Malattia come metafora

«Da giorni - ha scritto Daniele Cassandro su «Internazionale» di domenica 22 marzo – basta aprire un giornale, scorrere le notizie sul telefono, guardare un notiziario in tv per sentirci dire che siamo in guerra. L’emergenza Covid-19 è quasi ovunque trattata con un linguaggio bellico: si parla di trincea negli ospedali, di fronte del virus, di economia di guerra». Nel suo articolo Siamo in guerra! Il Coronavirus e le sue metafore, Cassandro ha efficacemente dato forma a pensieri e sensazioni che in tanti abbiamo avuto, nei giorni scorsi: su cui in tanti ci siamo interrogati. Citando Malattia come metafora (1978) e L’aids e le sue metafore (1989), di Susan Sontag, ci ha inoltre ricordato quanto sia facile cadere nel tranello di presentare e rappresentare un’emergenza sanitaria come una guerra «anziché come un complesso problema sociale, culturale o di emarginazione di determinate categorie di persone». Trattare una malattia come una guerra – continua Cassandro sempre citando Sontag - «ci rende ubbidienti, docili e, in prospettiva, vittime designate. I malati diventano le inevitabili perdite civili di un conflitto e vengono disumanizzate appena... perdono il loro diritto di cittadinanza da sani per prendere il loro oneroso passaporto da malati”. I malati così, oltre che essere vittime della malattia, sono anche vittime delle metafore della malattia: «ammalarsi vuol dire essere invasi dal nemico e morire è una sconfitta». Né sono migliori le metafore della lotta, della resistenza: la metafora del «guerriero che sconfigge il male» non solo falsa il peso (anche psicologico) della malattia, caricando il malato di responsabilità, aspettative, sensi di colpa individuali, ma anche il rapporto tra individuo e società. Come infatti hanno fatto notare «Amazzoni Furiose» sul loro blog il 13 agosto 2019, all’indomani della scomparsa di Nadia Toffa, «la rappresentazione del cancro e, più in generale, della malattia come battaglia personale domina... offrendo la possibilità di oscurare il fatto che la nostra salute e il diritto a preservarla ben oltre i quarant’anni anni - l'età che aveva Nadia Toffa - siano questioni collettive». E parlare di cancro così, concludevano le «Amazzoni Furiose» chiedendo non semplificazioni del racconto ma un dibattito serio sui fattori socio-economici e ambientali legati alla salute «non è solo inutile. È dannoso».

À la guerre comme à la guerre

Torniamo al COVID-19. Non sono mancate nei giorni scorsi riflessioni articolate (e per forza di cose parziali, vista la novità della situazione) sulle cause della pandemia, sugli effetti su individui e società, sulle similitudini e e differenze (comportamentali, culturali, sociali, economiche) fra i paesi e fra le persone toccate dal virus. Tuttavia, la sensazione è che certe metafore concettuali – che attivano i frame, o «cornici mentali», le quali «determinano la nostra visione del mondo» (George Lakoff, Non pensare all’elefante. Come riprendersi il discorso politico, Milano: Chiarelettere, 2019, p. 6) – siano più frequenti di altre, non solo in Italia. Tra queste, la metafora della guerra è dominante: come lo è stata spesso in situazioni emergenziali, di crisi, di problematica gestione del consenso (sulla «guerra al terrore», ad esempio, si vedano l’ottimo lavoro di Vladimiro Giacché, La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea, Milano: DeriveApprodi, 2008, e Richard Jackson, Writing the war on terrorism. Language, policy and counter-terrorism, Manchester: Manchester University Press, 2005). Può valere la pena, allora, osservarla più in filigrana questa metafora: considerandone anche il campo semantico.

La guerra innanzitutto si «dichiara» («La Toscana dichiara guerra totale al nuovo coronavirus e si muove in tutte le direzioni: cura e prevenzione», www.lanazione.it, 18 marzo), si «combatte» («Il governo lancia un appello al mondo dell'industria e della ricerca per moltiplicare le armi per combattere contro il Coronavirus», www.ansa.it, 20 marzo), si cercano e si usano «armi» efficaci («Restare a casa è l’unica arma per combattere il Coronavirus: lo dimostra la ‘pericolosità’ degli asintomatici», www.leccenews24.it, 15 marzo) da affidare a soldati o «guerrieri» («Chiamata alle armi per i guerrieri: il vaccino siamo noi. Dieci mosse per combattere... Scendono sul campo di battaglia anche i guerrieri contro il Coronavirus. I cittadini. Perché il vaccino siamo noi. Lo ricorda un suggestivo spot realizzato dalla Regione Marche... Lo fa investendo tutti i marchigiani, e non solo, della responsabilità di combattere. "L'unica strategia per vincere... è attuare tutti insieme le mosse del guerriero. Se siamo bravi guerrieri... combattiamo tutti insieme perché il vaccino siamo noi”», «Corriere dell’Umbria», 21 marzo), i quali hanno la «responsabilità» di combattere, appunto.

