Il primo “Festival della lingua italiana”, sotto le insegne di Treccani Cultura, è marcato da uno degli slogan più fortunati lanciati dall'Istituto della Enciclopedia Italiana: #leparolevalgono. Uno slogan che è più di uno slogan e di un hashtag generatore di trending topics, poiché da tempo si è  trasformato in un marchio di qualità, identificando, tra l'altro: campagne mediatiche di larga diffusione indirizzate alla valorizzazione della lingua italiana intesa come risorsa sociale, culturale e civile; opere lessicografiche innovative nello spirito e nei contenuti ma concepite in primo luogo come prodotti editoriali cartacei di alta tradizione, come Il Nuovo Treccani, sotto la direzione scientifica di Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, che figurano anche tra i protagonisti delle tre giornate festivaliere di Lecco; una sezione del portale Treccani.it, in cui sono indicizzate e commentate liste di parole a tema (le parole della scuola, dell'estate, ecc.).

È quasi naturale, quindi, che l'hashtag accompagni il festival e del festival le parole siano protagoniste. Ecco perché a ogni giornata è stata dedicata una parola, con «la funzione di guidare e mettere in relazione, trasversalmente, tutte le iniziative proposte», come hanno scritto gli organizzatori. In questa sede, dedicheremo qualche nota storico-semantica alle tre parole scelte.

Ambiente

La parola ambiente ci arriva per via dotta dal latino ambiēns -entis, il participio presente di ambīre, che significa ‘andare intorno, circondare’. Proprio a partire dal significato etimologico di '(qualcosa) che sta intorno, che circonda', ambiente si afferma nella lingua italiana, nel Medioevo in quella filosofica, in séguito in quella scientifica, prima di tutto come aggettivo ('circostante'), in particolare nell'espressione aria ambiente, poi anche come nome. Galileo Galilei, nei primi anni del Seicento, si riferisce al “disco” del pianeta Venere, nel corso delle sue osservazioni astronomiche: «Non crederò che eglino già stimassero il vero disco esser quello che si mostra nelle profonde tenebre, e non quello che si scorge nell'ambiente luminoso». In tempi molto più vicini a noi, questo significato ha dato vita a un'espressione che la scienza ha trasmesso alla lingua comune: temperatura ambiente, cioè quella media o abituale in un determinato luogo («il vino rosso va bevuto a temperatura ambiente»). Al significato fisico, si collega poi strettamente quello biologico, che delimita i confini dell'osservabile alla realtà viva del pianeta Terra: ambiente passa quindi a indicare anche 'l’insieme delle condizioni fisico-chimiche e biologiche (presenza di altri organismi), in cui si può svolgere la vita degli esseri viventi', caratterizzandosi come acquatico, aereo, lacustre, marino, desertico, montano, paludoso, subacqueo, terrestre. Ancora più limitato e concreto è il significato comune che si afferma verso la fine dell'Ottocento di 'camera, stanza' e che è vivo anche oggi (appartamento composto da tre ambienti oltre a cucinotto).

Ambiente è una parola che, nel corso della sua storia nei secoli, ricava i suoi significati più concreti e quotidiani dall'evoluzione delle scienze. Dopo la fisica, nell'Ottocento, si ha una svolta con la sociologia, nata, come denominazione e come scienza, nei primi decenni dell'Ottocento, in Francia (sociologie). Proprio le teorie di uno studioso francese, Hippolyte Taine, il principale rappresentante della sociologia positivista, influenzeranno il significato della parola ambiance e della corrispondente italiana ambiente, creando il significato di 'insieme di circostanze e di fattori sociali, economici, culturali e morali che intervengono nel determinare le condizioni di vita dell'individuo nella società'.

Un altro ritorno alla scienza si ha nel corso del Novecento: lo sviluppo dell'ecologia ridefinisce l'ambiente come la 'natura in quanto luogo in cui si svolge la vita dell’uomo, degli animali e delle piante, con i suoi aspetti di paesaggio, le sue risorse, i suoi delicati equilibri da rispettare'. Anche questo significato si radica nella lingua comune, la quale aggiunge l'idea dell'ambiente come patrimonio da conservare e da proteggere dalla distruzione e dall’inquinamento (la difesa, la tutela e la valorizzazione dell'ambiente).

