di Antonio Carratta

1. – Con la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989 (resa esecutiva in Italia con l. 27 maggio 1991, n. 176), di cui oggi festeggiamo il ventennale, e poi con la parallela Convenzione europea di Strasburgo del 1996 sull’esercizio dei diritti dei fanciulli (resa esecutiva in Italia con l. 20 marzo 2003, n. 77) si è colmato un ‘vuoto’ fondamentale in materia di diritti processuali dei minori. Fino a quel momento era mancato uno strumento cogente e vincolante che affrontasse in maniera sistematica la tutela dei diritti dei minori. Ed infatti, la precedente Dichiarazione Universale dei diritti del fanciullo del 1959, pur rappresentando un’importante acquisizione nella produzione normativa di tutela dell’infanzia, di fatto era rimasta una mera dichiarazione di intenti e di principi, alla quale gli Stati avevano aderito senza peraltro essere tenuti a veri e propri obblighi giuridici.

Con la Convenzione del 1989, invece, si compie un vero salto in materia, sia perché essa rappresenta un atto giuridicamente vincolante per gli Stati aderenti, sia perché essa qualifica il minore come soggetto dell’intera gamma dei diritti umani di «prima generazione» (civili e politici) e di «seconda generazione» (economici, sociali e culturali).

Con riguardo a questa particolare categoria di diritti emersa nell’ambito della più ampia categoria dei diritti umani ci si è chiesti sua quale sia la loro vera natura, e cioè se effettivamente si possa parlare di veri e propri diritti del fanciullo. Sovente, infatti, si è negato ciò e si è autorevolmente parlato «di aspirazioni certo nobili ma vaghe e di richieste giuste ma deboli» (Bobbio, L’età dei diritti, Torino, 1990, p. 67. V. anche Rodotà, Libertà e diritti in Italia dall’unità ai nostri giorni, Roma, 1997, p. 7 ss.; Rescigno, Il diritto di famiglia a un ventennio della riforma, in Riv. dir. civ., 1998, I, p. 109 ss.; Longobardo, La Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo (New York, 20 novembre 1989), in Dir. fam. e pers., 1991, p. 370 ss.). E questo, in base alla considerazione che «non c’è diritto senza obbligo e non c’è diritto né obbligo senza una norma di condotta» (Bobbio, L’età dei diritti, cit., p. XVIII). Di conseguenza, «parlare di diritti materiali o fondamentali o inalienabili o inviolabili è usare formule del linguaggio persuasivo che possono avere una funzione pratica in un documento politico per dare maggior forza alla richiesta ma non hanno alcun valore teorico e sono pertanto completamente irrilevanti in una discussione di teoria del diritto» (Bobbio, L’età dei diritti, cit., p. XVI). Nel particolare settore dei diritti del fanciullo, dunque, si ripropone inesorabilmente l’annoso problema del divario fra teoria e prassi o meglio fra validità ed efficacia. Non si può negare, tuttavia, che la forza della prima è del tutto indifferente alla seconda.

Una riprova di ciò ce l’abbiamo nella giurisprudenza della nostra Corte costituzionale.

E’ proprio per effetto del recepimento della Convenzione del 1989 che la nostra Corte costituzionale fin dal 1990 arriva ad affermare che, con riferimento ai processi civili «minorili» (sia quelli sulla potestà genitoriale, sia quelli di accertamento dello stato di adottabilità), essi coinvolgono «diritti fondamentali della persona» e richiedono – per le peculiarità che li contraddistinguono e per essere finalizzati a salvaguardare l’«interesse del minore» negli «equilibri affettivi», nell’«educazione» e nella «collocazione sociale» (così Corte cost., 20 luglio 1990, n. 341, in Foro it., 1992, I, c. 25 ss., con nota di Formica) - l’adozione di un modello processuale che consenta il pieno esercizio di questi «diritti fondamentali» (in argomento rinvio a Carratta, I processi di adozione e depotestate dopo l’entrata in vigore della l. n. 149 del 2001: verso un «giusto» processo civile minorile, in in Dir. fam. e pers., 2010, p. 268 ss.).

