di Eugenio della Valle

1)        Premessa. Con le lenti del tributarista il tema della bilateralità può essere affrontato avendo riguardo ai seguenti tre aspetti: (i) la natura, commerciale o meno, dell’ente bilaterale; (ii) il regime delle entrate contributive; (iii) il regime delle prestazioni erogate.

Il dato di partenza mi pare sia rappresentato dall’art. 2, comma 1, lett. h), del d.lgs. n. 276/2003, il quale, nel trarre indicazioni dalla realtà fenomenologica, definisce gli enti bilaterali come “organismi costituiti a iniziativa di una o più associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative, quali sedi privilegiate per la regolazione del mercato del lavoro attraverso: la promozione di una occupazione regolare e di qualità; l'intermediazione nell'incontro tra domanda e offerta di lavoro; la programmazione di attività formative e la determinazione di modalità di attuazione della formazione professionale in azienda; la promozione di buone pratiche contro la discriminazione e per la inclusione dei soggetti più svantaggiati; la gestione mutualistica di fondi per la formazione e l'integrazione del reddito; la certificazione dei contratti di lavoro e di regolarità o congruità contributiva; lo sviluppo di azioni inerenti la salute e la sicurezza sul lavoro; ogni altra attività o funzione assegnata loro dalla legge o dai contratti collettivi di riferimento”.

Trattasi dunque di strutture organizzative non profit che erogano prestazioni o servizi sulla base di regole fissate in sede di contrattazione collettiva. Il contratto collettivo costituisce la fonte primaria di regolazione ed indirizzo del fenomeno che si caratterizza, sotto il profilo del modello giuridico assunto dalla struttura organizzativa, per una “pluralità morfologica”; e ciò nel senso che alle parti sociali è lasciata ampia autonomia nella selezione del modello giuridico mediante il quale esercitare le attività di cui sopra, che si tratti di s.r.l., consorzio, ente personificato o non, cassa di previdenza o comitato misto. Ferma restando, comunque, la composizione bilaterale degli organi che impone la gestione paritaria fra rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro.

Prevale comunque nella prassi operativa l’utilizzo del modello giuridico dell’associazione, riconosciuta o meno (è peraltro frequente il caso in cui gli associati sono rappresentati da altre associazioni).

La Corte di Cassazione, con riferimento agli enti bilaterali, si esprime in termini di “enti di fatto, dotati di autonomia ed idonei ad essere titolari di rapporti giuridici propri, distinti dai soggetti che ad essa hanno dato vita e da coloro (datori di lavoro e lavoratori) ai quali sono destinati i servizi e le prestazioni che ne costituiscono gli scopi; pertanto essi hanno la capacità processuale di stare in giudizio in persona dell’organo (Presidente) che ne ha per statuto la rappresentanza legale; una propria organizzazione, interna ed esterna, regolata dai patti dell’accordo associativo o, in difetto, ove non incompatibili, dalle norme disciplinanti le associazioni riconosciute e le società, quali elementi integrativi di quei patti” (Così Cass., Sez. Lav., 6.3.1986, n. 1502, in Mass. Giur. Lav., 1986).

Il patrimonio dell’ente bilaterale è rappresentato dai contributi degli “aderenti” ossia i lavoratori e le imprese laddove i meccanismi di contribuzione variano a seconda del tipo di ente bilaterale e vanno dalla “contribuzione obbligatoria pura” di cui all’art. 2, comma 28, della l. n. 662/1996 e sue varianti, alla “contribuzione obbligatoria ad utilizzo facoltativo” secondo lo schema dell’art. 118, commi 3, 5 ed 8, del d.lgs. n. 388/2000, alla “contribuzione per dovere libero” di cui all’art. 10 della l. n. 30/2003 ed alla “contribuzione per dovere libero su contegno del lavoratore” ricollegabile all’obbligazione contributiva a favore di forme pensionistiche complementari di cui al d.lgs. n. 252/2005 (Per una rassegna di tali meccanismi v. M. FAIOLI, Riflessioni in tema di organizzazione ed azione dell’ente bilaterale nel mercato del lavoro, in AA.VV., Indagine sulla bilateralità nel terziario, Torino, 2010).

