di Fabio Cossignani

1. Il Tribunale di Mantova (3 novembre 2009) si è di recente pronunciato in merito ad una fattispecie che, a prima vista, appariva priva di elementi di complessità. Passata in giudicato la sentenza che aveva riconosciuto in capo al creditore-attore il diritto alla restituzione dell’indebito, questi (il creditore) instaurava un nuovo giudizio per ottenere il pagamento di un’ulteriore somma a titolo di interessi, secondo quanto dispongono a riguardo le norme che disciplinano la ripetizione dell’indebito (art. 2033 c.c.).

Occorre precisare che la domanda relativa agli interessi legali era stata in verità già formulata nel corso del primo giudizio, ma allora dichiarata preclusa dal giudice in quanto «svolta per la prima volta in comparsa conclusionale».

Dinanzi alla nuova domanda la banca convenuta si difendeva eccependo il giudicato esterno prodottosi nel primo giudizio, «sia con riguardo al dedotto che al deducibile», ritenendo pertanto che la statuizione sul capitale avesse ormai consumato ogni ulteriore iniziativa giudiziale per ottenere quanto dovuto a titolo di interessi.

Il giudice mantovano ha rigettato la domanda attorea sostenendo che il principio di infrazionabilità dell’azione giudiziale impedisce «al creditore di una determinata somma di denaro di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali contestuali o scaglionate nel tempo, e questo alla luce della valorizzazione del canone del ‘giusto processo’, di cui al novellato art. 111 Cost. “in relazione al quale si impone una lettura ‘adeguata’ della normativa di riferimento (in particolare dell’art. 88 c.p.c.), nel senso del suo allineamento al duplice obiettivo della ‘ragionevolezza della durata’ del procedimento e della ‘giustezza’ del ‘processo’, inteso come risultato finale (della risposta cioè alla domanda della parte), che ‘giusto’ non potrebbe essere ove frutto di abuso, appunto, del processo, per esercizio dell’azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell’interesse sostanziale, che segna il limite, oltreché la ragione dell’attribuzione, al suo titolare, della potestas agendi”». Il Tribunale si serve quindi del principio di diritto espresso dalla celebre Cass., Sez. Un., 15 novembre 2008, n. 23726 [in Giur. It., 2008, 929 ss. con nota di Ronco, _(_Fr)azione: rilievi sulla divisibilità della domanda in processi distinti], per sostenere l’inammissibilità della scomposizione del diritto agli interessi rispetto a quello relativo capitale.

2. La conclusione non convince.

Il giudice non nasconde di conoscere i consolidati orientamenti dottrinali e giurisprudenziali intorno al tema dei profili processuali della disciplina degli interessi. In particolare ricorda «che il diritto al risarcimento dei danni nelle obbligazioni pecuniarie, comprensivo di interessi moratori (art. 1224, 1° comma, c. c.) e maggior danno (art. 1224, 2° comma, c. c.), ha un fondamento autonomo e distinto rispetto al diritto alla restituzione che deriva dall’indebito oggettivo e [che] per questo nella giurisprudenza risalente … era considerato separatamente esercitabile» [v. Cass., sez. lav., 12 novembre 1999, n. 12591 e Cass., 14 maggio 1998, n. 4883, richiamate dalla sentenza in commento]. La ratio di tale orientamento era (ed è) facilmente comprensibile: il capitale è dovuto in virtù di un determinato titolo, nel caso di specie in forza del carattere non dovuto della originaria prestazione; il diritto agli interessi di mora è, all’inverso, caratterizzato da un distinto fondamento, in quanto gli «interessi rappresentano la liquidazione forfettaria minima del danno» [così, Bianca, I__nadempimento delle obbligazioni, in Commentario del cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, II ed., Bologna-Roma, 1979, 336]. Se così è, si tratta evidentemente di due distinti diritti, azionabili in due distinti processi.

È comunque opportuno chiarire meglio il quadro in cui si inserisce la pronuncia in commento. I profili processuali della disciplina degli interessi appaiono infatti alquanto diversi in tema di risarcimento del danno. Massima ricorrente è quella che afferma che «la rivalutazione monetaria e gli interessi costituiscono una componente dell'obbligazione di risarcimento del danno» [così, da ultima, Cass., 30 settembre 2009, n. 20943], dal che si traggono diversi corollari, tra cui, ad esempio, il fatto che gli interessi possono essere liquidati dal giudice anche d’ufficio. In tali ipotesi, infatti, l’intera somma dovuta dal responsabile nasce da un’unica causa: non è distinguibile un’obbligazione di restituzione del capitale e una di risarcimento: solo quest’ultima sussiste, benché risulti composta dalle plurime voci che concorrono a individuare compiutamente il danno risarcibile. Il diritto al risarcimento è – o almeno può essere inteso come – un diritto unitario. Il problema del frazionamento si sposta dunque su un altro livello, ossia su quello della possibilità che la relativa tutela giudiziale possa scomporsi in ragione delle singole voci di danno.