Empatia

La parola empatia è stata formata modernamente sul modello del tedesco Einfühlung ‘immedesimazione’, recuperando il greco _empátheia ‘_passione, affezione’, formato da _én ‘_in’ e un derivato di _páthos ‘_affetto’. La parola empatia entra in italiano nella seconda metà dell’Ottocento in una serie di significati che si definiscono nel dialogo tra filosofia, estetica e, successivamente, psicologia, psicoanalisi e psicoterapia, per finire con il contributo, recente, della neurobiologia. Dunque, si tratta di un termine specialistico, settoriale, che, però, diffondendosi tramite la divulgazione e i canali della cultura di massa, nella seconda metà del Novecento acquisisce il significato più slavato e generico, buono per le conversazioni quotidiane, di ‘partecipazione emotiva’ (ho provato una grande empatia per lui).

Occorre prima delineare lo sviluppo del concetto e dunque delle accezioni specialistiche del termine, che sono legati inevitabilmente alla terminologia e alla cultura tedesche. Verso la fine del Settecento, a scrivere di Einfühlung è il poeta romantico Novalis, che con il termine intende il risultato di una sorta di profondo coinvolgimento spirituale dell’essere umano verso la natura: tale risultato è una forma di immedesimazione del primo nella seconda. Occorre quasi un secolo perché lo storico dell’arte Robert Vischer, facendo tesoro della filosofia hegeliana, elabori in modo sistematico il concetto di empatia nel campo dell’estetica. Egli la «considera come quell’atto intuitivo tramite il quale l’uomo riesce a sentire(fühlen) dentro (ein) il proprio corpo qualcosa che è esterno, e ad attribuire così agli oggetti un valore simbolico. Secondo lui l’esperienza estetica nascerebbe dalla proiezione delle proprie passioni sull’opera d’arte» (Nicola Boccianti, Empatia, in Storie di volti e di parole, di Luigi Ananìa e Nicola Boccianti, Roma, DeriveApprodi 2017).

All’inizio del Novecento, il filosofo tedesco Theodor Lipps caratterizza il termine Einfühlung come la forma di comunicazione tra soggetti differenti in cui un soggetto arriva all’immedesimazione con l’altro, senza però perdere la propria distinta identità. Filosofo e psicoterapeuta, Karl Jaspers propone l’Einfühlung come lo strumento per comprendere emotivamente il paziente, da associare comunque alla comprensione razionale, che mira a spiegare i meccanismi psichici. Il padre della psicoanalisi, Sigmund Freud, trattò con prudenza il termine Einfühlung, temendo che il terapeuta potesse perdere il controllo emotivo verso il paziente. Successivamente, molti sono stati e sono gli psicoterapeuti che hanno maneggiato con profitto l’empatia come valorizzazione della dimensione emotiva nel lavoro col paziente, integrandola con l’approccio razionale.

La neurobiologia, con la scoperta dei neuroni specchio, ha recentemente mostrato le basi neurobiologiche degli atteggiamenti empatici, fornendo un’ulteriore prova dell’esistenza di quella che, prima ancora di essere una teoria estetica, filosofica o psicologica, è un meccanismo di funzionamento che lega la “macchina”-cervello all’approccio emotivo di immedesimazione nella distinzione.

Prima di arrivare alla lingua di tutti i giorni, il significato attenuato e generico di ‘partecipazione emotiva immediata agli stati d’animo altrui’, è comparso inizialmente in vari articoli di giornale e alla tv, grandi diffusori e divulgatori di usi linguistici. La prima attestazione di empatia (nel significato che ci interessa) compare nel quotidiano «La Stampa» nel 1977. L’articolista, Giovanni Bogliolo, docente universitario, apprezzato francesista e traduttore di opere letterarie dal francese, scrive dei sentimenti per lo scrittore Gustave Flaubert nutriti da un altro grande francese venuto dopo, Jean-Paul Sartre: «una vera e propria antipatia che solo da ultimo si è trasformata in una calorosa “empatia”».

