Ancora sul tradurre

A volte serve. A volte serve, intendo, lanciare un sasso nello stagno. Le acque, prima ferme, si muovono, i cerchi concentrici si allargano, il movimento genera altro movimento. Un piccolo sasso nello stagno è stato il testo della scorsa settimana, Tradurre per la vita: le sue domande sul senso e sul bisogno di tradurre informazioni vitali sul Covid-19 per le persone non italofone. Anche grazie a quel testo, infatti, qualche informazione è circolata: qualche iniziativa si è fatta conoscere, anche al di fuori del suo territorio. Ad esempio, l’iniziativa di «Vite in Movimento», una «campagna social multilingue rivolta a tutti i migranti in cerca di risposte e che devono affrontare piccoli e grandi problemi a Palermo nei giorni dell’emergenza [...]: aiuto alimentare, dove dormire, numeri utili, diritti e doveri». Realizzata dai giovani migranti del laboratorio di Comunicazione del Progetto Fondo Asilo Migrazione e Integrazione (FAMI) – di cui la Scuola di Italiano per Stranieri (ItaStra) di Palermo è capofila – «ViM» ha prodotto in pochi giorni molti video e materiali, registrati e redatti dagli stessi migranti nelle loro lingue materne, non solo per rendere accessibili le comunicazioni ufficiali sulla malattia o per spiegare in arabo, francese, mandinka, cinese ecc. il perché e il percome dei moduli di autocertificazione, ma anche – ed è questo forse l’aspetto più innovativo – per contrastare le troppe fake news o i tanti falsi miti che girano in rete (come quello sui «neri» che non si ammalano di Covid-19: ne ha scritto in maniera efficace Oiza Q. Obasuyi su «The Vision»), nonché per raccogliere «dal basso», e quindi diffondere, informazioni utili (e molto pratiche) sui servizi disponibili, su dove recarsi in caso di bisogno, su dove poter mangiare, su quali associazioni poter contare, ecc. Un punto di raccordo tra bisogni, competenze, esperienze, quello di «ViM». E uno spazio – non solo linguistico – da costruire e condividere, per produrre informazione, tradurla, farla circolare.

Spazi linguistici

A proposito di spazi linguistici. Molti stanno già riflettendo, e molto ci sarà da riflettere, su come il Covid-19 ha modificato il paesaggio sociolinguistico che quotidianamente scorgiamo (penso alle «scritture esposte» in contesti urbani, che percepiamo decisamente meno: ma il tema è complesso, come spiega sinteticamente Jan Blommaert in Ethnography, Superdiversity and Linguistic Landscapes, 2013), gli spazi comunicativi in cui viviamo, le modalità di interazione – ora soprattutto mediate – che esperiamo. Non solo, quindi, il nostro «lessico familiare», cui Paolo di Paolo ha dedicato un intenso delicato articolo (Coronavirus: il lessico familiare della quarantena, «La Repubblica», 6 aprile 2020), ma anche il modo in cui produciamo e consumiamo i segni linguistici nello spazio e sul territorio, le nostre abitudini a livello pragmatico, i limiti e le potenzialità dei codici verbali di cui disponiamo. Penso ai «luoghi» dell’insegnamento e dell’apprendimento. A quelli della partecipazione pubblica e politica. Ai «luoghi» di lavoro in genere. E penso – ovviamente – ad ospedali e strutture sanitarie: uno degli spazi linguistici più determinanti, e allo stesso tempo più complessi, di questo nostro tempo. Dopo aver letto il dirompente articolo di Annalisa Camilli Il dolore invisibile dei medici in corsia contro il coronavirus («Internazionale», 1 aprile 2020), come tanti mi sono chiesto quali problemi, e quali variabili linguistiche presentasse lo spazio della struttura sanitaria, dell’ospedale, in questo periodo.

Lingua e medicina

Da utente – prima ancora che da linguista – intuisco come tutti che i problemi linguistici (e in generale di comunicazione) nelle strutture sanitarie non sono affatto secondari. Non lo sono in situazioni «normali»: figurarsi in circostanze eccezionali come quelle che stiamo vivendo.

Da linguista cerco di suffragare questa intuizione grazie ai sempre più robusti studi di «linguistica medica», dei quali in Italia è stata pioniera Raffaella Scarpa, Presidente del Gruppo di Ricerca «Remedia – lingua medicina malattia» e docente di linguistica nel Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Torino, dove tra le altre cose coordina il Corso magistrale di Linguistica medica e clinica.