I soldati hanno dietro di sé tutto un paese, un sistema economico, un’«economia di guerra» («Serve un’ “economia di guerra” per far fronte all'emergenza coronavirus», così il commissario Domenico Arcuri su www.rainews.it del 18 marzo, a cui fa eco Carlo Bonomi, Presidente dell’Assolombarda: «Quando usciremo da questo incubo ci troveremo in una situazione da economia di guerra», «La Repubblica», 21 marzo): una metafora iperbolica (secondo il Dizionario di economia e finanza di Vera Zamagni, l’economia di guerra è «l’adeguamento del sistema economico alle necessità della guerra», ovvero «[il] rendere disponibili risorse per gli armamenti, il mantenimento e la mobilitazione degli eserciti e, dall’altro, organizzare la produzione a sostegno della guerra») ma certamente funzionale a una certa circolarità del ragionamento, per cui se c’è un’economia di guerra, allora ci sono anche eserciti, armi, e la guerra stessa.

La battaglia tuttavia si svolge soprattutto al «fronte», termine molto produttivo in fatto di locuzioni e polirematiche: «sul fronte del Coronavirus» («Maggior incremento di morti dall'inizio dell'emergenza sul fronte del coronavirus», www.ansa.it, 20 marzo 2020; «L'Italia si risveglia in coda dopo il giorno dei record negativi sul fronte del coronavirus», www.repubblica.it, 21 marzo 2020; «Anche la giornata di sabato è stata davvero pesante sul fronte del coronavirus in Toscana», www.lanazione.it, 22 marzo 2020), e poi «andare al fronte» («É un atto di amore e orgoglio. Siamo stati travolti. C'è gente che viene da tutta Italia e di tutte le età, che hanno deciso di andare al fronte...», così il Ministro per gli affari regionali Alfredo Boccia, a proposito dei medici, www.repubblica.it, 21 marzo 2020), «linea del fronte» («Emergenza coronavirus, il reparto di medicina di Verbania prima linea del fronte: “Qui sembra di essere in guerra”», «La Stampa», 18 marzo 2020), «al fronte di» («Coronavirus, al fronte di Rogoredo: diario di un medico di base che visita dietro un vetro», «L’Espresso», 20 marzo 2020), «far fronte», «fronteggiare», «fronte sanitario» («è il fronte sanitario quello più esposto al virus», «Il messaggero», 20 marzo 2020), e «nuovo fronte» («Coronavirus, il nuovo fronte è il Centro-Sud», www.ilmessaggero.it, 14 marzo 2020).

Al fronte, inoltre, si sta «in trincea» («Lo specializzando. "In trincea contro il virus per aiutare la mia città"», www.repubblica.it, 23 marzo; «Enrico Mentana in trincea contro il coronavirus», www.liberoquotidiano.it, 22 marzo; «Cesena, giovani medici in trincea: “Non abbiamo paura”», www.ilrestodelcarlino.it, 23 marzo; «Coronavirus, Zaia: "Sembra guerra mondiale, aprile in trincea"», www.adnkronos.com, 22 marzo). Una trincea dove si affrontano quotidiane «battaglie» («Coronavirus, la quotidiana battaglia da trincea dei medici», www.ilmessaggero.it, 23 marzo). Una trincea grande come una città («Coronavirus, la città in trincea», www.romagnanoi.it, 22 marzo), come un intero paese («Coronavirus, Maurizio Molinari: "Italia trincea più drammatica», www.la7.it, 23 marzo). Una trincea dove si è schierati contro un «nemico». Un nemico che però non si riesce a vedere: un nemico che è soprattutto «invisibile» («Coronavirus, la dottoressa in lacrime a fine turno: "In trincea contro un nemico invisibile"», titola il 21 marzo «Il mattino di Padova»).

Il nemico invisibile

«Nemico invisibile» è espressione diffusa nel linguaggio dell’informazione e della politica: non solo in Italia, non solo in italiano. L’ha usata in un tweet Giuseppe Conte, il 17 marzo, in occasione del 159° anniversario dell’Unità d’Italia, evocando unità («Mai come adesso l'Italia ha bisogno di essere unita. Sventoliamo orgogliosi il nostro Tricolore. Intoniamo fieri il nostro Inno nazionale. Uniti, responsabili, coraggiosi. Tutti insieme per sconfiggere il nemico invisibile»). L’ha usata il settimanale tedesco «Bild» nel numero di sabato 21 marzo («Coronavirus: So hart trifft der unsichtbare Feind die Bundespolizei», ovvero «Il nemico invisibile colpisce così duramente la polizia federale»). All’«enemigo invisible», per fare un altro esempio, è dedicato un editoriale di Ferran Garrido sul quotidiano spagnolo «ABC», sempre del 21 marzo («Coronavirus: el enemigo invisible»). Un editoriale in cui la metafora della guerra si dispiega in tutto la sua efficacia:

