di Samuele Donatelli*

1-   Negli ultimi tempi l’attenzione degli studiosi e della giurisprudenza sull’elusione fiscale ha raggiunto notevoli livelli.
Ciò è molto probabilmente dovuto al fatto che sono ormai passati più di dieci anni dalla introduzione nel nostro sistema tributario dell’art. 37 bis nel d.p.r. n. 600 del 1973 (sulla norma generale antielusiva in materia di imposte sui redditi) e che quindi sono giunti a maturazione i tempi del contenzioso sugli accertamenti elusivi fino ai vertici del giudice di legittimità e della Corte di Giustizia Europea.
A dar inizio al dibattito sono state una serie di sentenze della Corte di Cassazione del 2005 che affrontando le operazioni di dividend washing e dividend stripping hanno ribaltato il precedente orientamento della stessa Corte sull’argomento.
Ed infatti in precedenza i giudici di legittimità avevano ritenuto legittime le operazioni menzionate sulla scorta del fatto che potevano essere qualificati elusivi solo quegli atti che erano definiti tali da una norma vigente al momento in cui erano stati posti in essere (cfr. Cass., 03.04.2000 n. 3979; Cass., 03.09.2001 n. 11371; Cass., 07.03.2002 n. 3345).
Successivamente, invece, la Corte ha ritenuto non necessaria l’esistenza di una norma ad hoc per qualificare l’atto o la serie di atti come elusivi. A tal fine, secondo la Cassazione bastava: a) da un lato, appellarsi all’istituto civilistico del negozio in frode alla legge (ex art. 1344 c.c.) in guisa da riconoscere l’illiceità della causa, in quanto le norme tributarie sono norme imperative poste a tutela dell’interesse generale al concorso delle spese pubbliche ex art. 53 della Cost. (Cass., 26.10.2005 n. 20816); b) da un altro, rilevare che i negozi giuridici tra loro collegati possono essere considerati nulli (nei confronti dell’Amministrazione Finanziaria) per difetto di causa, giusta il disposto degli artt. 1325 n. 2 e 1418, co. 2, del c.c. visto che da questi contratti “… non consegue per le parti alcun vantaggio economico all’infuori del risparmio fiscale” (Cass., 21.10.2005 n. 20398; Cass., 14.11.2005 n. 22932).
Da tali pronunce emerge che i due elementi  qualificanti dell’elusione sono, da un lato, l’ottenimento di un vantaggio fiscale da considerarsi indebito (perché contrario alle scelte di fondo del sistema) e, dall’altro, l’insussistenza di ragioni economiche a sostegno dell’articolato schema negoziale adottato.
Dopo queste sentenze, che costituiscon un deciso revirement rispetto al precedente orientamento, entra in scena la Corte di Giustizia Europea che affronta il problema dell’abuso del diritto comunitario nel campo dell’imposta sul valore aggiunto.
Nella sentenza Halifax - che viene subito considerata un leading case in tema di abuso del diritto nel campo fiscale - la Corte, dapprima afferma il principio generale che gli interessati non possono avvalersi fraudolentemente del diritto comunitario (poiché la normativa comunitaria non può essere estesa sino a comprendere i comportamenti abusivi degli operatori commerciali) e successivamente applica questo principio “… anche al settore Iva …” ed aggiunge che si ha abuso del diritto ogniqualvolta le operazioni pur realmente volute hanno “… essenzialmente lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale …”, e tutto questo deve “… risultare da un insieme di elementi obiettivi …” (Corte di Giustizia Ce, causa C-255/02 del 21.02.2006).
Sulla scorta di questa prima pronuncia del giudice comunitario in materia di IVA, la Corte di Cassazione torna ad occuparsi di elusione fiscale, muta il proprio iter argomentativo e censura alcune operazioni negoziali (a suo dire in odor di elusione) richiamando il principio di matrice comunitaria dell’abuso del diritto (cfr. Cass., 29.03.2006 n. 21221). Dunque non più rinvio ad istituti di matrice civilistica nazionale ma diretto richiamo ai principi comunitari che, come tali, sono direttamente applicabili o d’ufficio in forza del criterio di effettività oppure come jus superveniens.
La Corte afferma altresì che “… la presenza di scopi economici (oltre al risparmio fiscale) non esclude l’applicazione del principio che deve essere inteso come un vero e proprio canone interpretativo del sistema … L’operazione deve essere valutata secondo la sua essenza, sulla quale non possono influire ragioni economiche meramente marginali o teoriche tali da considerarsi manifestamente inattendibili o assolutamente irrilevanti rispetto alla finalità di conseguire un risparmio di imposta”.
Il travaso che i giudici di legittimità compiono, relativamente all’abuso di diritto, dall’ambito comunitario a quello interno è stato molto criticato da parte della dottrina.
Invero, la prima e più incisiva critica sottolinea che il principio dell’abuso del diritto matura nell’ambito dell’imposta sul valore aggiunto che è tributo oggetto di armonizzazione comunitaria (per cui il giudice nazionale deve conformarsi agli standars europei di qualunque natura essi siano) mentre le imposte sui redditi (non armonizzate) hanno matrice interna e quindi non vi può essere applicazione di principi comunitari che taglino trasversalmente tributi diversi fondati su caratteristiche eterogenee. 
In secondo luogo, si fa notare come il criterio delle ragioni economiche per valutare l’elusività o meno di una operazione, oltre ad essere incompatibile con un principio prettamente giuridico come l’abuso del diritto, non permette di cogliere i tratti differenziali che sussistono tra la soluzione fiscalmente meno onerosa - che il contribuente ha il diritto di perseguire (cfr. sent. Halifax) - e la vera e propria elusione.
E proprio a tal fine non si può non notare come la Corte di cassazione dia comunque atto della delicatezza della questione laddove afferma che “… anche nel nostro ordinamento deve essere riconosciuta la liceità dell’obiettivo della minimizzazione del carico fiscale”. 
A questo punto la Corte di Giustizia Europea torna sull’argomento - ancora una volta in tema di IVA - e nella sentenza Part Service (C-425/06 del 21.2.2008) chiarisce i connotati strutturali del principio di abuso del diritto, affermando che affinché una operazione possa considerarsi abusiva deve essere verificato a) se il risultato perseguito sia un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria ad uno o più obiettivi delle direttive in materia b) e se esso fosse lo scopo essenziale della soluzione contrattuale prescelta.
Le linee guida tracciate dai giudici comunitari se, da una parte, permettono di meglio individuare alcuni aspetti del principio dell’abuso del diritto in campo fiscale, dall’altra, pongono qualche interrogativo.
Il collegamento tra “il vantaggio fiscale” e “l’obiettivo della direttiva” consente di cogliere un aspetto che può essere utile per distinguere tra lecita pianificazione fiscale (tesa alla minimizzazione degli oneri tributari) ed elusione fiscale. E quando la Corte chiede di verificare che il vantaggio fiscale non urti contro gli obiettivi della direttiva attribuisce ad essa il rango di criterio guida, in quanto un qualunque beneficio in antitesi con essa può essere indicativo (seppur non decisivo) della elusività di uno schema negoziale.
Peraltro, quando la Corte di Giustizia, precisa il secondo requisito, non facilita l’analisi, posto che non è semplice appurare se uno o più negozi giuridici compiuti dal contribuente possano essere stati (o meno) articolati con lo “scopo essenziale” di conseguire un risparmio tributario (mediante la soluzione contrattuale adottata).