Di che cosa si occupa la linguistica medica? Innanzitutto di storia della lingua della medicina: di come è cambiato il linguaggio medico-specialistico nel tempo, dai secenteschi Consulti medici di Francesco Redi alla microchirurgia degli ultimi decenni, per fare due esempi (e si veda Capitoli di storia linguistica della medicina, a cura di Rosa Piro e Raffaella Scarpa, 2019). Si occupa inoltre dell’analisi e della classificazione dei disturbi del linguaggio (come le afasie). Ma si occupa soprattutto di analizzare – con un focus sulla lingua parlata – modi e forme della comunicazione tra operatore/operatrice sanitario/a e paziente (e, più in generale, tra istituzioni, associazioni di malati, media, ecc.), tentando di sistematizzare alcuni aspetti relativi al «parlar chiaro» (Franca Orletti e Rossella Iovino, Il parlar chiaro nella comunicazione medica. Tra etica e linguistica, 2019) e alla «comunicazione medico-paziente», la quale raccoglie complessi sistemi di interazione e casistiche estremamente eterogenee.

La comunicazione medico-paziente

Come spiega Scarpa, la relazione clinica tra medico e paziente è fondata sul linguaggio sin dai tempi di Ippocrate, e dell’invezione dell’anàmnesi (dal gr. ἀνάμνησις, der. di ἀναμιμνήσκω «ricordare»). Sul linguaggio si basa, a partire dal XVII secolo, la medicina d’osservazione e l’anatomia patologica, secondo cui il corpo del malato deve essere considerato come un oggetto che può essere curato a patto che lo si osservi e lo si descriva analiticamente. Col linguaggio la medicina moderna cerca di attenuare proprio questa spersonalizzazione, per ristabilire un rapporto umano tra curante e paziente basato sulla fiducia.

Ancora: nel linguaggio, attraverso una «metodologia di studio dialogico delle forme narrative, dei racconti prodotti dai sofferenti», si può – per la «Scuola di Harvard» (fondata da Arthur Kleinman negli anni Settanta), e per l’antropologia medica in generale (si sfogli di Giovanni Pizza il ricchissimo Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo, 201915) – ricucire lo strappo tra analisi oggettiva della malattia (disease) ed esperienza soggettiva (illness). Il linguaggio è lo strumento primario con cui realizzare un processo di «umanizzazione della cura»: non soltanto attraverso le parole (lessico, espressioni formulari fisse, astratte o astrattizzanti, morfologia, sintassi, testualità), ma anche attraverso elementi paralinguistici (timbro, ritmo, intonazione) e non verbali (gesti, sguardi).

Ma è anche, il linguaggio, luogo di scissione per il medico, che deve muoversi tra nomenclature e registri specialistici e settoriali e la necessità di costruire una comunicazione personale col paziente. È terreno di asimmetrie e dislivelli tra l’esperto e il non esperto (con conseguente senso di alterità e/o subalternità del secondo), origine di discrasie prodotte dall’incontro necessario tra due soggettività non necessariamente compatibili, mancanza di tempo e difficoltà di ascolto. È, il linguaggio, spia di menzogna, attenuazione, disorientamento (da parte del paziente), o di verità, presunta oggettività, imposizione del controllo (da parte del medico). È principio dialettico tra la distanza fra parole e cose (tra la descrizione di una malattia e i suoi reali effetti, ad esempio) e il bisogno di avvicinamento tra le parti, di un modo efficace ed empatico di comunicare.

Variabili e imprevisti

Ma che cosa succede se questa dialettica va in crisi, per di più in modo rapido e imprevisto? Che cosa succede se entrano in gioco variabili inattese? Se non si sa – ad esempio – come verbalizzare la descrizione della patologia, la spiegazione della cura (perché la cura ancora non c’è, e si va per tentativi)? Se, banalmente, si attribuiscono significati anche molto diversi a parole come influenza, o si incappa nella falsa sinonimia tra malattia (Covid-19) e virus (Sars-CoV-2) come fatto notare anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità? O se di fronte al pericolo invisibile di un virus di cui poco ancora si conosce prevalgono incertezza o – dalla parte del paziente – emotività e panico, come rilevato già all’inizio di marzo dalla giornalista scientifica Silvia Bencivelli? Che cosa succede se saltano prassi – anche comunicative – assodate, confortanti?

