di Antonio Carratta

Vengono qui analizzate le conseguenze sul controllo di legittimità delle sentenze dei giudici di merito, che derivano dalle modifiche legislative introdotte con l’art. 54 del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 183; modifiche già entrate in vigore a partire dall’11 settembre scorso, che, nelle intenzioni del legislatore, dovrebbero ulteriormente limitare l’accesso al giudizio di cassazione, ma che, per alcuni profili, pongono seri dubbi di compatibilità con l’art. 111, 7° comma, della Cost.

1. Il paradosso della nostra giustizia civile: tante riforme, pochi benefici.
Negli ultimi anni il processo civile italiano è stato sottoposto a numerosi e sostanziosi interventi di riforma, tutti sempre giustificati dall’«emergenza» della giustizia civile e da finalità di sua accelerazione e snellimento. Nonostante ciò la nostra giustizia civile continua a permanere in un gravissimo stato di crisi. Lo testimoniano inesorabilmente i dati statistici.
Il rapporto Doing Business-2012 della Banca Mondiale, pubblicato nell’ottobre del 2011 (Washington, 2012, p. 103), colloca l’Italia al 158° posto su 183 Paesi analizzati per la durata media di un procedimento civile per il recupero di un credito di natura commerciale (nel 2010 nella stessa classifica l’Italia compariva al 157° posto, nel 2009 al 156° posto e nel 2007 al 154° posto). E nel nostro caso la durata media di un procedimento per il recupero di un credito ammonta a 1.210 giorni, a fronte dei 394 della Germania (all’8° posto), dei 331 della Francia (al 6° posto), dei 515 della Spagna (al 54° posto), dei 399 dell’Inghilterra (al 21° posto), dei 300 degli Stati Uniti (al 7° posto). Senza considerare che i costi per ottenere tale recupero vengono determinati, nella stessa classifica, in un valore medio pari al 29,9% del valore della causa.
L’altra faccia della medaglia sono gli indennizzi pagati dallo Stato per effetto della c.d. legge Pinto (L. 89/2001) per la violazione della ragionevole durata del processo. Nell’ultima Relazione al Parlamento sull’amministrazione della giustizia del 17 gennaio 2012 (Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2011, Roma, 17 gennaio 2012, in www.giustizia.it) il Ministro della giustizia ha indicato in circa 84 milioni di euro l’entità degli indennizzi liquidati per il 2011, che nel 2003 ammontavano a circa 5 milioni di euro. Dalla stessa Relazione emerge anche che ammontano a 5.527.690 (5.429.148, davanti ai giudici di merito; 98.542, davanti alla Corte di cassazione) i giudizi civili pendenti al 30 giugno 2011. La già citata Relazione quantifica in 7 anni e 3 mesi (ovvero 2.645 giorni) la durata media di un processo civile.
Altrettanto gravi appaiono le indicazioni che emergono dalla Relazione del Primo Presidente della Cassazione del 26 gennaio 2012 (Relazione del Primo Presidente della Cassazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2011 in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012_,_ Roma, 26 gennaio 2012, in http://www.cortedicassazione.it_)_, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012: nei giudizi di appello la durata media è aumentata da 947 giorni del 2010 a 1.032 del 2011, con un incremento del 9%; nei tribunali la durata media è salita da 456 a 470 giorni, con un aumento del 3,1%; infine, davanti ai giudici di pace la durata media è passata dai 317 giorni del 2010 ai 353 del 2011, con un incremento dell’11,3%. Anche nei giudizi pendenti davanti alla Corte di cassazione si è avuto un aumento della durata, essendo questa passata dai 35,4 mesi del 2010 ai 36,7 mesi del 2011.
E questo, nonostante che – come emerge dalla stessa Relazione del Presidente Ernesto Lupo – nel periodo 1° luglio 2010-30 giugno 2011 la sopravvenienza delle cause civili sia diminuita, rispetto all’anno precedente, del 2,4%.
A fronte di una crisi così grave la risposta del legislatore è stata del tutto inadeguata. Ed infatti, nonostante questa tragica situazione, a fronte della quale ci si attenderebbe un piano ampio ed organico di interventi finanziari, di incremento del personale e di riorganizzazione delle strutture, il nostro legislatore continua ad intervenire, in maniera del tutto estemporanea, sulla disciplina del processo civile, mirando, spesso, a limitare l’accesso stesso alla tutela giurisdizionale o a suoi fondamentali rimedi, anche costituzionalmente garantiti, quasi che – in tempi di crisi economica – l’incisione di fondamentali garanzie processuali di per sé potesse portare ad un immediato ritorno economico. E’ quel che è accaduto, in particolare, con riferimento al giudizio di cassazione.