Le attività svolte dall’ente bilaterale attengono in particolare alla mediazione tra domanda ed offerta di lavoro anche in relazione all’inserimento lavorativo di disabili e svantaggiati (raccolta di curricula, svolgimento di operazioni di preselezione, effettuazione di comunicazioni obbligatorie relative ad assunzioni avvenute mediante intermediazione etc.), alla promozione della formazione, vuoi nella dimensione dell’apprendistato che in quella di gestione mutualistica dei fondi per la formazione e l’integrazione del reddito, alla certificazione con finalità diverse che vanno dalla regolarità contributiva, alla prevenzione delle controversie in materia di qualificazione del lavoro svolto, alla volontà abdicativa di diritti ed all’assistenza ed informazione delle parti etc..

2)        Natura dell’ente bilaterale. Alla luce di quanto sopra e tralasciando il caso in cui l’ente bilaterale assuma la forma di s.r.l., mi pare si possa affermare che l’ente che ne occupa, ai fini delle imposte sui redditi e dell’IVA (e, dunque, dell’IRAP) si configuri quale ente non commerciale ossia quale ente che, utilizzando la terminologia dell’art. 73, comma 1, lett. c), del Tuir, non ha per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di un’attività commerciale.

Ad una tale conclusione pervenendosi non tanto in ragione del particolare tipo di attività che svolge l’ente in questione, giacché taluni servizi resi dal medesimo in astratto potrebbero essere gestiti economicamente (nel senso di assicurare la copertura dei costi di funzionamento con entrate almeno prevalentemente di tipo corrispettivo), quanto in ragione del fatto che i costi di gestione sono coperti esclusivamente con entrate contributive degli “aderenti” ovvero con erogazioni liberali di terzi soggetti. E’ noto, infatti, che la più accreditata dottrina tributaria considera implicita nella nozione di impresa fiscalmente rilevante (e di attività commerciale), l’economicità ossia l’essere l’attività rivolta verso i terzi e verso il mercato e strutturata in modo che i costi di gestione siano tendenzialmente coperti con i ricavi dell’attività e non già con criteri contributivi o sovvenzionatori (Sul punto v., tra gli altri, V. FICARI, Strumentalità dell’attività commerciale e fine non lucrativo nella tassazione delle associazioni, in A. FEDELE (a cura di), Il regime fiscale delle associazioni, Padova, 1998, 5-7).

Peraltro, allorquando l’ente bilaterale assuma la forma dell’associazione o del consorzio, la non commercialità dell’ente potrebbe conseguire comunque dalla previsione di cui all’art. 148, comma 1, del Tuir secondo cui: (i) “non è considerata commerciale l’attività svolta nei confronti degli associati o partecipanti, in conformità alle finalità istituzionali, dalle associazioni, dai consorzi e dagli altri enti di tipo associativo”; (ii) “Le somme versate dagli associati o partecipanti a titolo di quote o contributi associativi non concorrono a formare il reddito complessivo”.

La suddetta disposizione, in buona sostanza, detassa l’attività c.d. interna degli enti di tipo associativo ossia l’attività svolta in favore dei soli associati a fronte della quale sta la quota associativa (quanto all’IVA si perviene alla stessa conclusione alla luce dei presupposti di applicazione del tributo: per tutti v. G.G. BERLINGIERI, Gli enti non commerciali, in F. TESAURO (a cura di), L’imposta sul valore aggiunto, Torino, 2001, 207). Ebbene, nel caso dell’ente bilaterale a forma associativa laddove gli organismi associati rappresentano (trattasi di rappresentanza sindacale) gli “aderenti” (lavoratori ed imprese), non ha senso escludere l’applicazione dell’anzidetta disposizione solo per effetto della dissociazione tra qualifica di associato e soggetto che versa la contribuzione all’ente (ossia l’”aderente”).