E di recente, gli stessi giudici costituzionali hanno ribadito – di fronte ad un’eccezione di illegittimità costituzionale, poi dichiarata inammissibile – che la Convenzione di New York e la successiva Convenzione di Strasburgo sono «dotate di efficacia imperativa nell’ordinamento interno» e dunque «recanti una disciplina integrativa» rispetto alla disciplina interna, col la quale vanno coordinate (Corte cost., 12 giugno 2009, n. 179, in Fam. e dir., 2009, p. 869 ss., che ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 336 c.c. in riferimento agli artt. 3, 30 e 31 Cost. nella parte in cui «non prevede che il Tribunale, in caso di urgente necessità di tutela del minore e di mancato esercizio di azione di potestà da parte dei genitori, dei parenti fino al quarto grado o dal P.M., possa d’ufficio nominare curatore al minore affinché vengano valutati la proposizione di azione a tutela di quest’ultimo»).

2. In particolare, è all’art. 12 della Convenzione del 1989 che si guarda come ad un principio supremo, e cioè al principio della c.d. audizione del minore. Esso, infatti, contiene due fondamentali affermazioni. Da un lato, impone agli Stati aderenti di assicurare «al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa, le opinioni del fanciullo essendo debitamente prese in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità». E’, questo, un principio rivoluzionario, in quanto si riconosce al minore «capace di discernimento» la piena garanzia – nei confronti dello Stato - di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa.

Dall’altro lato, poi, si puntualizza che comunque, proprio per dare pratica attuazione a questa garanzia, «a tal fine, si darà in particolare al fanciullo la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un organo appropriato, in maniera compatibile con le regole di procedura della legislazione nazionale». Obbligo recepito nella nostra legislazione sia dalla l. n. 149 del 2001, in materia di procedimenti per l’adozione dei minori e, in parte, di quelli de protestate, sia dalla l. n. 54 del 2006, che ha introdotto l’art. 155 sexies c.c. (Poteri del giudice e ascolto del minore), dove l’audizione del minore viene disciplinato come vero e proprio obbligo per il giudice (almeno per quelli che abbiano compiuto 12 anni e anche di quelli di età inferiore «ove capaci di discernimento»).

Non che il nostro ordinamento non prevedesse disposizioni in materia. Si pensi, ad es., all’art. 250 c.c. per il riconoscimento di figlio naturale o all’art. 252 c.c. ai fini dell’inserimento del figlio naturale nella famiglia legittima o all’art. 316 c.c. in ipotesi di conflitto fra i genitori nell’esercizio della potestà per decisioni di particolare importanza, e ad altre ancora. Esse, però, avevano per lo più carattere residuale frammentario.

Ciò che mi pare vada sottolineato, tuttavia, non è tanto l’affermazione di questi diritti «processuali» del minore sul piano della validità, quanto, piuttosto, verificare il loro effettivo funzionamento.

3. Da tempo – come noto – si è aperto un ampio dibattito dottrinale sull’opportunità della rappresentanza del minore nei procedimenti che lo riguardino, dibattito ravvivato sia dalla novellazione dell’art. 111 Cost., sia appunto dalla ratifica della Convenzione di New York e di quella europea di Strasburgo.

E tuttavia, manca nel nostro ordinamento una disciplina lineare con riferimento proprio a quest’aspetto. Si pensi, ad es., alla l. n. 149 del 2001 per il processo di adozione del minore. Essa si limita a stabilire che il procedimento «deve svolgersi fin dall'inizio con l'assistenza legale del minore», mentre nulla dice quanto alla nomina di un curatore speciale.

Non dissimile il discorso da fare per il processi aventi ad oggetto l’esercizio della potestà genitoriale. Anche in questo caso il legislatore del 2001, intervenendo sull’art. 336 c.c., si è limitato a prevedere la sola applicabilità dell’obbligo della difesa tecnica (art. 336, ult. co., c.c.).

Per superare il silenzio del legislatore sono state avanzate in sede applicativa tre diverse posizioni che vanno dalla proposta di nominare sempre ed in ogni caso anche d’ufficio un curatore speciale, a quella di nominarlo anche d‘ufficio, ma solo quando vi sia conflitto d’interessi, a quella, infine, del ricorso agli artt. 78-79 c.p.c. (v., peraltro, Trib. Min. Milano, 6 luglio 2007, in Fam. e min., 2007, fasc. 9, p. 15 ss., con note di Pricoco, Ruo, Padalino, Franchi, Pascasi, Cesaro, De Nicola, per il quale la valutazione della necessità della nomina di un curatore speciale per il minore, sussistente solo in caso di conflitto di interessi con entrambi i genitori, è rimessa al P.M. ai sensi dell’art. 79 c.p.c. e non può essere operata d’ufficio).