2. Il nuovo intervento del legislatore del 2012 sul giudizio di cassazione.
La riflessione intorno ai limiti di accesso al giudizio di legittimità è tornata di attualità per effetto delle novità legislative che sono derivate, di recente, dall’art. 54 del D.L. 22 giugno 2012, n. 83 (convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 83, ed entrato in vigore a partire dallo scorso 11 settembre), laddove – con il chiaro obiettivo di ridurre il carico di lavoro della Corte – ha previsto due importanti innovazioni per il giudizio di legittimità.
In primo luogo, esso ha modificato il n. 5 dell’art. 360 c.p.c., sostituendo la precedente formulazione con la nuova (in realtà, sostanzialmente identica a quella originaria del codice del 1940, prima che la stessa fosse modificata dal legislatore del 1950) nel senso di ammettere la proposizione del ricorso per cassazione per «omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti». Già nel testo originario del codice del 1940, infatti, l’art. 360 n. 5 parlava di «omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti». Questa formulazione, come noto, venne poi superata con la riforma del 1950, nel senso di ammettere il ricorso per cassazione «per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio». A sua volta, quest’ultima formulazione era stata ulteriormente modificata dal legislatore del 2006 nel senso che il vizio di motivazione avrebbe dovuto riguardare «un fatto controverso e decisivo per il giudizio».
In secondo luogo, lo stesso art. 54, già citato, ha escluso l’utilizzazione del motivo di cui al n. 5 nei casi in cui o la sentenza d’appello abbia confermato la decisione di primo grado nella valutazione dei fatti di causa compiuta dal giudice di primo grado (c.d. doppia conforme sui fatti) oppure l’appello proposto sia stato dichiarato inammissibile – ai sensi del nuovo art. 348 bis - per la «non ragionevole probabilità di essere accolto», e questa decisione di inammissibilità è fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione appellata  (art. 348 ter, comma 4). Stabilisce, infatti, il nuovo art. 348 ter, 4 comma, che in questo caso il ricorso per cassazione, che sarà proponibile avverso la sentenza di primo grado, potrà essere proposto esclusivamente per i motivi di cui ai nn. 1, 2, 3 e 4 del comma 1 dell’art. 360 (v. anche, in proposito, Mandrioli, Diritto processuale civile, XXII ed. aggiornata a cura di Carratta, Torino, 2012, II, § 80, in corso di pubblicazione).
La combinazione di queste due innovazioni legislative comporta – come meglio vedremo nel prosieguo - che, nei casi indicati, nonostante la presenza del vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio e discusso fra le parti, la sentenza non potrà essere sottoposta a ricorso per cassazione. Con conseguente, inevitabile limitazione del controllo di legittimità della Corte sulle sentenze dei giudici di merito.
Va anche aggiunto che la nuova disciplina si applica «alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione» del decreto (art. 54, comma 3 D.L. 83/2012), e cioè a partire dall’11 settembre 2012. Va anche aggiunto che, ai sensi del comma 3 bis dell’art. 54 cit., le nuove disposizioni non si applicano al processo tributario.
La nuova disciplina interviene dopo appena tre anni dall’entrata in vigore, nel 2009, dell’art. 360 bis c.p.c. e del «filtro» di ammissibilità del ricorso per cassazione, attraverso il quale si era avuto un primo tentativo di limitazione dell’accesso al ricorso per cassazione (Carratta, Il “filtro” al ricorso in cassazione fra dubbi di costituzionalità e salvaguardia del controllo di legittimità, in Giur. It., 2009, 1563; Id., La Corte costituzionale ed il ricorso per cassazione quale “nucleo essenziale” del «giusto processo regolato dalla legge»:un monito per il legislatore ordinario, ivi, 2010, 627; Id., L’art. 360 bis c.p.c. e la nomofilachia “creativa” dei giudici di Cassazione, ivi, 2011, 886).