«Le difficoltà iniziano col ricovero – mi racconta Francesca Vignani, medica in servizio all’Ospedale Mauriziano di Torino – spesso i malati, in insufficienza respiratoria, arrivano con l’ambulanza e senza essere accompagnati da qualcuno. Quando entrano in ospedale, i parenti ne hanno già perso le tracce. E per molte ore possono non saperne più nulla. È un tempo – questo di attesa «al buio» – che mai ho conosciuto in questo modo prima di questa epidemia: prima del Covid-19 nessun familiare, almeno da noi, ha mai avuto serie difficoltà ad avere informazioni sul decorso clinico di un paziente. Prima di questa malattia i familiari, ad esempio, aspettavano in sala d'attesa finché il medico non trovava il tempo di andarci a parlare. Oggi invece nessuno può sostare in sala d'attesa, il tempo il medico non riesce a trovarlo, e la comunicazione con i familiari è spesso molto limitata, quando non inesistente». «Il Covid-19 – continua Vignani – porta alla luce, tra le altre cose, anche il dramma della non comunicazione, dell'assenza di parole, della distanza e dell’isolamento. Un dramma che è vissuto tanto dagli operatori quanto dai pazienti e dalle loro famiglie»

Gli occhi, lo sguardo

«Mi chiedi dei problemi di comunicazione e del lavoro sul linguaggio – mi scrive Edoardo Altomare, medico dirigente dell’ASL 1 di Bari, impegnato da sempre nella formazione interdisciplinare per operatori sanitari della sua Azienda proprio in tema di comunicazione, strumenti interculturali, «storie che curano» – posso solo immaginare la drammatica riduzione del volume di scambi comunicativi tra un operatore sanitario, stremato dalla fatica, dall'impossibilità di bere, mangiare e andare in bagno, ed impaurito dal rischio di contagiarsi, ed un paziente comprensibilmente spaventato perché non riesce a respirare». A volte si può solo comunicare con alcune occhiate: è tutto ciò che la situazione concede. Sono «sguardi di infinita dolcezza – dice Enrico Bellotti, dottore nel reparto di Anestesia e rianimazione dell’Ospedale Maggiore di Novara – sguardi ad esempio di pazienti anziani che rassegnati, con gli occhi, ti dicono: ho capito». Sono «sguardi difficili da sostenere: come quelli che un paziente può fare attraverso un casco respiratorio per chiedere: e adesso? – racconta Lilian Pizzi, psicoterapeuta che lavora a Roma, a lungo impegnata per conto di varie ONG nella cura delle persone vittime di tortura e dei sopravvissuti ai naufragi nel Mediterraneo centrale, e oggi attiva nel progetto nazionale Psicologi contro la paura. Ma vi sono anche gli sguardi che sorridono, toni di voce che rassicurano, «anche perché lo sguardo e la voce – più delle parole – diventano il canale privilegiato di comunicazione tra operatori sanitari e paziente, entrambi alle prese con dispositivi di protezione – come le mascherine – che riducono di molto le possibilità espressive delle emozioni in circolo».

Già, le mascherine. Ammesso che siano disponibili, sono una necessità – scrive John Patkin della Education University di Hong Kong – ma possono essere anche un ostacolo nel comunicare, ad esempio quando medico e paziente non parlano la stessa lingua, o quando il paziente è sordo o ipoudente, e vorrebbe aiutarsi con la lettura del labiale per cercare di comprendere ciò che gli viene detto (da qui la semplice quanto geniale idea di una studentessa del Kentucky, Ashley Lawrence: «reusable masks for the deaf and hard of hearing» con una parte in plastica trasparente in corrispondenza della bocca)1. Senza contare che codificare le espressioni facciali di una persona che indossa una mascherina non è per nulla facile: il messaggio può essere frainteso, o non capito. Si aspettano segnali che non arrivano. Può dover essere ripetuto, o – nella sua essenzialità – può scoraggiare ulteriori comunicazioni. Può, soprattutto, ostacolare l’empatia che proprio ora, al tempo del Covid-19, è più utile che mai. Bisognerebbe chiedere a tutti – chiosa Patkin – di essere maggiormente consapevoli delle proprie competenze, e delle possibilità, comunicative non verbali, come quelle offerte dall’eye-contact. Sarebbe già qualcosa...».

