«In casa mia mi sa meglio una rapa / ch'io cuoca, e cotta s'un stecco me inforco, / e mondo, e spargo poi di acetto e sapa, / che all'altrui mensa tordo, starna o porco / selvaggio»: in questi famosissimi versi della Satira III, Ludovico Ariosto rivendica con forza la propria autonomia e indipendenza e nel contempo ci offre una sintetica, ma efficace, raffigurazione di alcuni elementi propri della cucina cinquecentesca.
In particolare, il sostantivo femminile sapa , che è la continuazione del latino sapa, a sua volta da connettersi, probabilmente, con sapĕre «aver sapore» e sapĭdus «saporito», indica un particolare tipo di mosto, cotto e concentrato per ebollizione, già in uso presso gli antichi Romani come condimento e ancora oggi presente in alcune cucine regionali. In verità, presso gli antichi Romani venivano prodotti e variamente consumati diversi tipi di mosti cotti, fra quelli più frequentemente menzionati nelle fonti scritte si devono ricordare il caroenum, il defrutum e la sapa. Tutti e tre questi mosti venivano concentrati tramite ebollizione e si differenziavano a seconda della percentuale di acqua residua, secondo quanto descritto, per la sapa e il defrutum, in un frammento di Varrone riportato dal Thesaurus linguae latinae : «sapam appellabant quod de musto ad mediam partem decoxerant; defrutum, si ex duabus partibus ad tertiam redegerant defervefaciendo». Il processo di concentrazione per ebollizione viene inoltre chiamato in causa dai grammatici ed etimologisti antichi per cercare di rendere conto in qualche modo del significato di queste parole; in particolare, per il caroenum l'opinione è di Isidoro di Siviglia («caroenum eo quod fervendo parte careat; tertia enim parte musti amissa quod remanserit caroenum est»), mentre per il defrutum è di Vittorino grammatico («in defruto apicem secundae syllabae imponere debetis, nam defervendo et decoquendo fit tale <vel> quod defrudetur, id est fraudetur coctura et minuatur»).
Tutt'altro genere di condimento è, invece, il garo, una «salsa di pesce in uso nell'antichità, generalmente fatta con interiora di sgombro e altri pesci marinati». Anche in questo caso il sostantivo italiano deriva da una forma latina: è il garum di cui Plinio parla in questi termini nella Naturalis Historia : «liquoris exquisiti genus, quod garum vocavere, intestinis piscium [...] sale maceratis, ut sit illa putrescentium sanies»; a sua volta il latino deriva dal greco garon, garoV, usato nel medesimo significato e di etimologia non chiara, come dichiara Pierre Chantraine nel Dictionnaire étymologique de la langue grecque («pas d'étymolgie, emprunt possible»). Se dubbia è l'origine della parola è, invece, certo che il garum - anche mescolato ad altri ingredienti, come nel caso dell' oenogarum (garum e vino), dell' axygarum (garum e aceto), dell' oleogarum (garum e olio) e dell' hydrogarum (garum e acqua) - fosse particolarmente apprezzato dagli antichi e, di norma, preferito agli altri condimenti a base di pesce, alcuni dei quali vengono menzionati da Tommaseo nella voce alece del Dizionario della lingua italiana : «ALECE.[Cam.] Lat. Alex e Halec. Plin. 31. 8. 44. Aver. Lez. 31. [...] 62. Le salse però ordinarie e comunali erano di tre sorte, il garo, la muria e l'alece; tutte fatte di pesci macerati nel sale, e disfatti e stemperati e spremuti, e però gli scrittori sovente le dicono faecem et salem».
Immagine: Ritratto di Ludovico Ariosto, Tiziano, National Gallery, Londra. Crediti: [Public Domain], attraverso Wikimedia Commons.
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