Al giornalista Fabrizio Roncone che gli domanda se «non fa un po' ridere sentirsi chiamare» giovani turchi, Stefano Fassina, responsabile del settore Economia e Lavoro del Pd, attuale viceministro dell'Economia e delle Finanze nel Governo Letta, risponde con un pizzico di fastidio: «Senta, innanzitutto questa definizione ci è stata data e certo non ci siamo svegliati noi una mattina decidendo di chiamarci così. Poi, comunque, sì: francamente ne faremmo davvero a meno [...]».

Rifare l'Italia

È dal 2010, anno in cui, all'interno del Pd, si forma un coagulo di intesa politica tra i giovani bersaniani Stefano Fassina, Andrea Orlando, Matteo Orfini e il meno giovane Roberto Gualtieri (il coagulo si dà il nome di Rifare l'Italia), che la stampa prende a definire il gruppo giovani turchi. Il fatto che nasca un'etichetta specifica è il segnale, per i commentatori, che siamo di fronte a una vera e propria corrente: una tra le tante che convivono nel Pd fino ai giorni delle drammatiche elezioni del presidente della Repubblica che hanno portato nuovamente Giorgio Napolitano al Quirinale. In quei giorni, analiticamente, torna il rimosso ed esonda con nitida violenza tutta l'aggressività accumulatasi nella contorta psiche del partito. Mentre i nomi e le etichette dei fedeli di questo o quel leader si sprecano (renziani, fassiniani, lettiani, dalemiani, ecc.), Fassina e compagnihanno già pronto il segnaposto, giovani turchi. Effettivamente, un po' ambiguo, a ben vedere.

La Malfa e l'Europa carolingia

Fassina e gli altri giovani turchi sono individuati come ala sinistra “socialdemocratica” (in senso europeo) del partito, critica verso le politiche liberiste e avversa al pragmatismo di un possibile leader interno come Matteo Renzi. In questo non c'è, ovviamente, nulla di ambiguo. La qualifica di giovani turchi, rifiutata da Fassina soprattutto perché identificativa di una corrente organizzata, quella, sì, porta con sé margini di ambiguità.

Prima di vedere dove si annidi l'ambiguità, occorre fare qualche considerazione. Il lessico politico è ricco di riutilizzazioni di termini e locuzioni tratte dalla storia politica antica, moderna e recente. Si tratta, di solito, di ripescaggi fatti da giornalisti e commentatori, ma anche da personaggi politici. Si attribuiscono a un evento, una strategia, una posizione, una persona caratteristiche che, in qualche modo, per analogia, richiamano famosi eventi, strategie, atti, posizioni, protagonisti della storia politica passata. Spesso, appiccicare la decalcomania del passato sulla pelle del presente ha una finalità critica, polemica o ironica. Quando, negli anni Sessanta, il segretario del Partito repubblicano italiano, Ugo La Malfa, parla di Europa carolingia, evocando le forti stimmate impresse sull'Impero dal potere assoluto di Carlo Magno, si riferisce alla grandeur francese, all'ambizione del generale Charles De Gaulle di presumere la Francia guida unica del carro dell'Europa (il cavallo, secondo De Gaulle, sarebbe stata la Germania federale: come sono cambiati i tempi...). Quando, nel Secondo dopoguerra, il Fronte popolare di Togliatti e Nenni denuncia le crociate anticomuniste e antisocialiste della Democrazia cristiana e dei suoi alleati, certamente i fatti storici antichi sono piegati in modo polemico alla battaglia politica presente.