3. I ripetuti tentativi di limitare l’accesso al ricorso per cassazione negli ultimi anni. 
D’altro canto, occorre anche ricordare che la riforma del 2009 era stata preceduta da un altro intervento del legislatore, rimasto in vigore solo pochi anni, che prevedeva, a pena d’inammissibilità, l’esposizione del motivo con l’enunciazione di un «quesito di diritto», ovvero, nel caso del vizio della motivazione, con la chiara indicazione del fatto al quale si riferiva il vizio. Con questo strumento il legislatore aveva inciso sulle modalità di formulazione del ricorso, al fine di agevolarne la lettura e il compito della Corte identificare il contenuto del motivo (sul tema rinvio a Carratta, Formulazione dei motivi, in Le recenti riforme del processo civile, diretto da S.Chiarloni, Bologna 2007, 383). Sebbene abbia sostituito il «quesito», il nuovo istituto del «filtro» risponde ad un’esigenza notevolmente diversa. E questo conferma – se ce ne fosse bisogno – le pericolose oscillazioni degli interventi più recenti del nostro legislatore sul giudizio di cassazione e sul ruolo da assegnare alla Suprema Corte nel nostro sistema ordinamentale (v., in particolare, Taruffo, Le novità nel giudizio di cassazione, in corso di pubblicazione in Il libro dell’anno del diritto Treccani, Roma, 2013, par. 8, il quale sottolinea come la nostra Cassazione continua a rimanere a metà strada fra il modello tradizionale della Corte di cassazione e il modello moderno delle «Corti del precedente»; v. anche Chiarloni, Ragionevolezza costituzionale e garanzie del processo, Napoli, 2012, 9).
Mentre, infatti, il «quesito di diritto» rispondeva all’esigenza di una maggiore formalizzazione dell’atto introduttivo del giudizio di cassazione proprio nell’ottica del c.d. principio di autosufficienza, e ciò al fine di rendere più agevole e veloce la decisione della Corte, il «filtro», invece, mira ad ottenere una selezione dei ricorsi che per le loro caratteristiche non richiedono la trattazione secondo l’iter ordinario del giudizio di cassazione. O meglio, questa sembra essere la ricostruzione del «filtro» dell’art. 360 bis che meglio si conforma al nostro sistema costituzionale.
La stessa Corte, ben consapevole del fatto che un’interpretazione fedele del dettato dell’art. 360 bis avrebbe portato ad un uso del nuovo strumento eccessivamente «rigido» e formalistico (ma inevitabilmente incidente sulla garanzia costituzionale del ricorso per cassazione di cui all’art. 111, comma 7, Cost.), in questi primi anni di applicazione si è sforzata di offrire un’interpretazione della nuova disposizione (in proposito rinvio a Carratta, Il giudizio di cassazione nell’esperienza del “filtro” e nelle recenti riforme legislative, in corso di pubblicazione in Giur. it., 2012, n. 12), che, neutralizzando tali effetti dirompenti per il sistema, ha consentito di superare molte delle criticità che essa – come già rilevato in altra sede (Carratta, Il “filtro” al ricorso in cassazione fra dubbi di costituzionalità e salvaguardia del controllo di legittimità, in Giur. It., 2009, 1563; Id., La Corte costituzionale ed il ricorso per cassazione quale “nucleo essenziale” del «giusto processo regolato dalla legge»:un monito per il legislatore ordinario, ivi, 2010, 627) - indubitabilmente presenta. Rafforzandoci, così, nella convinzione che (a parte l’istituzione di una nuova «apposita» sezione) il risultato di ottenere un preventivo (e veloce) vaglio o «filtro» dei ricorsi manifestamente infondati - risultato al quale sembra ormai rispondere l’art. 360 bis dopo l’accurata opera interpretativa e «ricostruttiva» (ma inevitabilmente «correttiva» del dettato normativo), alla quale è stato sottoposto dalla stessa Corte in questi primi anni di sua applicazione - avrebbe potuto essere agevolmente conseguito, sulla base di un’accorta applicazione degli artt. 375 e 380 bis c.p.c. (Carratta, L’art. 360 bis c.p.c. e la nomofilachia “creativa” dei giudici di Cassazione, ivi, 2011, 886).

4. La nuova modifica del n. 5 dell’art. 360 c.p.c.: un inutile ritorno all’antico.
Come già anticipato, ora il legislatore interviene nuovamente in questa materia attraverso l’art. 54 del D.L. 83/2012. E ciò, sempre con l’obiettivo di limitare l’accesso al giudizio di legittimità.
