A chi interessa l’interesse

Se c’è chi presta denaro, vuol dire che c’è chi ne ha bisogno per i propri affari: l’interesse per gli interessi sembra riguardare sia il creditore che il debitore. Dal tempo dei sumeri, si dice; ma certamente, in Italia, dalla nascita della civiltà mercantile e comunale. E allora nasce la parola

Le prime attestazioni del termine finanziario interesse risalgono al XIV secolo. Nel trattatello “Corona de’ monaci” si legge: “Io ho riavuto ’l mio capitale e sono sodisfatto dello interesso”. Le forme interesse e interesso si alternavano indifferentemente nell’italiano antico. La parola deriva dal verbo latino interesse sostantivato (la sostantivazione avvenne in epoca medievale), propriamente un composto di inter- (tra) ed esse (essere), che aveva varie accezioni, da “trovarsi in mezzo” a “differire” fino a “partecipare”. Proprio l’idea di qualche cosa (anche un’entità temporale) che si interpone tra due altre, espressa dal prefisso inter-, è presente in interesse: difatti, il primo significato della parola in italiano si riferisce all’intervallo di tempo che intercorreva tra il momento in cui avveniva il prestito e il momento in cui l’entità oggetto di prestito (denaro, comunemente) veniva restituita. Come ci informa Leonardo Rossi nella sua “Breve storia della lingua italiana per parole” (Le Monnier), tale restituzione veniva indicata con i nomi dono o merito o guiderdone o prode.

È meritevole di nota il fatto che una parola usualmente adoperata nelle sue accezioni più note derivi queste ultime da un significato originario tecnico, di ambito, appunto, finanziario. L’estensione di significato avverrà nei secoli XV e XVI: avremo così interesse nel senso di “tornaconto” (in Luigi Pulci e in Francesco Guicciardini), poi di “vantaggio, convenienza” (in Annibal Caro) - specialmente in relazione alla dimensione patrimoniale di un bene -, infine di “sentimento di viva partecipazione”, “cura, premura” (in Leonardo Salviati). Nell’Ottocento, poi, si impose anche il significato di “avidità di guadagno, desiderio di lucro”. Non deve stupire questo emergere baldanzoso di una parola del settore finanziario nel Trecento. Già dal Duecento, in realtà, era cominciato a scorrere un flusso lessicale destinato in breve tempo a fissare la prima forte compagine del vocabolario economico-finanziario nell’italiano. Il Trecento toscano, secolo d’oro della nostra letteratura nazionale, è poi il secolo del grande sviluppo della civiltà comunale, mercantile e bancaria. Si pensi al “Decamerone” del Boccaccio, poetico cantore di questa dinamica realtà: nelle sue pagine si trovano accattare “prendere denaro a prestito”, annoverare “contare”, capitale, credenza “credito”, guadagno, guadagnare, impiegare, investire, magazzino, ragione “conto”.

Come si può evincere dal primo degli esempi d’uso riportati, la pratica dell’interesse suscitava perplessità e opposizioni, dettate soprattutto dal credo religioso cattolico, che la interpretò inizialmente come una forma di usura (lo stesso succedeva con il mutuo). Fu poi la forza dell’economia, il motore dei traffici, la necessità di far circolare denaro a derubricare la pericolosità della pratica dell’interesse, anche se – com’è noto – non mancano tutt’oggi polemiche sui limiti entro i quali tale pratica andrebbe ricondotta, soprattutto con riferimento agli interessi bancari.

Il lemma

Interesse (antico e popolare toscano interesso) sostantivo maschile [dal verbo latino interesse, «essere in mezzo, partecipare», composto di inter «tra» e esse «essere»] – Il prezzo pagato, o che dev’essere pagato, dal debitore per l’uso del credito concessogli, normalmente calcolato in misura percentuale su base annua.

Dal II volume del Vocabolario della lingua italiana dell’Istituto della Enciclopedia Italiana fondato da Giovanni Treccani, Roma 1987

Esempi d’uso

Hanno battezzata l’usura in diversi nomi, come dono di tempo, merito, interesso, cambio, civanza, broccolo, ritrangola e molti altri nomi.

Franco Sacchetti, Il Trecentonovelle, 1378-1395

Nelle obbligazioni che hanno per oggetto una somma di danaro, sono dovuti dal giorno della mora gli interessi legali, anche se non erano dovuti precedentemente e anche se il creditore non prova di aver sofferto alcun danno. Se prima della mora erano dovuti interessi in misura superiore a quella legale (1284), gli interessi moratori sono dovuti nella stessa misura. Al creditore che dimostra (2697) di aver subito un danno maggiore spetta l'ulteriore risarcimento. Questo non è dovuto se è stata convenuta la misura degli interessi moratori.

Codice civile, art. 1224, anno 1942

Se prendete un mutuo casa a tasso fisso del 7% della durata di 30 anni rimborsabile con rate mensili da pagarsi alla fine del mese, il tasso di interesse reale non è del 7% bensì del 7,23%. Il tasso del 7% è un tasso “nominale” annuo. Poiché il mutuo lo rimborsate pagando una rata ogni mese, il tasso d’interesse “reale” sarà più alto. Il tasso nominale sarà uguale a quello reale solo nel caso di prestiti che si rimborsano con un solo pagamento all’anno, alla fine dell’anno. In tutti gli altri casi il tasso reale sarà più alto di quello nominale quotatovi.

www.inetitalia.com/html/tasso-interesse-effettivo.html

La Cassazione a sezioni riunite ha messo la parola fine a una battaglia ormai storica sul calcolo degli interessi facendo pendere la bilancia dalla parte degli utenti. Per decenni le aziende di credito hanno usato due pesi e due misure per determinarli. Se il correntista andava in rosso sul conto corrente o chiedeva un prestito, il calcolo era trimestrale. Sui soldi depositati sul conto il calcolo era invece annuale. Il risultato è che il correntista pagava gli interessi sugli interessi e li pagava ogni tre mesi. Al contrario delle banche che li calcolavano solo una volta all'anno.

Barbara Ardù, www.repubblica.it, 8 novembre 2004

Il 10% più ricco delle famiglie possiede il 40% di tutte le attività finanziarie; il 10% più povero l’1,2%. Quando lo Stato tassa i cittadini più poveri per pagare gli interessi sul debito pubblico preleva il 23% (l’aliquota minima sui redditi da lavoro) e lo trasferisce per lo più ai ricchi, i quali, sugli interessi che percepiscono, pagano solo il 12,5%.

Francesco Gavazzi, www.corriere.it, 27 marzo 2006

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