Non escluderei a priori nemmeno l’applicazione all’ente bilaterale dell’art. 74, comma 2, del Tuir laddove si prevede la non commercialità, da un lato, dell’”esercizio di funzioni statali da parte di enti pubblici” (lett. a), e, dall’altro, “l’esercizio di attività previdenziali, assistenziali e sanitarie da parte di enti pubblici istituiti esclusivamente a tal fine, comprese le aziende sanitarie locali”.

Tale ultima previsione, infatti, per quanto riguarda in particolare l’attività previdenziale, viene intesa in dottrina, svalutando il riferimento alla pubblicità dell’ente che svolge l’attività in questione, nel senso di escludere la natura commerciale della predetta attività ove svolta nell’ambito del sistema della previdenza pubblica indipendentemente dalla qualificazione, pubblica o privata, del soggetto medesimo (V. P. PURI, Associazioni ed attività previdenziale: profili dell’imposizione diretta, in A. FEDELE (a cura di), op,cit., 166 ss.); sicché ci si deve chiedere se alla stessa conclusione non si debba eventualmente pervenire anche per l’attività assistenziale resa da un ente, quale quello bilaterale, che eroga specifici servizi e prestazioni individuati sulla base di regole fissate dalla contrattazione collettiva ed orientati al perseguimento di “finalità lato sensu complementari del welfare pubblico” (così G. PROIA, Enti bilaterali e riforma del mercato del lavoro, in DL, 2003, 649; si consideri comunque che l’art. 38, comma 11, del d.l. n. 78 del 31.5.2010 modifica la lett. b) dell’art. 74 del Tuir inserendo alla fine le parole «nonché l'esercizio di attività previdenziali e assistenziali da parte di enti privati di previdenza obbligatoria»).

Quanto alla possibile qualificazione dell’ente bilaterale quale ONLUS, qualificazione che potrebbe venire in considerazione in ragione dello svolgimento da parte dell’ente medesimo di attività che potrebbero forse astrattamente rientrare in quelle, menzionate nell’art. 10, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 460/97, di assistenza sociale e socio-sanitaria nonché di assistenza sanitaria e di formazione, mi pare che a ciò osti in via di principio la circostanza che l’attività di una ONLUS deve perseguire finalità di solidarietà sociale ossia non deve essere rivolta ai soci, associati o partecipanti se non quando tali soggetti sono “persone svantaggiate in ragione di condizioni fisiche, psichiche, economiche, sociali o familiari” (v. art. 10, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 460/97). Peraltro il comma 10 del suddetto art. 10 esclude che le organizzazioni sindacali, le associazioni di datori di lavoro e le associazioni di categoria possano considerarsi ONLUS e a me pare che (quantomeno) la prossimità dell’ente bilaterale a tali categorie sia indiscutibile.

3)        Il regime delle contribuzioni. Consegue da quanto precede che i contributi versati da imprese e lavoratori per dotare l’ente bilaterale del patrimonio necessario alle funzioni assegnate dalla contrattazione collettiva non dovrebbero costituire reddito per l’ente medesimo, né corrispettivo di un’operazione imponibile ai fini IVA.

Particolarmente delicato é il tema della sorte dei contributi in capo al soggetto erogante e ciò considerato che, se é vero che il predetto soggetto (l’”aderente”) non dovrebbe aver diritto alla restituzione del patrimonio dell’ente, neppure in caso di scioglimento dello stesso, probabilmente sarebbe impropria una qualificazione della contribuzione in termini di mero versamento a fondo perduto. In effetti la gestione mutualistica del patrimonio ridonda a vantaggio degli stessi “aderenti” e, indirettamente, degli associati (nel senso che una qualificazione in termini di versamento a fondo perduto consente una considerazione del versamento in termini di elemento incidente negativamente sulla redditività complessiva dell’associato che lo corrisponde, v. L. CASTALDI, I rapporti economico patrimoniali tra associati e associazione nella disciplina delle imposte dirette e nell’IVA, in A. FEDELE (a cura di), op.cit., 76).