Verità

Verità deriva dal nome latino veritāte(m), che a sua volta proviene dall’aggettivo vēru(m), anche sostantivato nella forma del neutro vēru(m) ‘il vero’. In volgare toscano, la parola è attestata a partire dal XII secolo, per esempio in Brunetto Latini, nell'accezione di ‘ciò che corrisponde esattamente a una determinata realtà’.

Naturalmente verità è parola che, trapassando diversi domìni concettuali, non è facile da confinare in una sola pur ampia definizione. Con accortezza, scrive Stefano De Luca nell'Enciclopedia dei ragazzi Treccani (alla relativa voce): «qualsiasi tipo di discorso – da quello comune, che ci permette di stabilire relazioni con gli altri, a quello scientifico, che riguarda la sfera della conoscenza, sino a quello morale, politico e religioso – implica il riferimento alla nozione di verità. Persino il dubbio, così importante per la moderna cultura occidentale, è in fondo un omaggio reso alla verità. Quando dubitiamo, infatti, non ci stiamo forse chiedendo: “ma le cose stanno veramente così?”».

I filosofi hanno cercato sin dall’antichità di riflettere sul significato di verità. La ricerca di un criterio di verità è in effetti parte integrante del problema gnoseologico, riguarda cioè quale tipo di evidenza (sensibile, intellettiva, induttiva, deduttiva) possa costituire la garanzia di un’autentica conoscenza_._ A condizionare la ricerca filosofica plurisecolare sui fondamenti della verità sta ancora, nonostante i mutamenti prospettici suggeriti e, in qualche modo, imposti, soprattutto dallo sviluppo delle scienze, nei secoli più vicini a noi, sta ancora la celebre proposizione aristotelica: «dire di ciò che è che non è, o di ciò che non è che è, è falso; dire di ciò che è che è, o di ciò che non è che non è, è vero».

Nel linguaggio comune, il significato di verità riguarda la caratteristica di ciò che è vero, che si conforma ad una realtà oggettiva. Ciò detto, il fantasma della filosofia aleggia anche sulla determinazione delle proprietà ontologiche della “realtà oggettiva”. Si parla di verità dei fatti, ma sull'essenza di questa verità si era espresso già in modo radicale Nietzsche, definendola come frutto di uno sbilanciamento nei rapporti di forza tra chi ha il potere, affermandola, di imporla e chi, soccombendo, è messo nelle condizioni di subirla. Parole come verità o fatto oggi corrono di bocca in bocca e di tastiera in tastiera dai politici ai giornalisti, dai mille operatori del marketing informativo ai frequentatori e arrembatori dei social, e la sensazione è che nell'era della mediasfera dilaghino le manifestazioni dell'uso performativo di parole-slogan che funzionano come sentenze produttrici di verità: che si tratti di “bufale” o fake news non verificabili poco importa, poiché si determina un effetto di verità di tipo nicceano. In questa temperie nasce il derivato post-verità (ricalcato sull'aggettivo ingl. post truth), un costrutto ideologico che potrebbe anche definirsi come (il) postfattuale, per cui i fatti obiettivi sono meno influenti che gli appelli all’emotività e alle convinzioni personali nell’orientare l'opinione pubblica.

Annotiamo infine, che con funzione attributiva la parola verità può essere usata per riferirsi a tutto ciò che intende rappresentare la realtà così com’è, senza modificarla o alterarla con dettagli narrativi o di fantasia: un libro-verità è scritto per portare a conoscenza dell’opinione pubblica una versione ancora inedita di fatti o avvenimenti; il cinema verità riprende vicende reali, quotidiane, senza attori né scenografie. La tv-verità è un genere televisivo che si basa su persone o situazioni reali, avvenimenti di cronaca, spettacolarizzandone soprattutto gli aspetti più negativi.

Immagine: Wassily Kandinsky [Public domain]