2-   A seguito delle sopraindicate critiche avanzate da parte della dottrina (e della sentenza Part Service che ha ribadito l’applicabilità dell’abuso del diritto ai tributi armonizzati) la giurisprudenza della Corte di Cassazione subisce una ulteriore evoluzione.

Infatti, la Corte pur continuando a far riferimento all’abuso del diritto comunitario, cerca di trovare un collegamento a principi antiabuso all’interno del sistema normativo nazionale e lo rinviene in quello di capacità contributiva.
Le Sezioni Unite, infatti, relativamente a due eclatanti fattispecie elusive hanno affermato che “… i principi di capacità contributiva (art. 53 Cost., comma 1) e di progressività dell’imposizione (art. 53 Cost., comma   2) costituiscono il fondamento sia delle norme impositive in senso stretto, sia di quelle che attribuiscono al contribuente vantaggi o benefici di qualsiasi genere, essendo anche tali ultime norme evidentemente finalizzate alla più piena attuazione di quei principi. Con la conseguenza che non può non ritenersi insito nell’ordinamento, come diretta derivazione delle norme costituzionali, il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione (diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale”, così Cass. SS.UU. , 23.12.2008 n. 30055 e n. 30057).
Ad una attenta analisi dell’evoluzione della giurisprudenza comunitaria e di quella nazionale si possono comprendere - ponendo a raffronto le sentenze dell’una e dell’altra - le ragioni per cui la Corte di cassazione (forse anche un po’ forzando la mano) abbia sentito il bisogno di ricercare all’interno del nostro sistema normativo un principio generale antiabuso. 
La Corte di Giustizia nella sentenza Kofoed (C. 321/05 del 5.7.2007) ha affermato che quando una Direttiva comunitaria prevede determinati effetti in relazione ad una certa fattispecie, questi (gli effetti) in mancanza di un recepimento della Direttiva da parte del legislatore nazionale non possono esplicarsi o prodursi (nella specie si trattava di scambio tra azioni tra società che per le modalità con cui avvenivano potevano essere strumentalizzate in chiave elusiva). Tuttavia, precisa la Corte Europea, anche in mancanza di un diretto recepimento della norma comunitaria, quegli effetti possono trovare cittadinanza ugualmente se all’interno dello Stato membro vi è “un contesto normativo” che consenta la sua applicazione mediante un’interpretazione adeguatrice della normativa nazionale alle finalità delle Direttive comunitarie.
E’ questa la ragione per cui la Corte di cassazione, successivamente alla sentenza Kofoed, tornando sul problema dell’elusione fiscale avverte la necessità di trovare dei principi di carattere generale nel sistema normativo tributario interno che vietino l’abuso del diritto (anche in materia di imposte sui redditi).
È sintomatico, infatti, che le Sezioni Unite della Cassazione abbiano tenuto a precisare “ … che la fonte di tale principio, in tema di tributi non armonizzati, quali le imposte dirette, va rinvenuta  non nella giurisprudenza comunitaria   quanto   piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano” (Cass. SS.UU., 23.12.2008 n. 30057).