Va anche sottolineato in proposito il fatto che già la Corte costituzionale con la sent. n. 1 del 2002 aveva ritenuto praticabile la nomina di un curatore speciale del minore proprio richiamando l’art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989.

In tale occasione i giudici costituzionali sottolinearono come la ratifica da parte del nostro Paese della richiamata Convenzione, che esplicitamente riconosce al minore la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un organo appropriato, induca a configurare il minore come «parte» dei procedimenti che lo riguardano, «con la necessità del contraddittorio nei suoi confronti, se del caso previa nomina di un curatore speciale ai sensi dell’art. 78 cod. proc. civ.». Ed alla medesima conclusione sono pervenuti i giudici costituzionali nella recente sent. n. 179 del 2009, osservando che dall’art. 12 della Convenzione di New York «è desumibile che, nei procedimenti di cui all’art. 336 c.c., sono parti non soltanto entrambi i genitori, ma anche il minore, con la necessità del contraddittorio nei suoi confronti, previa nomina, se del caso, di un curatore speciale ai sensi dell’art. 78 c.p.c.» (Corte cost., 30 gennaio 2002, n. 1, in Foro it., 2002, I, c. 3302 ss., con nota di Proto Pisani e in Fam. e dir., 2002, p. 229 ss., con commenti di Tommaseo e di Odino-Paschetti. Nello stesso senso, in precedenza, Corte cost., ord., 22 novembre 2000, n. 528, in Giur. cost., 2000, p. 4153 ss., che ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 333 e 336 c.c. e degli artt. 738 e 739 c.p.c. sollevata per violazione degli artt. 2, 24, 30 e 31 Cost. nella parte in cui non prevedono la nomina di un curatore speciale per il minore nel procedimento camerale limitativo della potestà genitoriale, in quanto il giudice aveva sollevato la questione senza dare completa motivazione sull’effettiva mancanza del vigente ordinamento di norme speciali o generali che consentano di effettuare tale nomina).

Del resto, anche la Convenzione di Strasburgo del 1996 (resa esecutiva in Italia – come detto - con la l. n. 77 del 2003) all’art. 9 esplicitamente prevede che «nelle procedure riguardanti i fanciulli, allorché secondo la legge interna i titolari delle responsabilità parentali siano privati della facoltà di rappresentare il fanciullo a causa di un conflitto d’interessi con lui, l’autorità giudiziaria ha il potere di nominargli un rappresentante speciale».

Probabilmente, per colmare la lacuna normativa sulle modalità di nomina del curatore speciale può ricorrersi a quanto prevedono in termini generali gli artt. 78 e 79 c.p.c. circa la possibilità del giudice civile di nominare un curatore speciale al rappresentato quando sorga conflitto d'interessi fra questi e il rappresentante oppure su iniziativa del P.M.

Ed appare coerente con la funzione assolta che tale nomina passi attraverso una scelta del giudice minorile da un elenco speciale e distinto da quello dei difensori d’ufficio tenuto presso i Consigli dell’Ordine degli avvocati. Senza che ciò debba necessariamente comportare – mi pare - la nomina di un curatore speciale distinto dal difensore del minore, anche quando il primo abbia i requisiti per svolgere le funzioni di difesa tecnica (art. 86 c.p.c.).

4. – Il riconoscimento del diritto del minore ad ottenere la nomina di un curatore speciale nelle ipotesi indicate dagli artt. 78 e 79 c.p.c. implica anche l’attribuzione allo stesso minore nei processi che lo riguardano del ruolo di vera e propria «parte processuale», proprio al fine di assicurare nei suoi confronti la necessaria attivazione del contraddittorio.

Anche su questo profilo, tuttavia, non può non rilevarsi una certa lacunosità della disciplina processuale rinvenibile nel nostro ordinamento.

Si pensi in particolare alla disciplina che riguarda l’apertura del procedimento sullo stato di abbandono del minore. Stando all’art. 10 l. n. 184/1983, una volta ricevuto il ricorso del P.M., «il presidente del tribunale per i minorenni o un giudice da lui delegato … provvede all’immediata apertura di un procedimento relativo allo stato di abbandono del minore», disponendo «immediatamente, all’occorrenza, tramite i servizi sociali locali o gli organi di pubblica sicurezza, più approfonditi accertamenti sulle condizioni giuridiche e di fatto del minore, sull’ambiente in cui ha vissuto e vive ai fini di verificare se sussiste lo stato di abbandono».