Con la prima modifica in realtà il legislatore del 2012 si limita a modificare il vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. (a proposito della nuova modifica del n. 5 dell’art. 360 v., in senso critico, Bove, Giudizio di fatto e sindacato della corte di cassazione: riflessioni sul nuovo art. 360 n. 5 c.p.c., in www.judicium.it; Fornaciari, Ancora sulla riforma dell’art. 360 n. 5 c.p.c.: basta, per favore, basta!, ibidem), stabilendo che il ricorso per cassazione è proponibile in caso di vizio di «omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti».
Si tratta di vizio nasce dalla violazione del dovere del giudice di esaminare tutti fatti allegati dalle parti, ove provati. Tuttavia, è necessario che l’omesso esame riguardi un «fatto decisivo per il giudizio», e cioè un fatto che, ove fosse stato tenuto presente, avrebbe portato ad una decisione diversa da quella assunta. Nelle intenzioni del legislatore, la nuova formulazione dovrebbe escludere il sindacato della Corte sulla motivazione del provvedimento impugnato e sull’iter logico che la sorregge. Ma è facile prevedere che questo non accadrà.
Prima di tale modifica il n. 5 dell’art. 360 (come modificato dal legislatore nel 2006) parlava del vizio di «omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio». Nella pratica questo si riteneva – ad eccezione della totale omissione della motivazione – il motivo attraverso il quale il giudizio di cassazione si avvicina di più all’esame del merito del giudizio.
Indubbiamente, per effetto della nuova formulazione introdotta nel 2012, il motivo in questione supera l’ampiezza precedente e si riduce – come detto - al solo vizio di omesso esame «circa» un fatto decisivo e discusso fra le parti. Sennonché è difficile ammettere che in questo modo si riesca ad eludere il controllo dei giudici di legittimità sulla motivazione e quindi sull’iter logico seguito dal giudice di merito.
Anzitutto perché, anche per valutare la sussistenza del vizio oggi indicato dal n. 5 dell’art. 360, il punto di riferimento non può che essere la motivazione del provvedimento: solo da essa può ricavarsi l’omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio. E dunque, anche alla luce della nuova formulazione, il n. 5 dell’art. 360 continua a presentarsi – sia pure con modalità diverse - come un motivo del tutto particolare: un errore di attività del giudice, che inficia la correttezza della sua valutazione e dell’iter logico seguito.
D’altro canto, anche laddove la motivazione sia viziata, ma per ragioni diverse dall’omesso esame circa un fatto decisivo (che impone la proposizione del ricorso ai sensi del n. 5), non si può negare che vada ad inficiare la validità della sentenza e possa rilevare per il profilo della nullità della sentenza di cui al n. 4 dello stesso art. 360. Alla stessa conclusione, infatti, si perveniva con riferimento alla versione originaria del n. 5 dell’art. 360 (ante riforma del 1950), che, come detto, era sostanzialmente identica a quella ora introdotta dal legislatore del 2012 (v., in particolare, Satta, Guida pratica per il nuovo processo civile italiano, Padova, 1941, 122; Carnelutti, Istituzioni del nuovo processo civile italiano, Roma, 1941, p. 459; Vocino, Prime riflessioni sull’«omesso esame di fatto decisivo», in Giur. compl. Cass. civ., 1946, I, 169).
E’ evidente, infatti, che una sentenza con una motivazione omessa o apparente (perché insufficiente o contraddittoria) risulta invalida perché priva di uno dei requisiti indispensabili (art. 132 c.p.c.) per il raggiungimento del suo scopo (art. 156, 2° comma, c.p.c.).
E’ facile prevedere, dunque, che la riformulazione del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. non sortirà alcun effetti pratico. Anzi, potrebbe complicare ulteriormente la situazione se si considera che il legislatore del 1950 intervenne sullo stesso n. 5 mutandolo da vizio per omesso esame di un fatto decisivo in vizio da omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un fatto decisivo, proprio per tipizzare le ipotesi nelle quali poteva rilevare il vizio di motivazione come base per la proposizione del ricorso per cassazione. Una volta superata questa tipizzazione del vizio, la rilevanza dello stesso con riferimento al n. 4 dell’art. 360 dovrebbe consentire di far valere il vizio in questione tutte le volte in cui la parte ritenga che esso possa aver determinato una nullità della sentenza (e dunque, anche al di fuori dei limiti entro i quali finora lo stesso vizio di motivazione è stato utilizzato).