Di qui l’interrogativo circa la deducibilità delle contribuzioni in questione, la quale può astrattamente ammettersi solo ove ci si collochi all’interno della disciplina relativa alla determinazione del reddito d’impresa ovvero all’interno della casistica degli oneri deducibili/detrazioni per oneri di cui, rispettivamente, agli artt. 10 e 15 del Tuir.

Quanto alla disciplina relativa alla determinazione del reddito d’impresa, com’é noto, l’art. 99 del Tuir prevede la deducibilità per cassa dei “contributi ad associazioni sindacali e di categoria .... se e nella misura in cui sono dovuti, in base a formale deliberazione dell’associazione” e si tratta di una previsione che dimostrerebbe come il legislatore tributario abbia avocato a sé la valutazione circa l’inerenza delle contribuzioni associative prescrivendo la deducibilità delle sole contribuzioni espressamente contemplate dalla norma (In questi termini L. CASTALDI, op. e loc. cit., 77, in nota 60.).

Un’interpretazione estensiva del suddetto articolo conforme alla sua ratio dovrebbe consentirne l’applicazione anche al caso del contributo versato dall’impresa all’ente bilaterale. Se infatti hanno natura sindacale gli organismi associati, perché non riconoscere la stessa natura all’ente dagli stessi costituito ?

Quanto, invece, alle casistiche rinvenibili nei citati artt. 10 e 15 del Tuir (contenenti elencazioni tassative), parrebbe difficile ricondurvi le contribuzioni in oggetto. E questo vale anche per la fattispecie di cui alla lett. e) dell’art. 10 relativa ai “contributi previdenziali ed assistenziali versati in ottemperanza a disposizioni di legge, nonché quelli versati facoltativamente alla gestione della forma pensionistica obbligatoria di appartenenza, ivi compresi quelli per la ricognizione di periodi assicurativi”; solo forzando l’inciso “in ottemperanza a disposizioni di legge” ed accedendo ad una sua lettura nel senso di “in conformità alla legge”, infatti, la contribuzione avente la finalità ivi prevista potrebbe essere ammessa in deduzione.

In una prospettiva esterna alla disciplina relativa alla determinazione del reddito d’impresa appare, dunque, improbabile la deducibilità delle contribuzioni.

Il profilo della deducibilità per l’erogante non é peraltro l’unico che interessa la contribuzione effettuata in favore dell’ente bilaterale.

Per il lavoratore, infatti, si pone il problema se la predetta contribuzione concorra o meno a formare il proprio reddito imponibile. E sul punto potrebbe diventare rilevante il meccanismo di contribuzione che, volta a volta, viene in considerazione posto che l’art. 51, comma 2, lett. a), del Tuir prevede che non concorrono a formare il reddito di lavoro dipendente “i contributi previdenziali e assistenziali versati dal datore di lavoro o dal lavoratore in ottemperanza a disposizioni di legge”, laddove invece “i contributi di assistenza sanitaria versati dal datore di lavoro o dal lavoratore ad enti o casse aventi esclusivamente fine assistenziale in conformità a disposizione di contratto o di accordo o di regolamento aziendale, che operino negli ambiti di intervento stabiliti con il decreto del Ministro della salute di cui all’art. 10, comma 1, lett. e ter)”, non concorrono “per un importo non superiore complessivamente ad euro 3.615,20” (più ampia é l’omologa esclusione prevista ai fini della determinazione dell’imponibile previdenziale dall’art. 6, comma 4, lett. f), del d.lgs. n. 314 del 1997 laddove sono menzionati i contributi versati a finanziamento di “casse, fondi, gestioni previste da contratti collettivi o da accordi o da regolamenti aziendali, al fine di erogare prestazioni integrative previdenziali o assistenziali a favore del lavoratore e suoi familiari nel corso del rapporto o dopo la sua cessazione” a nulla rilevando il carattere eventuale o meno della loro corresponsione).

