblicato il 26/01/2011

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