5. Il «filtro» selettivo sulla c.d. doppia conforme nelle riforme del 2012: profili di incostituzionalità. 
Una seconda novità introdotta nel 2012 riguarda la limitata utilizzabilità del motivo di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c.
La prima limitazione la ritroviamo nel 4° comma dell’art. 348 ter, laddove si prevede che, quando l’ordinanza che dichiari inammissibile (rectius: manifestamente infondato) l’appello perché non presenta una «ragionevole probabilità di essere accolto» (art. 348 bis c.p.c.) sia fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione appellata, il ricorso per cassazione (proponibile avverso la sentenza di primo grado: art. 348 ter, 1° comma) può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui ai numeri 1), 2), 3) e 4) del 1° comma dell’art. 360.
Una seconda esclusione, invece, riguarda direttamente la sentenza d’appello. Infatti, stando al 5° comma dell’art. 348 ter, la disposizione di cui al 4° comma (poc’anzi richiamata) «si applica, fuori dei casi di cui all’art. 348 bis, 2° comma, lett. a) [e quindi ad esclusione delle ipotesi in cui l’appello sia proposto nelle cause per le quali sia previsto l’intervento necessario del P.M. dall’art. 70, 1° comma], anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza d’appello che conferma la decisione di primo grado».
Verrebbe da dire che agli accorti «aggiustamenti» interpretativi che la Corte ha operato – come si diceva in precedenza - su alcuni profili del «filtro» dell’art. 360 bis, replica il legislatore del 2012 imponendo direttamente una nuova limitazione di accesso al giudizio di legittimità con l’art. 348 ter c.p.c. Con tutti i problemi che questo crea in un sistema come il nostro nel quale il ricorso per cassazione è garantito costituzionalmente contro qualsiasi «violazione di legge».
La limitazione così introdotta può essere configurata anch’essa come una sorta di «filtro» dei ricorsi da sottoporre al giudizio di legittimità. Siamo in presenza, in questo caso, di un vero e proprio filtro selettivo, sia pure utilizzato direttamente dal legislatore ordinario e senza alcuna possibilità di sindacato della stessa Corte.
La nuova previsione normativa, infatti, non ha altra funzione che quella di impedire alle parti del giudizio di merito di utilizzare la garanzia costituzionale dell’art. 111, comma 7, Cost. nell’ipotesi in cui si configuri la situazione indicata dallo stesso legislatore. E cioè, esclude l’utilizzazione del motivo di cui al n. 5 dell’art. 360 nei soli casi in cui o la sentenza d’appello abbia confermato la decisione di primo grado, circa la valutazione dei fatti di causa compiuta dal giudice di primo grado (c.d. doppia conforme sui fatti), oppure l’appello proposto sia stato dichiarato inammissibile (rectius: manifestamente infondato) – ai sensi del nuovo art. 348 bis - per la «non ragionevole probabilità di essere accolto»,e questa decisione di inammissibilità è fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione appellata  (art. 348 ter, comma 4).
Né possono tornare utili a superare l’impedimento le soluzioni interpretative seguite dalla Corte con riferimento all’art. 360 bis, essendo evidente che in questo caso l’eventuale proposizione del ricorso ne impone la vera e propria dichiarazione di inammissibilità e non quella di manifesta infondatezza nel merito ai sensi dell’art. 360 bis.
Proprio per questa ragione – ed in considerazione delle osservazioni finora svolte – essa ci pare si ponga in contrasto con il dettato costituzionale.
E per rendersi adeguatamente conto di ciò è sufficiente considerare che, per effetto dell’applicazione della nuova disposizione, il vizio di cui all’attuale n. 5 dell’art. 360, e cioè l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio e discusso fra le parti, non sarebbe proponibile come motivo di ricorso per cassazione ove il giudice d’appello abbia confermato la decisione del giudice di prime cure nella valutazione dei fatti di causa. Ne deriverebbe che, laddove la valutazione dei fatti compiuta dal giudice di primo grado sia viziata dall’omesso esame circa un fatto decisivo e, proposto appello, il giudice d’appello non ritenga di accoglierlo, le parti non avrebbero a loro disposizione il ricorso per cassazione per eliminare il presunto vizio e con esso la violazione di legge che ne discenderebbe.