Sebbene si preveda un «atto dovuto» in capo al presidente del tribunale dei minorenni circa l’apertura del procedimento per accertare lo «stato di abbandono», non sembra parimenti prevedersi alcunché al fine di assicurare l’attivazione del contraddittorio anche nei confronti del minore (o meglio, del suo eventuale curatore speciale).

E’ vero che al comma 2° lo stesso art. 10 impone al presidente di disporre che «all’atto dell’apertura del procedimento, s[ia]no avvertiti i genitori o, in mancanza, i parenti entro il quarto grado che abbiano rapporti significativi con il minore» e che «con lo stesso atto il presidente del tribunale per i minorenni li invit[i] a nominare un difensore e li inform[i] della nomina di un difensore di ufficio per il caso che essi non vi provvedano».

Sennonché, da un lato, non si puntualizzano le modalità di tale «avvertimento», mentre – per assicurare al meglio la preventiva attivazione del contraddittorio, cui quest’attività è finalizzata – sarebbe stato opportuno imporre la notificazione ai destinatari dell’«avvertimento» sia del ricorso del P.M. sia del decreto presidenziale di avvio della procedura. Sembra ragionevole ipotizzare, perciò, che in sede applicativa quest’ultima sarà la soluzione preferita, anche al fine di evitare che il procedimento si avvii in maniera viziata.

Dall’altro lato, il comma 2° dell’art. 10 non include fra i destinatari dell’«avvertimento» anche il curatore del minore, che eventualmente sia stato nominato immediatamente dal presidente, d’ufficio o su sollecitazione del P.M., in ipotesi di conflitto di interessi fra i genitori (o chi esercita la potestà) e il minore.

Anche questa lacuna potrebbe essere superata in sede applicativa, includendo il curatore del minore fra i destinatari della notificazione degli atti introduttivi della procedura.

E che il legislatore abbia pensato a tutte le parti private del processo (incluso l’eventuale curatore del minore) lo si evince dalla seconda parte del comma 2° dell’art. 10 già citato, dove vengono genericamente individuati i loro poteri processuali.

E’ difficile pensare che, nel prevedere che costoro «possono partecipare a tutti gli accertamenti disposti dal tribunale, presentare istanze istruttorie e, previa autorizzazione del giudice, prendere visione ed estrarre copia degli atti contenuti nel fascicolo», la disposizione richiamata non riconosca i medesimi poteri – oltre che ai genitori o «in mancanza» ai parenti entro il quarto grado che abbiano rapporti «significativi» con il minore – anche all’eventuale curatore del minore.

5. Inoltre, strettamente legata alla posizione processuale del minore all’interno dei processi che lo riguardano è la vexata quaestio della difesa tecnica delle parti private nel processo «minorile».

Come noto, per effetto dell’entrata in vigore della l. n. 149 del 2001 è stato introdotto l’obbligo di assistenza legale a favore dei genitori e dei minori sia nei procedimenti di adozione (artt. 8 e 10 l. n. 184/1983), sia in quelli de potestate (art. 37 l. n. 149/2001), e ciò sul presupposto che la qualità di parte processuale vada riconosciuta non solo ai genitori, ma anche allo stesso minore coinvolto nel procedimento. Tuttavia, alla previsione dell’obbligo di difesa tecnica non si accompagna anche l’esplicita previsione del potere del giudice, in mancanza di nomina del difensore di fiducia, di nominare un difensore d’ufficio nei procedimenti de potestate (nonostante in questo senso fosse l’originaria formulazione dell’art. 37 l. n. 149/2001, poi superata dal successivo d.p.r. n. 115/2002).

Ciò ha, di fatto, vanificato la prevista obbligatorietà della difesa tecnica in tali procedimenti ed indotto a negare un simile potere al tribunale per i minorenni, il quale, in caso di mancata nomina del difensore di fiducia, dovrebbe dichiarare la contumacia della parte priva dell’obbligatoria assistenza del difensore.