L’insegnamento della Cassazione (n. 23726/2007) – pedissequamente richiamato, come visto, anche dal provvedimento in esame – dovrebbe indurre a ritenere che, essendo unico il diritto al risarcimento, non sono consentite plurime iniziative processuali. In cosa poi si risolva questo principio, se nella consumazione dell’azione per il residuo o nella declaratoria di inammissibilità del frazionamento, anche ove si fosse in presenza della prima domanda parcellizzata, questo è problema assai delicato e importante, ma che passa in secondo piano rispetto a quello preliminarmente affrontato dalla sentenza in commento. Ciò che interessa in questa sede è comprendere quale sia il campo di applicazione del principio di infrazionabilità piuttosto che dibattere sui suoi effetti [in merito a quest’ultimo profilo v., si vis, Cossignani, Improponibilità della domanda frazionata e limiti oggettivi del giudicato, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2009, 1495 ss.].

3. Diversamente da quanto accade per il diritto al risarcimento del danno, non è così scontato ritenere che l’infrazionabilità giudiziale sia predicabile anche rispetto alla disciplina processuale da riservare a diritti distinti e legati da una relazione di accessorietà, come nel caso deciso dalla sentenza che si annota. Non si è in presenza di un unico diritto.

Appare, dunque, un salto logico ritenere che l’orientamento che ha fino ad oggi giustificato l’autonoma proponibilità di un’azione volta a ottenere il pagamento degli interessi di mora debba considerarsi «travolto» dai principi espressi da Cass., sez. Un., 23726/2007. Non sembra in particolare sufficiente richiamare esclusivamente il principio della ragionevole durata e quello dell’abuso del processo.

Non il primo perché, se bastasse la considerazione secondo cui l’instaurazione di due processi (l’uno per il capitale e l’altro per gli interessi moratori e il maggior danno) in luogo di uno contribuisce ad appesantire il lavoro dei tribunali, ripercuotendosi sulla durata media dei processi, allora dovremmo arrivare per coerenza a ritenere che nel sistema sussiste un obbligo di cumulo processuale ogni volta che ciò sia possibile, pena l’improponibilità delle successive domande inizialmente non cumulate.

Ma, per le stesse ragioni, nemmeno il secondo argomento può considerarsi ex se esaustivo. A parte il fatto che l’utilizzo del concetto di abuso processuale dovrebbe, a nostro avviso, influire sulla determinazione del carico delle spese tra le parti, non sembra comunque che chi instauri un giudizio per la tutela di un diritto autonomo rispetto ad altro, azionato in precedenza, abusi – per ciò stesso – di alcunché. L’argomento fondato sull’abuso godrebbe di maggiore dignità solo ove si riuscisse a dimostrare che il processo sia stato di fatto utilizzato per scopi difformi rispetto a quelli per i quali è istituzionalmente funzionale: ma allora la tesi risulterebbe sostenibile solo per il caso in cui una pluralità di processi venisse utilizzata per la tutela di un unico diritto, di certo non quando due processi vengono destinati alla tutela di due differenti diritti. Quale deviazione, in tali circostanze, rispetto alla regola?

Così come formulata, la motivazione della sentenza in commento non può pertanto essere accettata. La parte motiva del provvedimento resta elemento essenziale dell’attività giurisdizionale, nonostante l’opinione contraria sottesa alle recenti riforme del processo, soprattutto al nuovo testo dell’art. 118 disp. att. c. p. c. (art. 52 legge n.69/2009).

Il giudice, per giungere alla conclusione che la domanda sui soli interessi – quando in altro giudizio si sia già giudicato del capitale – debba considerarsi improponibile, avrebbe dovuto dimostrare in maniera più compiuta le ragioni del capovolgimento del vecchio orientamento. Avrebbe dovuto spiegare perché il principio dell’infrazionabilità dell’unico diritto possa essere esteso anche ai rapporti tra diritto principale e diritto accessorio. Al contrario, il giudicante ha aggirato l’ostacolo asserendo che «le considerazioni svolte nelle sentenze menzionate sul presupposto del frazionamento del capitale sono da ritenersi ancora più fondate nel caso di specie in cui risulta frazionata la domanda per il capitale da quella per interessi e rivalutazione, che naturalmente costituiscono accessorio della prima» (corsivi nostri). Si potrebbe tuttavia contestare che, semmai, è vero proprio il contrario: se il divieto di parcellizzazione dell’azione fosse stato prospettato dalla Cassazione in relazione alle cause accessorie, a fortiori l’insegnamento dovrebbe considerarsi valido anche per la frazionabilità della domanda sull’unico diritto, non viceversa. In altri termini, non è escluso che il ragionamento possa estendersi al caso del capitale e degli interessi, ma per poter avallare una simile operazione interpretativa occorre superare quelle barriere che a prima vista sembrerebbero impedire una pura e semplice applicazione per analogia dei principi espressi dalla suprema Corte in tema di frazionamento.