Parola mediata

Il punto è che la parola, anche se c’è, spesso è mediata. «Penso alla medicina territoriale – riflette Edoardo Altomare – dove i medici di base, per evitare rischi, devono limitare gli scambi a comunicazioni telefoniche, o mediate dal computer. E penso che tra gli effetti del Covid-19 ci sia anche una certa disgregazione della relazione medico-paziente, sia perché il medico spesso non dispone di un bagaglio di conoscenze specifiche sul virus, sia perché – se può – il medico tende a tenere a distanza il malato difficile, le diagnosi controverse. E in questo la mediazione di un computer e di uno schermo, o di un telefono, gli sono d’aiuto». In realtà negli ospedali la mediazione del telefono è l’unica possibile, e quindi ben venga – sostiene Francesca Vignani – «pazienti in isolamento ma non gravi possono chiamare o videochiamare i parenti a casa, che altrimenti non potrebbero sentire o vedere, visto che le visite non sono consentite». Per questo molte ASL in Italia – da quella di Grosseto a quella di Cuneo – hanno acquistato tablet ad uso dei pazienti: aiutarli a comunicare con i propri familiari distanti è utile, oltre che possibile.

Il rumore del silenzio

«Il vero dramma comunicativo – prosegue Vignani – è però tra i familiari e i pazienti che sono tenuti in isolamento: è un dramma di assenza di parole e, nei casi di morte, di assenza di commiato. I malati in terapia intensiva sono intubati e sedati, nessuno veglia su di loro, se ne vanno da soli senza aver potuto abbracciare e salutare le persone importanti della loro vita. In questo dramma c’è anche il dramma degli operatori che soffrono nell'assistere impotenti a queste morti, che si fanno carico di queste solitudini: quelle dei malati, delle famiglie, e la loro, di spettatori impotenti». In molti fra gli operatori sanitari e le operatrici sanitarie hanno cercato di raccontare questa impotenza, spesso unita alla frustrazione di dover lavorare senza protocolli o equipaggiamenti adeguati: su Facebook e Twitter rimbalzano i post scritti – non solo in Italia – da infermieri, o i video postati da medici, nel tentativo di verbalizzare pubblicamente ansia, vigore, resilienza, o rabbia. Ma in genere, in certi momenti (come è comprensibile) «prevale il silenzio – mi spiega Lilian Pizzi – sia perché si vuole proteggere l’esperienza dallo sguardo estraneo, sia perché spesso non si trovano le parole per dirlo. Servirà del tempo per trovare le parole giuste: servirà la presenza di un altro, di altri in ascolto, di uno spazio di risonanza».

Noi, loro

«Tornando al personale sanitario – prosegue Pizzi – assistiamo a un carico individuale del timore della morte, e poi della morte, dei pazienti. Carico che non si può con-dividere neanche con i loro familiari. E invece si dovrebbe evitare che sul piano discorsivo e simbolico, ma più ancora su quello psicologico, si produca una spaccatura tra l’“io” dell’operatore – o il “noi” di chi svolge la sua professione, quel “noi” che ha vissuto, affrontato, subito, e si è confrontato con la malattia e con la morte – e un “tu”, un “voi che non potete capire, che non c’eravate, che ne avete solo sentito parlare”». Molti operatori umanitari, me inclusa – aggiunge Pizzi, che ha lavorato a lungo con i sopravvissuti ai naufragi nel Mediterraneo – occupandosi degli effetti di lungo termine su pazienti che erano stati testimoni della scomparsa di persone morte lontane dai loro cari, o del dolore di chi ha perso parenti e amici senza potere dare loro una sepoltura, si sono accorti che quel dolore stava diventando anche il loro». «Ecco, quando parlo con operatori sanitari impegnati contro questa epidemia riconosco nelle loro parole, e soprattutto nei loro silenzi, quello stesso senso di solitudine, quello stesso straniamento, quella stessa difficoltà a trovare le parole di fronte a sequenze di morte anomale, che sembravano riguardare solo chi, come noi, se ne occupava direttamente, lasciando sullo sfondo – nel caso delle morti nel Mediterraneo – un disinteresse collettivo e crescente. Quello stesso timore, infine, di non sapere tradurre in un discorso sensato quello che hanno visto e provato».