Probabilmente, l’iniziale intenzione del legislatore era di evitare – in caso di c.d. doppia conforme sui fatti - il ricorso per cassazione per vizio di motivazione, precedentemente disciplinato proprio dal n. 5 dell’art. 360, la cui modifica nei termini sopra indicati è stata inserita solo in sede di conversione del D.L. 83/2012. Ma certamente questa considerazione non consente di superare il contrasto della nuova disposizione con l’art. 111, comma 7, Cost. e di evitare la strada obbligata dell’investitura dei giudici costituzionali, in quanto nel caso di specie abbiamo a che fare con una «violazione di legge» della sentenza di primo grado non sottoponibile a ricorso per cassazione, come, invece, impone il dettato costituzionale.
Né può essere utilizzato in questo caso l’argomento secondo cui la limitazione all’accesso al giudizio di cassazione sarebbe funzionale al rafforzamento della funzione nomofilattica della Corte e, indirettamente, ad assicurare l’uguaglianza in sede di interpretazione ed applicazione della legge (così, per la giustificazione del “filtro” di cui all’art. 360 bis c.p.c., Proto Pisani, Sulla garanzia costituzionale del ricorso per cassazione sistematicamente interpretata, in Foro It., 2009, V, 381 ss., riprendendo quanto già sostenuto in precedenza in Id., Crisi della cassazione: la (non più rinviabile) necessità di una scelta, ivi, 2007, V, 122 ss.), essendo evidente che l’esclusione del ricorso in ipotesi di c.d. doppia conforme restringe l’area di accesso con riferimento alla valutazione dei fatti di causa da parte del giudice di merito.
Peraltro, i dubbi di legittimità costituzionale della nuova disposizione aumentano – e questa volta per il profilo della irragionevolezza e quindi con riferimento all’art. 3 Cost. - se si considera che il nuovo limite di accesso al giudizio di cassazione viene previsto dall’art. 348 ter c.p.c. per due ipotesi fra loro notevolmente diverse.
Non v’è dubbio, infatti, che, mentre nel caso della sentenza d’appello che abbia confermato la valutazione sui fatti compiuta dal giudice di prime cure la pronuncia del giudice d’appello segue la trattazione completa del giudizio d’appello, nel caso dell’ordinanza dichiarativa della inammissibilità (rectius: manifesta infondatezza) per non ragionevole probabilità di accoglimento dell’appello proposto, ex art. 348 bis, è mancata del tutto la trattazione della causa da parte del giudice d’appello ed il contenuto dell’ordinanza si limita ad una mera valutazione prognostica di inaccoglibilità dell’impugnazione proposta.
E che si tratti di due situazioni processuali notevolmente diverse lo testimonia lo stesso art. 348 ter c.p.c., nel prevedere che, in caso di pronuncia dell’ordinanza, vi sarà la possibilità di proporre ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado appellata.
Di fatto, quindi, in questo caso è la sola valutazione compiuta dal giudice di primo grado che, non essendosi svolto l’appello proposto, perché ritenuto probabilmente non accoglibile, sarà oggetto del ricorso per cassazione. E se così è, ne deriva che l’eventuale vizio di cui all’attuale n. 5 dell’art. 360 (omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio e discusso fra le parti), commesso dal giudice di primo grado, rimane fermo ed insindacabile per il solo fatto che il giudice d’appello ha pronunciato l’ordinanza di non ragionevole probabilità dell’appello di essere accolto.

6. Considerazioni conclusive.
Abbiamo a che fare, dunque, con un’ulteriore modifica legislativa di pessima fattura e di incerto destino, con la quale, però, si interviene in maniera maldestra su un fondamentale istituto del nostro processo civile e, indirettamente, sui principi costituzionali che lo sorreggono; ancora una volta nel nome dell’efficienza e dell’accelerazione dei giudizi civili.
E, in attesa che anch’essa soccomba sotto la scure dei giudici costituzionali, confidiamo che il nostro legislatore, accantonata la tendenza ad intervenire sulla disciplina processuale con foga bulimica (di «bulimia legislativa» parla Chiarloni, Introduzione, in La giustizia civile tra nuovissime riforme e diritto vivente, in Giur. it_._, 2009, 156 ss.) e con ricorrenti, ma inutili, «riforme-spot», finalmente si renda conto che norme di tal fatta non solo non risolvono i problemi (veri e seri) del giudizio di cassazione, ma inevitabilmente finiscono per aggravarli.

Pubblicato il 6/11/2012

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