Dunque solo determinati contributi vengono detassati. Per tutti gli altri non giova, onde escluderne il concorso alla formazione del reddito di lavoro dipendente, la circostanza che dei contributi versati il lavoratore non ha la disponibilità e, quindi, il possesso trovandosi gli stessi segregati presso un soggetto terzo, l’ente bilaterale, appunto (cfr. P. PURI, Destinazione previdenziale e prelievo tributario, Milano, 2005, 188).

4). Il regime delle prestazioni. Venendo al regime delle prestazioni erogate dall’ente bilaterale, é chiaro che l’eventuale rilevanza reddituale delle stesse pone problemi di doppia imposizione. Se infatti la prestazione concorre a formare il reddito di lavoro dipendente del beneficiario ed a fronte della prestazione vi é un contributo non dedotto o comunque tassato, il rischio é, appunto, la duplicazione d’imposta (duplicazione che diventa vieppiù censurabile nel momento in cui esiste un rapporto diretto tra contributo e prestazione: sul punto, con particolare riferimento ai contributi con finalità previdenziali, v. P. PURI, op.ult.cit., 187).

Trattasi di un rischio tutt’altro che remoto stante la configurazione in senso tendenzialmente onnicomprensivo della nozione di reddito di lavoro dipendente quale risultante dall’art. 51, comma 1, del Tuir (su tale nozione v., per tutti, A. URICCHIO, Flessibilità del lavoro e imposizione tributaria, Bari, 2004, 82 ss.): tutto ciò (somme o “valori”) che viene percepito “in relazione al rapporto di lavoro”, quale che sia il titolo, concorre a formare l’imponibile fiscale in capo al lavoratore e le uniche eccezioni sono quelle elencate nel secondo comma dello stesso art. 51.

Cosicché occorre domandarsi se l’ente bilaterale non assuma, nel caso di prestazioni tassabili in capo al lavoratore, il ruolo di sostituto d’imposta.

Sul punto viene in considerazione la nota Circolare ministeriale del 23 dicembre 1997, n. 326 che, con riferimento all’art. 23 del d.P.R. n. 600/73, al par. 3.2. prevede, da un lato, che “l'obbligo di effettuare la ritenuta da parte dei sostituti d'imposta sussiste ogni qual volta corrispondano redditi cui si rende applicabile la disciplina contenuta nel richiamato articolo 48 del TUIR e anche se le somme e i valori in questione sono erogati a favore di soggetti che non sono propri dipendenti, ma pensionati o dipendenti in cassa integrazione, mobilità, maternità, etc.”; dall’altro che “poiché costituiscono redditi di lavoro dipendente, da determinare a norma dell'articolo 48 del TUIR, non soltanto le somme e i valori che il datore di lavoro corrisponde direttamente, ma anche le somme e i valori che in relazione al rapporto di lavoro sono erogate da soggetti terzi rispetto al rapporto di lavoro, ne discende che il datore di lavoro-sostituto d'imposta deve effettuare le ritenute a titolo di acconto con riferimento a tutte le somme e i valori che il lavoratore dipendente percepisce in relazione al rapporto di lavoro intrattenuto con lui, anche se taluni di questi sono corrisposti da soggetti terzi per effetto di un qualunque collegamento esistente con quest'ultimo (ad esempio, un accordo o convenzione stipulata dal sostituto d'imposta con il soggetto terzo). Ciò significa che tra il sostituto d'imposta e il terzo erogatore o il dipendente sarà obbligatorio un sistema di comunicazioni che consenta di assoggettare correttamente a tassazione il totale reddito di lavoro dipendente corrisposto”.

Non é chiarissimo il rapporto tra i due passi in questione e cosa accada dunque quando del reddito di lavoro dipendente sia corrisposto da un soggetto terzo rispetto al datore di lavoro. In effetti il primo passo della Circolare parrebbe attribuire al terzo il ruolo di sostituto d’imposta, mentre il secondo va nel senso opposto (ossia nel senso di riconoscere il predetto ruolo al datore di lavoro che al terzo ricorre per l’erogazione del reddito).