Il peso del racconto

Si avverte un conflitto tra la contabilità della tragedia (i nudi numeri, le fredde statistiche) e tutte quelle vite, tutti quei corpi che si è cercato di curare: ognuno diverso, con la sua storia, il suo nome e cognome. Si fa strada anche un senso di inadeguatezza: in quanto testimoni gli operatori sanitari si sentono in dovere di comprendere, e rendere comprensibile agli altri, ciò che sta succedendo. Ma intanto non sanno come fare. Ci penseranno dopo, dicono. Ma quando inizia il dopo? «Il rischio – chiarisce Lilian – è quello di rimanere intrappolati in memorie difficili da dipanare, di farsi carico di un dramma che non è solo né può essere solo il loro, individuale, ma che è o dovrebbe essere collettivo. Ma proprio per questo sarà importante – da subito – poter disporre di spazi di ascolto ed elaborazione di questa esperienza: l’elaborazione del lutto non può essere lasciata solo sulle spalle o dei familiari, o dei sanitari. Sarà importante fare pensiero, su queste morti, collettivamente: affinché non restino solo addosso, come un macigno, a tutti i sanitari che hanno cercato di impedirle». «L’elaborazione del lutto, della perdita – ricorda Pizzi – avviene attraverso rituali di condivisione che per chi muore di Covid-19 non sono previsti. Il rito è un tassello fondamentale per prendere coscienza e toccare con mano la morte di una persona. Senza il rito, si rimane in una zona grigia, sospesa, dove la vita e la morte sembrano confondersi. E questa sospensione può condurre nel tempo a forme di sofferenza profonda. Chi vive una perdita ha spesso timore di rovesciare sugli altri con il proprio dolore. Al contrario con-dividere il dolore significa spesso ridurne un po’ la portata. Ecco, questa epidemia sta mettendo in luce i tutti i rischi di una... privatizzazione del lutto che invece, date le circostanze, dovrebbe essere collettivizzato dall’intera comunità».

Non chiamateli eroi

Il bisogno di elaborare un racconto, di un discorso condiviso affiora anche dalla critica delle metafore che vengono usate per descrivere i medici e chiunque lavori negli ospedali e nelle strutture sanitarie. «Ci chiamano eroi, guerrieri, parlano di fronte e prima linea – mi dice, con voce esausta dopo un turno infinito di lavoro, Enrico Bellotti – ma a noi questo non serve, non aiuta. Anzi: vorremmo tanto non doverla combattere, questa guerra. Vorremmo tanto non dover contare le vittime, non dover rischiare noi stessi di diventare dei martiri». «Qualcuno già comincia a dire – prosegue Bellotti – che negli ospedali avremmo potuto fare di più. Si sente di qualche famiglia che comincia a interpellare avvocati, a pensare di far causa ai medici, a non voler capire che non siamo sbrigativi o negligenti oggi come non eravamo infallibili ieri. Da “angeli in camice bianco” qualcuno vorrebbe già trasformarci in capri espiatori. Non a caso è stato proposto uno «scudo» anche per i dirigenti e i direttori sanitari: se ci saranno dei colpevoli saremo noi, medici e infermieri. Anche perché – e qui ritorna il discorso sul linguaggio e sulla comunicazione – quando affrontiamo gli effetti del virus lo facciamo di fatto a porte chiuse. E ciò che non si vede alimenta i dubbi, le paranoie. Ma il punto vero è che non sappiamo più accettare l’idea di morte e incertezza: dobbiamo sempre cercare dei nessi tra causa ed effetto: se fai questo lo salvi, se non lo fai la condanni, ecc. Questo virus però non funziona così: non lo possiamo ancora controllare, ha in sé ancora un elemento casuale, imprevedibile. Bisogna purtroppo accettarlo».

Ricominciare dal linguaggio

«Ascoltando le persone – aggiunge Pizzi – ho l’impressione che in alcuni casi abbia prevalso la retorica del “siamo eroi, è nostro dovere sacrificarci”. In altri casi invece gli operatori si sono sentiti “mandati al macello” soprattutto a causa dell’assenza di protezioni adeguate. Ma non sempre avevano il coraggio di dirlo, specialmente nella prima fase della pandemia, come se l’eroismo e l’attitudine sacrificale dovessero definire per forza il loro lavoro. Penso a un’infermiera che, di fronte all’assenza di dispositivi di protezione, aveva espresso il timore di contagiarsi e qualche collega, probabilmente estenuato da lunghi turni di lavoro e impaurito anch’egli, le aveva risposto “se hai paura questo, non è il posto per te”. Forse avrebbe potuto semplicemente dirle, e dirsi, “è normale avere paura”. Ecco, forse dovremmo semplicemente provare a dircele tutti, certe parole. Forse dovremmo proprio ricominciare da qui».

1 Devo questa informazione a Vera Gheno, che ringrazio.

La cura delle parole, di Federico Faloppa

Immagine: Il dottore

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