A seguito di questa giurisprudenza delle Sezioni Unite particolarmente rigida (visto che tali argomentazioni sono state sollevate d’Ufficio in Cassazione) v’è stata una recentissima evoluzione della Sezione Tributaria della stessa Cassazione (aperta con la s. m. 1465 del 21.1.2009) che appare più bilanciata. Con tale pronuncia la Suprema Corte, nell’esaminare un’articolata operazione commerciale posta in essere tra diverse società che avevano creato una joint venture, ha chiarito che vi deve essere da parte del giudice “… la doverosa ricerca, nella architettura complessiva delle operazioni, dell’obiettivo economico perseguito …” aggiungendo che è decisivo analizzare l’operazione commerciale nel suo insieme senza isolarne alcune parti e focalizzare l’attenzione solo su queste.

Per comprendere se l’operazione negoziale ha costituito lo scopo essenziale dello schema negoziale adottato, essa va letta nel suo complesso ed inoltre non solo per ciò che rappresenta nel caso concreto ma anche alla luce delle logiche economiche e commerciali che regolano il mercato.

Quello che colpisce di più dell’iter argomentativo della sentenza della Sezione Tributaria della Corte è proprio la parte in cui si chiarisce come il contribuente avesse dimostrato che lo scopo essenziale dell’operazione non era il vantaggio fiscale ancorché poi di fatto anche questo fosse stato raggiunto.

Con questa pronuncia la Corte evidenzia due punti molto importanti: a) in primo luogo, come la minimizzazione del carico fiscale possa essere compatibile con operazioni commerciali molto articolate ma che siano giustificate da oggettive condizioni commerciali che prescindano persino dalla concreta operazione posta in essere, e che siano dettate dalle regole del mercato; b) in secondo luogo, come la verifica di una potenziale elusività di un determinato schema negoziale debba avvenire leggendo lo schema in un’ottica generale e non focalizzandosi sui singoli negozi giuridici isolatamente presi.
Peraltro, a parte il fatto che appare più che opportuno l’intervento del legislatore per integrare la normativa antielusiva di cui l’art. 37 bis del D.P.R. n. 600, si deve rilevare che v’è stato un recente, ulteriore e prezioso contributo dalla Suprema Corte (sent. n. 1465 del 21/1/2009) ai fini della definizione del tema.
Alla luce di questa giurisprudenza una operazione economica, vista nel suo complesso, può lecitamente perseguire diversi obiettivi di natura commerciale, finanziaria, contabile ed anche di vantaggio fiscale, integrando gli estremi del comportamento abusivo solo qualora e nella misura in cui tale vantaggio si ponga come elemento predominante ed assorbente dell’intera operazione (tenuto conto sia della volontà delle parti che del contesto fattuale e giuridico in cui la stessa viene posta in essere) e con la conseguenza che il divieto di comportamenti abusivi non vale più ove gli accordi economici possano spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di risparmi di imposta.
Inoltre, precisa la più recente giurisprudenza di Cassazione che a) è onere dell’Amministrazione finanziaria, non solo prospettare il disegno elusivo a sostegno degli accertamenti, ma anche le supposte modalità di manipolazione o di alterazione di schemi classici ritenute come irragionevoli in una normale logica di mercato, se non per pervenire a quel risultato di vantaggio fiscale, e che grava sul b) contribuente la prova dell’esistenza di valide ragione economiche alternative o concorrenti (al vantaggio fiscale) di reale spessore che giustifichino operazioni così strutturate.
La sopraindicata evoluzione della giurisprudenza comunitaria e nazionale indica in modo chiaro come sia necessario l’intervento del legislatore al fine della introduzione nel nostro ordinamento tributario di una generale norma antielusiva ispirata a queste ultime pronunce .

*Dottorando in diritto tributario
Sapienza Roma

Vedi A. Lovisolo, Evasione ed elusione tributaria, in Enciclopedia Giuridica Treccani, vol. XIII

Pubblicato il 24/07/2009