Sennonché, si tratta di conclusione che non solo introduce un differente trattamento sul piano normativo fra situazioni processuali identiche, facendo sorgere seri dubbi di legittimità costituzionale (artt. 3 e 111 Cost.), ma finisce anche per incidere sull’effettività del diritto di difesa delle stesse parti private, ancora una volta in maniera incompatibile con i dettami della Carta costituzionale (art. 24, commi 2° e 3°, Cost.). E questo, nonostante che – come rilevato anche dalla Suprema Corte - l’onere del patrocinio in questo caso sia stato imposto «in ragione della esigenza sempre più avvertita del rispetto delle garanzie dirette a realizzare la pienezza del diritto di difesa anche in relazione a procedimenti siffatti» (così, in motivazione, Cass., 29 novembre 2006, n. 25366, in Guida dir., 2006, n. 49, p. 36 ss., con commento di Fiorini) e nonostante che l’art. 74, comma 2°, del testo unico sulle spese di giustizia (d.p.r. n. 115/2002), con disposizione di carattere generale, espressamente «assicuri» il patrocinio a spese dello Stato anche «negli affari di volontaria giurisdizione per la difesa dei cittadini non abbienti».

Peraltro, anche quando il nostro legislatore ha previsto la necessaria difesa tecnica del minore (come, ad es., nel caso dei procedimenti di adozione), ha omesso, però, di introdurre una specifica disciplina sui requisiti professionali dell’avvocato del minore e sulle modalità di retribuzione dei difensori d’ufficio, eventualmente nominati. La mancanza di una specifica disciplina su questi aspetti rischia ancora una volta di rendere inefficaci le disposizioni che attribuiscono diritti «processuali» al minore. Oltre a far sorgere seri dubbi di legittimità costituzionale. Ed infatti, – come hanno rilevato i giudici costituzionali nel passato - «dalla carenza di tali disposizioni potrebbe … derivare un pregiudizio alla effettività del diritto di difesa del minore » (così, in motivazione, Corte cost., 22 giugno 2004, n. 178, in Foro it., 2004, I, c. 3276 ss., con nota di Romboli).

In proposito, mi pare opportuno ricordare come, con riferimento al profilo dei requisiti professionali del difensore d’ufficio del minore, alcune utili indicazioni possono ricavarsi dalla disciplina del medesimo istituto per il processo penale, dove si stabilisce espressamente che «fermo quanto disposto dell’art. 97 c.p.p., il Consiglio dell'ordine forense predispone gli elenchi dei difensori con specifica preparazione nel diritto minorile» (art. 11 d.p.r. 22 settembre 1988, n. 448).

Quanto, poi, al presupposto della «specifica preparazione» richiesta per la nomina a difensore d’ufficio del minore, l’art. 15 d. lgs. n. 272 del 1989 puntualizza che «ai fini dell’art. 11 d.p.r. 22 settembre 1988, n. 448, si considera in possesso di specifica preparazione chi abbia svolto non saltuariamente la professione forense davanti alle autorità giudiziarie minorili o abbia frequentato corsi di perfezionamento ed aggiornamento per avvocati nelle materie attinenti il diritto minorile e le problematiche dell’età evolutiva».

Per quanto riguarda, invece, le modalità di retribuzione del difensore d’ufficio delle parti private nei procedimenti di adozione, esse continuano a mancare.

In questo caso – tenendo conto anche di ciò che è previsto per la difesa d’ufficio nell’ambito del processo penale con la l. n. 60 del 2001 - un aggancio normativo è stato rinvenuto nell'art. 143 del testo unico sulle spese di giustizia (d.p.r. n. 115/2002), a norma del quale «fino a quando non è emanata una specifica disciplina sulla difesa d'ufficio, nei processi previsti dalla l. 4 maggio 1983, n. 184, come modificati dalla l. 28 marzo 2001, n. 149, per effetto dell’ammissione al patrocinio, sono pagate dall'erario» le spese a carico della parte ammessa al gratuito patrocinio. Alla previsione di carattere generale, che potrà essere estesa anche ai procedimenti de potestate ove si arrivi ad ammettere la possibilità della difesa tecnica d’ufficio, il comma 2° dello stesso art. 143 aggiunge che la disciplina della parte III del testo unico è applicabile anche «per i limiti di reddito, per la documentazione e per ogni altra regola procedimentale relativa alla richiesta del beneficio».

In mancanza di apposita disciplina, il richiamo di questa disposizione – pure nata come meramente transitoria – sembra offrire un’opportuna soluzione.

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