Ciò nondimeno, tenderei ad applicare al caso delle prestazioni rese dagli enti bilaterali la seconda soluzione (e cioè sostituto d’imposta rimane il datore di lavoro) in ragione del fatto che il rapporto tra ente bilaterale e datore di lavoro é in qualche modo accostabile a quello che trae origine, utilizzando il wording della poc’anzi citata Circolare, da un accordo o una convenzione stipulata tra il sostituto d’imposta (il datore di lavoro) con il soggetto terzo.

5). Conclusioni. Da queste brevissime note emerge, in conclusione, la trama della fiscalità della c.d. bilateralità quale fattispecie complessa ed unitaria articolata nelle diverse fasi che vanno dalla contribuzione all’ente alle prestazioni dallo stesso erogate (passando per la gestione del patrimonio che qui, tuttavia, non si é considerata) (Per la ricostruzione delle fasi in cui si articola la disciplina fiscale della previdenza (settore che può costituire un modello di riferimento per la fiscalità della bilateralità) quale fattispecie complessa ed unitaria v. P. PURI, op.ult.cit., 182..

Trattasi di una trama che andrebbe meglio messa a fuoco in funzione delle diverse variabili presenti nel fenomeno della bilateralità in termini ad esempio di forma dell’ente erogatore, di tipo di soggetto promotore, di natura delle prestazioni erogate etc., ma che nelle sue coordinate essenziali mi pare possa dirsi sopra compiutamente delineata.

Si intrecciano al suo interno tematiche di settore di non poco momento quali, si é visto, il concetto tributario di impresa, la sorte dell’apporto di capitali in enti non societari ed il presupposto delle imposte sui redditi rappresentato dal possesso e l’impressione che se ne trae é che il terreno della bilateralità per il tributarista sia effettivamente ricco di insidie.

Impressione che risulta peraltro confermata dalla circostanza che alla fiscalità della bilateralità sono dedicati due emendamenti all’Atto Senato n. 2228 relativo alla conversione in legge del decreto-legge n. 78 del 2010.

Con uno si prevede l’inserimento nell’art. 51 del Tuir della lett. a-bis) relativa alle “somme versate dai datori di lavoro e dai lavoratori agli organismi paritetici costituiti in conformità ad accordi collettivi nazionali di lavoro stipulati tra le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative nella categoria”; tali somme, oltre a non costituire reddito per il lavoratore, prevede la nuova lett. a-bis, “non costituiscono per l'organismo bilaterale reddito di cui all'articolo 6 del dpr n. 917 del 1986 né sono incluse nella base imponibile di cui all'articolo 75 del dpr n. 917 del 1986”.

Si legge nella motivazione dell’emendamento in questione che, considerate le finalità statutarie degli enti bilaterali, “si propone di introdurre un trattamento fiscale adeguato alla rilevanza istituzionale degli enti bilaterali medesimi, al fine di incentivare lo sviluppo dei sistemi di relazioni sindacali e di non penalizzare gli investimenti operati dalle imprese e dai lavoratori nel campo della formazione, della solidarietà sociale, della sicurezza sul lavoro, della conciliazione delle vertenze, disponendo l’esclusione dei contributi versati dal datore di lavoro e dai lavoratori dalla retribuzione imponibile ai fini fiscali e contributivi”.

Con il secondo emendamento si prevede invece che, “Ai fini dell’applicazione del decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460, gli organismi paritetici costituiti in conformità ad accordi collettivi nazionali di lavoro stipulati tra le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative nella categoria sono equiparati alle associazioni sindacali”. Previsione, questa, in linea con alcune delle considerazioni che precedono e giustificata con la motivazione per cui, “In considerazione della importanza che gli enti bilaterali rivestono per la strategia di creazione e di consolidamento dell’occupazione, si richiede l’adozione di una norma di interpretazione autentica al fine di chiarire che a tali organismi, quando costituiti tra le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative nella categoria, si applica la disciplina tributaria applicabile per le associazioni sindacali”.

Segno evidente, tali emendamenti, che la normativa tributaria vigente sta effettivamente stretta al fenomeno della bilateralità.

Pubblicato il  25/08/2010

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