Scrivo queste righe per scusarmi con Cochi Ponzoni e Renato Pozzetto.

Recentemente, infatti, ho scritto un libro (Bravo!, Il Mulino, 2016, pp. 133) che ricostruisce la storia della parola bravo, dalle sue origini romanze fino ai giorni nostri. Ero sicuro di averne ricordato tutte le attestazioni più celebri: da quella che ricorre più volte, anche in forma di superlativo, in Largo al factotum, la cavatina che il baritono canta nella seconda scena del primo atto del Barbiere di Siviglia di Rossini, via via fino a quelle magnificamente cantate da Mina nel 1965 in Brava, una canzone-divertissement costruita da Bruno Canfora per saggiare le straordinarie capacità vocali della cantante.

Credevo di avere ricordato – dicevo – tutti quanti i bravo! più famosi della storia dello spettacolo italiano. Invece no: ho dimenticato di citare l’irresistibile “Bene, bravo, sette più” della celebre coppia comica milanese. E l’ho dimenticato proprio nell’anno in cui ricorre il cinquantesimo anniversario dello storico sketch in cui Cochi e Renato interpretavano, rispettivamente, l’alunno figlio di papà che compra i buoni voti a suon di regali costosi e il maestro squattrinato che lo gratifica con il complimento “Bene, b__ravo, sette più”, un tormentone definitivamente entrato nella storia del teatro comico italiano.

Cochi e Renato a parte...

Fatte, come era doveroso, queste scuse, spiego come mi sia venuta l’idea – che ad alcuni sarà risultata surreale quasi quanto la comicità di Cochi e Renato – di dedicare un libro intero alla parola bravo.

Nell’uso italiano contemporaneo il termine ha un significato normalmente positivo. Bravo è, in primo luogo, chi è ‘abile’, ‘particolarmente capace in un’attività’; in secondo luogo, chi è ‘buono’, ‘onesto’, ‘capace di fare il suo dovere’; infine (e siamo al terzo significato), bravo! è una formula esclamativa di approvazione che si rivolge a chi dice o fa, ha detto o ha fatto, dirà o farà qualcosa che merita consenso o incoraggiamento.

Ma la bravata non è brava

Se questo è vero, mi sono chiesto, come mai bravata (la cui derivazione da bravo è trasparente) non ha affatto un significato positivo? E come mai non lo ha neppure un’espressione composta con bravo come notte brava? Infine: come mai i bravi di manzoniana memoria tutto erano meno che bravi?

L'antenato barbarus

Il libro è nato dal desiderio di rispondere a queste tre domande.

Inizialmente, sono risalito al fondo etimologico di bravo. Il termine ha il suo antecedente nel latino barbarus (a sua volta proveniente dal greco bàrbaros), che naturalmente ha dato origine, come è facile intuire, anche a barbaro: la parola indicava lo ‘straniero’ che, proprio in quanto straniero, era considerato non solo rozzo e incivile, ma anche crudele e feroce. Bravo e barbaro, dunque, sono parole sorelle: perciò non fa meraviglia che la prima, nella sua storia remota, abbia condiviso molte valenze negative della seconda.

Anticamente feroce e temerario

Nell’italiano antico, dall’inizio del Trecento fino alla fine del Quattrocento, l’aggettivo bravo significò più cose insieme: ‘feroce’, ‘crudele’, coraggioso sì, ma fino alla temerarietà. È molto difficile distinguere i significati positivi da quelli negativi. Il più importante vocabolario storico italiano dell’Ottocento, il famoso Tommaseo-Bellini, sintetizza bene (forse meglio di suoi omologhi più recenti) una tale difficoltà: secondo Niccolò Tommaseo – la voce porta la sua firma – bravo significa «Valente per forza di braccio e d’animo, e quindi per ogni specie di forza e d’ardire in buono e mal senso».

Servì quando ci fu da menar le mani

La mescolanza di significati si fa ancora più vistosa dalla fine del Quattrocento in poi. Ma nell’Italia tormentata dai conflitti che fra il 1494 e il 1559 la riducono a un campo di battaglia e a un oggetto di conquista da parte degli eserciti stranieri, non si può guardare troppo per il sottile, e le componenti negative passano in secondo piano: in battaglia, in guerra, quando c’è da menar le mani, essere bravi è una virtù necessaria, nel senso machiavelliano del termine. È in questo periodo che nascono i bravi (bravi non più aggettivi, ma nomi): sbandati delle compagnie di ventura travolte dagli eserciti stranieri che diventano sgherri al servizio dei potenti. Sono questi i bravi di cui ci parla Manzoni nei Promessi sposi.

Quello solo a parole

Naturalmente, c’è bravo e bravo: c’è il bravo vero e il bravo a credenza, cioè il bravo solo a parole.

Questo secondo tipo di bravo diventa un personaggio da commedia. Lo troviamo nella commedia rinascimentale italiana, nei canovacci della commedia dell’arte, perfino nelle commedie di Carlo Goldoni: funziona, perché si fonde e si confonde col personaggio del soldato spaccone.

Da Sparafucile alla depenalizzazione

Invece il primo bravo - il bravo vero - diventa un personaggio da tragedia, anzi: da melodramma tragico. Tale è lo Sparafucile che, nella Mantova del secondo Cinquecento in cui è ambientato il Rigoletto di Verdi, pugnala Gilda: un bravo – avverte Francesco Maria Piave in apertura di libretto – di cui il personaggio che dà il titolo al dramma dice: «Pari siamo!...io la lingua, egli ha il pugnale».

Negli stessi anni (e talvolta negli stessi testi) in cui comincia a essere adoperata anche come nome per indicare gli individui di basso livello di cui ho detto, la parola bravo viene anche depenalizzata: assume prima il nuovo significato di ‘capace’, ‘abile’ e poi il significato di buono (si pensi a brav’uomo, brava donna, brava persona) che ha mantenuto fino a oggi.

!!!!!!!!!

La carriera di bravo non finisce qui: fra Seicento e Settecento la parola diventa l’esclamazione di cui si è già detto.

Ai bravo e ai bravissimo che nel Barbiere di Siviglia Figaro rivolge a sé stesso in forma di citazione cominciarono a far eco, nei teatri di tutto il mondo, i bravo! e i bravissimo! gridati dal pubblico all’artista, agli artisti e alle artiste di turno: anche agli artisti e alle artiste, perché l’italianismo bravo! si è diffuso in più di quaranta lingue del mondo come esclamazione invariabile nel genere e nel numero; è diventato un marchio di automobili, di ciclomotori e perfino di biancheria intima femminile: in rete, il reggiseno bravissimo fa concorrenza al wonderbra; tutte e due sono parole macedonia in cui il primo e l’ultimo pezzetto è bra, che in inglese vuol dire reggiseno.

«Bene, bravi, sette più» a Cochi e Renato, dunque. E «Bene, bravo, sette più» anche a bravo, piccola parola dalla grande storia, testimone di tante qualità, buone e cattive, di noi italiani.

Immagine: Luna di miele in tre (1976), regia di Carlo Vanzina