No es la primera vez que el mundo está en guerra. La palabra es fuerte, pero vamos a afrontar la situación a palo seco, sin dramas, pero con la necesaria seriedad que requieren los tiempos excepcionales... No es la primera vez que España vive un estado de conflicto, pero esta vez es diferente, nada de unos contra otros, todos contra un enemigo invisible. No es la primera vez que vivo en una situación bélica, pero ahora siento una diferencia... No paro de pensar que en esta guerra que vivimos ya muy de cerca, las víctimas tienen nombre y apellidos. Todos empezamos a conocer a personas infectadas, que luchan por restablecerse y recuperar su salud... Por eso, por su memoria, me he decidido a ponerme a escribir esta semana mi artículo... en su nombre, en esta batalla que hemos de librar y que vamos a ganar, si luchamos juntos y unidos... Ahora es el tiempo del combate común frente al enemigo invisible. Ya llegará la hora de pedir explicaciones.

Non è rara né nuova l’espressione «nemico invisibile» per parlare di un virus, di una epidemia. Non stupisce quindi imbattersi in essa. Andando a ritroso, «nemico invisibile» si intitolava un libro fortunato, The Invisible Enemy: A Natural History of Viruses (2002), che la docente di Microbiologia dell’Università di Edimburgo Dorothy Crawford dedicò alla storia dei virus nelle culture occidentali. O un saggio dello storico Carlo M. Cipolla (Contro un nemico invisibile: epidemie e strutture sanitarie, 1986). O ancora prima – per cambiar genere – un ciclo della celebre serie britannica Doctor Who, andato in onda nell’ottobre del 1977 in quattro puntate: protagonista un virus intelligente che cerca di diffondersi nell’universo per conquistarlo. In italiano, occorrenze dell’espressione – in riferimento a virus e malattie – risalgono almeno alla seconda metà dell’Ottocento (di «avamposti contro un nemico invisibile» si legge in un numero de «L'Illustrazione italiana» - vol. 10, parte 2 - del 1883; e «resistenza del virus morvoso all'azione distruttiva degli agenti atmosferici e del calore» si trova in un numero del giornale «Riforma medica» del 1886). Si tratta perciò di una metafora ben acclimatata, non solo nel linguaggio medico, in italiano come – probabilmente – in altre lingue.

Ma nel suo articolo Silence, Death and the Invisible Enemy: AIDS Activism and Social Movement 'Newness'” (1988), il sociologo statunitense Josh Gamson ci fa intuire quanto si tratti, anche, di una metafora molto duttile, e molto insidiosa. Intrecciando il discorso medico con quello delle scienze sociali e delle contro-narrative prodotte dagli attivisti di ACT UP – AIDS Coalition to Unleash Power, impegnati negli anni Ottanta e Novanta a fianco dei malati di AIDS-HIV, Gameson infatti si chiede se questo «invisible enemy» non possa essere un’espressione polisemica a seconda di chi la utilizzi, e di come la si utilizzi:

Who is the enemy? Asking this question of ACT UP, one often finds that the enemies against which their anger and action are directed are clear, familiar, and visible: the state and corporations. At other times, though, the enemy is invisible, abstract, disembodied, ubiquitous: it is the very process of normalization through labelling in which everyone except one’s own community of the de-normalised (and its supporters) is involved. At still other times, other enemies appear the visible institutors of the less visible process: the media and medical science.

Chi è il nemico, quando gli elementi ideologici del discorso sono sottesi, ambigui, non chiaramente espressi? Quando anzi si è in presenza di discorsi diversi, anche divergenti? Soltanto il virus? O non è forse, questo «nemico invisibile», una utile espressione per occultare l’oggetto della propria «guerra», delle proprie strategie? Perfino un’opportunità retorica, come ha suggerito Francisco Oliveira sul quotidiano argentino «La Nación» il 21 marzo?

El virus al que definió como "enemigo invisible" le ha devuelto al menos a Alberto Fernández [presidente artentino dal dicembre 2019] algunas oportunidades políticas en medio del drama sanitario. Entre ellas, la de concretar aquello que prometió la noche en que se impuso en las primarias y que en sus primeros meses de gobierno ya se insinuaba incumplible: el fin de la fractura entre los argentinos.

Il nemico invisibile («the invisible enemy») non è forse quello che permette a Donald Trump – autoproclamatosi non a caso «war-time president» – di invocare, come ha fatto nei giorni scorsi, leggi straordinarie per combattere nemici ben visibili (i migranti al confine col Messico), e per assumere poteri speciali grazie al «Defense Production Act», un provvediento di emergenza che risale alla guerra di Corea degli anni Cinquanta e che garantirebbe al presidente ampia autorità «[to] expedite and expand the supply of resources from the U.S. industrial base to support military, energy, space, and homeland security programs»?