Ad esempio, vien da chiedersi come si concili con la motivazione della sentenza il fatto che la legge disciplini l’accessorietà come ipotesi di connessione tra cause (art. 31 c. p. c.). Se la domanda principale e accessoria possono essere proposte a determinate condizioni davanti allo stesso giudice, la naturale premessa è che le due cause possono in verità anche essere trattate separatamente, sia sincronicamente che diacronicamente: la disciplina sulla connessione di cause deve considerarsi incostituzionale, perché contraria ai principio della ragionevole durata dei processi, là dove consente e non impone il cumulo?

Ecco, dunque, il nodo più spinoso della questione sul quale, tuttavia, il Tribunale glissa.

La legge sembra favorire la trattazione congiunta di cause, ma non imporla ad ogni costo quando i diritti sono in realtà distinti, anche se accessori. Non a caso la riunione o la dichiarazione di incompetenza (sui generis) sono sempre necessarie solo in presenza di fattispecie processuali riconducibili a fenomeni quali la continenza o la litispendenza; negli altri casi di connessione sono semplicemente possibili ed eventuali (art. 40 c.p.c.).

Non restavano allora al Tribunale di Mantova che due vie percorribili, entrambe assai scivolose: o cercare di dimostrare che tra interessi e capitale non corre un rapporto di accessorietà, ma che si tratti in verità di un unico diritto, non frazionabile giudizialmente, al pari di quanto avviene in caso di diritto al risarcimento del danno, dove gli interessi, lungi dall’avere carattere autonomo, rappresentano semplicemente una parte dell’intero danno; oppure ritenere che il canone costituzionale della ragionevole durata impone oggi una nuova lettura dell’art. 31 c. p. c., ad esempio sostenendo che il diritto accessorio, benché dotato di una certa autonomia, non giustifica la proposizione di un’autonoma domanda quando sia instaurato un giudizio per il diritto principale: poiché l’autonomia del diritto accessorio non è assoluta, il principio della ragionevole durata impone l’assimilazione alle ipotesi di unicità del diritto.

Questa seconda alternativa è forse quella più prossima alle reali giustificazioni del provvedimento in epigrafe, il quale tuttavia – giova ripeterlo – non ha ritenuto di dover affrontare apertamente la questione. La soluzione del problema avrebbe poi – peraltro – aperto un ulteriore bivio: da un lato la possibilità fornire direttamente una lettura costituzionalmente orientata della disciplina positiva; dall’altro, in caso contrario, il dovere di rimettere la questione di costituzionalità dell’art. 31 c. p. c. alla Consulta. Come è chiaro, neppure tale questione – dipendente dalla precedente – è stata fatto oggetto di esame dalla sentenza, ma, avendo il giudice deciso nel merito, si può presumere che una lettura costituzionalizzante dell’art. 31 c. p. c. sia stata ritenuta possibile.

Volendo far emergere dal testo del provvedimento ciò che sembra esservi rimasto implicito, occorre ricostruire tale possibile lettura. Ad esempio, si potrebbe sostenere che l’art. 31 c. p. c. risolva esclusivamente il problema del cumulo ai soli fini della competenza. La norma impone semplicemente la sommatoria del valore di entrambe le cause ai fini della determinazione della competenza del giudice, con ciò risolvendo eventuali dubbi in proposito. In assenza della disposizione si potrebbe infatti sospettare che il valore del diritto accessorio, stante il suo carattere “derivato” dal principale, non sia da tenere in considerazione ai fini della determinazione della competenza per valore del giudice. Tale interpretazione, strettamente letterale, della disposizione non sarebbe incompatibile con il principio, affermato dal Tribunale, di infrazionabilità della tutela giurisdizionale dichiarativa tra capitale e interessi.

Dopo tali precisazioni, forse, la decisione in commento apparirà meno azzardata, benché ancora assai discutibile.

Pubblicato il 09/06/2010

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