Fini, il delfino mancato

Altre volte, nel recupero lessicale, sulla critica corrosiva prevale l'ironia. Dalla fine degli anni Cinquanta, in politica si parla di delfino per indicare il probabile successore di un personaggio di rilievo a qualche carica importante (tipicamente, la leadership di un partito, movimento, coalizione). Delfino, in origine (dalla metà del Trecento nella nostra lingua), è il dauphin (dal 1245 in francese), ovvero il titolo assegnato al primogenito dei re di Francia, candidato naturale al trono. Nel 2009, Gianfranco Fini dichiarò al quotidiano spagnolo «El País»: «Non sono il delfino di Berlusconi». Si schermiva, Fini, e non perché la qualifica di delfino gli dispiacesse, anzi; ironia della sorte, la sua retorica negazione per affermare (sé stesso) si risolse in una, pur involontaria, azzeccatissima previsione.

Andreotti, l'eminenza grigia

In realtà, spesso questi recuperi del passato, fatti proprio per connotare in modo particolare un aspetto della realtà politica presente, possono, col tempo e con l'uso, diventare moneta corrente e perdere l'animosità originaria. Prendiamo eminenza grigia:«[...] l'immagine di un Andreotti cinico, eminenza grigia e pericolosa, aveva già fatto capolino nella cerchia degasperiana e nella Dc», scrive Massimo Franco (Andreotti. La vita di un uomo politico, la storia di un'epoca, Mondadori, 2008; ed. 2010, p. 42). Eminenza grigia è locuzione che in politica indica un «personaggio, spesso misterioso, o che raramente opera allo scoperto, capace di influenzare le decisioni di un'autorità politica, di esserne l'ispiratore» (Gino Pallotta, Dizionario politico e parlamentare, Roma Newton Compton ed., 1976; ed. 1977, p. 123). Nella storia, eminenza grigia fu appellativo dato a Francesco Leclerc du Tremblay, padre cappuccino (da qui il grigio, colore del saio),amico e confidente del potentissimo gran ministro francese cardinal Richelieu, denominato a sua volta éminence rouge. Va segnalato che nella pubblicistica politica degli ultimi sessant'anni, la figura di Giulio Andreotti è stata spesso accostata a Richelieu per via delle doti di abile tessitore di trame diplomatiche, anche occulte, riconosciute al “divo Giulio”. Oggi, però, dire di qualcuno, in politica come nella vita, che è un'eminenza grigia non significa per forza evocare l'oscurità del segreto inconfessabile o losche trame nascoste.

Dal cesarismo al berlusconismo

In alcuni casi, viceversa, la carica ironico-polemica è più marcata e si stinge con difficoltà: ascari, peones e truppe cammellate 'fedelissimi e manovrabili sostenitori di uno schieramento o di un leader', diktat, direttorio, epurazione (il termine post-bellico tornò in auge ai tempi del primo Governo Berlusconi, fautore dell'estromissione da alte cariche pubbliche degli avversari politici; Epurator fu chiamato – e amò farsi chiamare – Francesco Storace), falchi e colombe (calchi semantici dall'inglese, ai tempi della guerra del Vietnam), franchi tiratori (per arrivare a quelli che hanno impallinato Franco Marini e Romano Prodi, si parte dal nome dei volontari francesi che condussero, nel 1870-71, una sorta di guerriglia partigiana dietro le linee dei tedeschi), giro di valzer (definizione che diede il principe von Bülow degli ammiccamenti tra l'alleata Italia e la nemica Francia), quinta colonna (quella che, agli ordini del generalissimo Franco, durante la guerra civile, si muoveva camuffata dentro Madrid contro gli assediati); gli -ismi ricavati da nomi propri di personaggi della politica antica e moderna, come cesarismo, machiavellismo, giacobinismo, bonapartismo, leninismo, stalinismo, gollismo, milazzismo, mitterandismo, berlusconismo.

Il genocidio degli Armeni

Ora possiamo tornare ai giovani turchi del Pd. Definizione neutra, ironica o polemica? All'osso: positiva o negativa? Dicevamo che c'è un po' di ambiguità. Alla fonte, innanzi tutto; poi, a ben vedere, anche nei riusi contemporanei.

