Burqini©™ (anche nella grafia anglicizzata burkini) sostantivo inglese [parola macedonia formata dall’incontro tra burqa ‘tradizionale velo musulmano’ e bikini ‘costume da bagno da donna’], maschile in italiano. – Costume da bagno pensato e realizzato per le donne musulmane, in grado di coprire tutto il corpo, lasciando liberi il volto, le mani e i piedi.

Ci ha pensato Gianluca Buonanno, sindaco leghista di Varallo Sesia, amena cittadina pedemontana in provincia di Vercelli, a riscaldare vieppiù la bollente estate 2009, mettendo sugli scudi la parola burqini (o burkini) e l’indumento femminile contrassegnato dalla parola. Il costume da bagno ha subito il divieto di comparire nelle piscine o lungo i corsi d’acqua fluviali di Varallo e dintorni, in quanto – parole del sindaco – «la vista di una “donna mascherata” potrebbe creare turbamento, soprattutto tra i più piccoli, senza parlare poi di eventuali problemi igienici». Del burqini si era già letto l’anno scorso sui giornali, ma il costume non si era visto (o non si era notato) sulle spiagge o nelle piscine d’Italia. La notizia che un prodotto chiamato burqini esistesse ci è arrivata, in realtà, con un paio d’anni di ritardo, perché l’intelligente stilista australiana di origine libanese Ahiida Zanetti, quarantenne, ideatrice e creatrice dell’indumento in poliestere e del nome appropriato, già dal 2006, nella sua terra d’accoglienza, l’Australia (dove approdò da emigrata, bimba di due anni), aveva pensato bene di mettere il copyright sul suo innovativo costume da bagno pensato per le esigenze delle donne musulmane e aveva già creato la sua piccola compagnia, ora di gran successo, Ahiida - Burqini©™ Swimsuits (www.ahiida.com).

Paese d’origine e paese d’accoglienza

Si ha dunque una conferma di come le trovate geniali sono il solito uovo di Colombo; ma, insomma, bisogna avere fantasia, intuito commerciale, spirito d’iniziativa, coraggio e dinamismo – come donna, musulmana, emigrata – per cercare di introdurre un’idea tanto brillante quanto rischiosa. La scommessa si sta rivelando, a quanto pare, vincente su scala planetaria, soprattutto tra le giovani donne musulmane che appartengono a comunità esterne alle patrie d’origine, dislocate, cioè, in paesi d’emigrazione. Proprio tra le seconde e terze generazioni di queste comunità si crea in genere l’humus adatto al tentativo di integrare, recuperandola, le tradizioni del paese d’origine con le usanze del paese d’accoglienza. Nel caso del burqini, si tratterebbe di fare sport o fare il bagno al mare come qualunque ragazza o donna non musulmana senza tradire la propria identità culturale e religiosa tradizionale. In termini pragmatici, Ahiida ha così sintetizzato il suo lavoro sul «Middle East Online»: «Abbiamo studiato un sistema per riempire una nicchia di mercato ancora scoperta. Il nuovo costume è molto leggero e aderente e permetterà alle ragazze musulmane di fare sport in spiaggia giocando ad esempio a beach volley o di nuotare in libertà».

Ahiida è stata anche efficace e spregiudicata, ma probabilmente non immaginava che non una qualche barbuta guardia della rivoluzione iraniana o qualche talebano d’Afghanistan, ma un europeo in giacca e cravatta (verde) ponesse per legge il veto all’indumento da lei realizzato e commercializzato.

Tra il velo e il costume mini

Burqini è una parola macedonia, una parola, cioè, ottenuta dal tamponamento tra due parole distinte, delle quali la prima (burqa) nell’incontro (o scontro) perde la parte finale (a), la seconda (bikini) perde la parte iniziale (bik). Insomma, matrimonio inaspettato tra due parole che designano una il massimo del tradizionalismo sessuofobico, secondo i criteri del mondo occidentale non musulmano, l’altra, in origine, uno dei primi esempi di disinibizione femminile nella moda del secondo dopoguerra. Ed ecco brevemente la storia delle due parole.

Burqa è, come detto, il nome del tradizionale indumento femminile musulmano, adoperato specialmente in Afghanistan: è costituito da un velo che ricopre tutto il corpo, lasciando uno spazio di tessuto traforato in corrispondenza degli occhi (www.olir.it/areetematiche/). La parola è di origine araba (burqu), ma ci arriva dal tramite persiano e urdu (burka'): dal 1975 ne abbiamo le prime attestazioni nell’italiano scritto, con oscillazioni tra burqa (ritenuta dai nostri dizionari la forma principale) e burka, variante comunque legittima.

Il vocabolo bikini riprende di peso il nome di un atollo delle isole Marshall, che costituiscono un arcipelago appartenente alla Micronesia, nell’Oceano Pacifico. Proprio l’atollo di Bikini e il vicino atollo di Eniwetok furono sede, a partire dal 1946, di esperimenti nucleari statunitensi. La “bomba atomica” a Bikini, in epoca di incipiente Guerra Fredda, suscitò molta impressione. Il passaggio dal nome dell’atollo al nome del costume è comprensibile, se si pensa allo scalpore che destò la creazione di un costume ritenuto tanto audace da essere inizialmente definito atomico. La lingua italiana adottò la voce per tramite e influsso dell’inglese, che dal ’47 ebbe bikini nella doppia accezione di ‘esplosione atomica’ e di ‘costume esplosivo’, e del francese, che conobbe già dal ’46 bikini ‘costume’ come marchio depositato, creazione del sarto Louis Réard (www.corriere.it/speciali/costume/bikini.shtml).

Immagine: Burqini. Fonte: https://www.flickr.com/photos/39442289@N00/3711962801/. Crediti: Tbom824 [CC by 2.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/2.0/deed.it)], attraverso Wikimedia Commons.