Qual è il (vero) nemico?

O non è, questo nemico invisibile, quello intorno al quale – secondo il quotidiano «Le Monde» - il presidente francese Emmanuel Macron sta riarticolando la sua retorica politica per recuperare il terreno perso con i passi falsi dei mesi scorsi? «Siamo in guerra», ha detto senza mezzi termini Macron il 16 marzo – contro un nemico invisibile («un ennemi invisible»). E il senso del suo proclama prova a spiegarlo il giornale parigino, calcando sulla metafora: «Du côté des troupes, le moral n’est pas très bon», si legge sul quotidiano, i francesi hanno paura. «Du côté du général en chef, le bulletin est un peu meilleur»: poco amato in tempo di pace, Emmanuel Macron ha recuperato una sufficiente credibilità (aura) per essere ascoltato e ha assunto «l’abito del presidente protettore». Certo, gli altri attori esistono sempre: il primo ministro, il parlamento, i partiti, i giudici, «indéfectibles garants d’un ordre démocratique largement perturbé par l’état d’urgence sanitaire». Ma è la parola presidenziale quella che conta. Perché, come disse il generale de Gaulle il 6 gennaio 1961 annunciando il referendum per l’autodeterminazione dell’Algeria, «L’affaire est entre chacune de vous, chacun de vous, et moi-même». Inoltre, prosegue «Le Monde­», per indossare l’abito del «presidente protettore», dopo mesi di tensioni sociali causate dalla riforma delle pensioni, Macron deve aggirare tre ostacoli: lo screditamento della «parola politica», basandosi sull’esperienza dei medici e degli scienziati; gli attacchi degli avversari politici, che lo descrivono come «un libéral minoritaire aux pulsions autoritaires», e la bassa popolarità popolare. E «la guerre, dans ces conditions, est encore loin d’être gagnée».

Chi è il «nemico», allora?

Il virus, certo. Ma la retorica costruita attorno ad esso, proprio perché «invisibile», fluido, intangibile, astratto, lascia spazio alla formulazione di altri nemici, impliciti, evocati, variabili: addirittura le istituzioni repubblicane, come si evince dal pericolosamente ambiguo post che il Comandante Alfa ha postato sulla sua pagina il 21 marzo. «Caccia al nemico», d’altronde, è altra espressione che non di rado abbiamo letto o sentito nei giorni scorsi (a questo proposito, si legga il bell’articolo di Giuseppe Lavenia Coronavirus, torniamo a essere umani e a parlare con i nostri figli, ne «La Repubblica» del 2 marzo: «La caccia al nemico. I supermercati presi d’assalto. Sguardo circospetto rivolto a un passante che accenna un colpo di tosse, perché potrebbe essere un potenziale untore. Insulti volati nell’aria, con parole feroci, d’odio, più insidiose di qualunque virus, perché qualcuno ha osato avvicinarsi troppo a qualcun altro... Cinesi picchiati, l’ultimo in un bar del Veneto, perché “infetti”. Fake news sul coronavirus buttate nel web... a bizzeffe, parole uscite dalla bocca e dai tasti anche di chi di virus, di medicina e di scienza non ne sa un emerito nulla»), e i «nemici» a cui fare la guerra, allora, si sono moltiplicati: i «cinesi», gli untori di vario tipo e ultimi, in ordine di tempo, i «runner» («Coronavirus: le regioni dichiarano guerra ai runner, in Veneto già volano i droni», www.primalecco.it, 20 marzo; «In pratica, guerra ai runner», www.lastampa.it,19 marzo; «Coronavi_rus_, il governo dichiara guerra ai furbetti del running», www.isnews.it, 20 marzo), definiti da qualcuno, non a torto, «il nemico sbagliato» («Mentre facciamo la guerra ai runner, intanto, decine di migliaia di italiani vanno tutti i giorni al lavoro, prendono i mezzi pubblici e operano in zone ad altissimo rischio. Ecco, sarebbe il caso di smetterla con le scemenze», www.fanpage.it, 20 marzo).

Forse il problema – come ha scritto ai suoi studenti in una accorata lettera aperta Domenico Squillace, preside del liceo Volta di Milano – è che «quando ci si sente minacciati da un nemico invisibile è quello di vederlo ovunque, il pericolo è quello di guardare ad ogni nostro simile come ad una minaccia, come ad un potenziale aggressore».

Ma era fine febbraio, un secolo fa. E la retorica guerresca non aveva ancora invaso – mi si perdoni la metafora – il nostro linguaggio...

La cura delle parole

Immagine: L'uomo senza ombra (2000), regia di P. Verhoeven