La fonte: con giovani turchi la storiografia ha designato il movimento politico turco nato nella seconda metà dell'Ottocento, nazionalista, laico, modernista, filo-occidentale, formato da giovani ufficiali dell'esercito ed élite intellettuali, che si proponeva di riformare radicalmente il paese, trasformandolo in una monarchia costituzionale, scalzando l'assolutistico sultanato, ritenuto colpevole, insieme alla classe dirigente dei “vecchi turchi”, della decadenza dell'Impero Ottomano anche sullo scacchiere internazionale. Perseguitati dal sultano ‛Abd ul-Ḥamīd, nel 1909 i giovani turchi presero il potere. Ammodernarono? Occidentalizzarono? Qualcosa di buono, sembra di dire la storia, i giovani turchi hanno fatto, scardinando il potere del sultano. Il problema è che, a fronte delle spinte indipendentistiche che minavano l'Impero, la reazione dei giovani turchi fu drastica. E i giovani turchi sono oggi ricordati prima di tutto per il terribile eccidio della minoranza armena (che ha i connotati del genocidio) nel biennio 1915-1916. Quindi, la denominazione di giovani turchi, in politica, oggi, evoca senz'altro il ricordo dell'impeto propulsivo e modernizzatore del movimento turco delle origini, ma è inevitabile che porti con sé l'ombra del misfatto. Il sottotesto della locuzione è traducibile, più o meno, in questo modo: ora, cari giovani turchi del Pd, siete i giovani scontenti rivoluzionari nel nome del cambiamento generazionale e politico; un domani, al potere, forse sarete “cattivi” come i predecessori da voi un tempo combattuti e disarcionati... In questo senso, fa bene Fassina a rigettare l'etichetta.

Young turks e giovani sassaresi democristiani

Infine, va ricordato che la locuzione giovani turchi è stata riusata nel linguaggio politico-giornalistico anche all'estero (nel 2000, «The Wall Street Journal» definiva young turks una frangia di contestatori “progressisti” interna al Partito repubblicano di Bush e McCain); mentre, in Italia, è stata talvolta utilizzata con riferimento alla politica estera (per esempio, sono stati giovani turchi sia i sostenitori di Boris Eltsin contro Michail Gorbaciov, sia gli avversari interni di Obuchi nel partito liberaldemocratico giapponese).

I giovani turchi più famosi nella politica italiana secondonovecentesca sono i giovani esponenti democristiani sassaresi che, nel 1956, vincono un'importante battaglia politica interna al partito, in nome del rinnovamento, riuscendo a estromettere la vecchia guardia. Tra quei giovani turchi spiccano i nomi di politici poi assurti al rango di protagonisti, tra tutti Francesco Cossiga e Giuseppe Pisanu. I giovani turchi si ispiravano al cenacolo di Giuseppe Dossetti, comprendente anche Amintore Fanfani. Quel cenacolo che fu giovane turco di fatto, se non ancora di nome, al tempo delle seconde elezioni presidenziali, nel 1948, quando i dossettiani presenti in Parlamento riuscirono a far cadere la candidatura del conte Carlo Sforza, costringendo il segretario della Dc Alcide De Gasperi a cambiare cavallo in corsa, cioè a puntare sul liberale Luigi Einaudi.

Si parlò anche di giovani turchi nel Partito socialista italiano quando, agli inizi degli anni Novanta, si prospettò una latente ma nervosa sfida interna tra il leader Bettino Craxi e la generazione dei quarantenni (giovani turchi, appunto), legata a Claudio Martelli. Ci pensò Tangentopoli ad azzerare il ricambio generazionale.

Carne al fuoco della storia, antica e recente, ce n'è, per chi viene chiamato giovane turco. Non resta che attendere per capire di quale pasta siano fatti i giovani turchi del Pd, i turchi più giovani della storia politica italiana.

Immagine: Le Petit Journal 1909, Mehmet V viene proclamato sultano. Crediti: Le Petit Journal [Public Domain], attraverso Wikimedia Commons.

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