Avere un’illuminazione e rischiarare il futuro del Paese, che appare adesso come un cupo nembo turbinoso: proseguire (cominciare davvero?) con la lotta all’evasione fiscale; tagliare la spesa pubblica (magari quella improduttiva, non quella sociale); ridurre gli sprechi ovunque abbiano prosperato e le regalìe ovunque abbiano nidificato. Sì, tutto questo è necessario (basterà?), ma se tentassimo la traduzione di un’intuizione geniale in un oculato investimento a lungo termine, che guardi oltre la terribile contingenza dell’oggi? Si legge sul numero 36 dell’8 settembre 2011 del settimanale «L’Espresso», nell’articolo Buca d’assalto di Antonio Carlucci, che «l’economia del golf dell’area Europa-Medio Oriente-Africa […] vale 53 miliardi di euro» e «contribuisce al Pil con 500 mila posti di lavoro, stipendi per 10 miliardi di euro e un volume di 14.5 miliardi di euro», una «cifra sei volte superiore a quanto si ricava dall’organizzazione di un’Olimpiade». Senza contare il fatturato del «turismo golfistico» che si indirizza verso mete ormai canoniche in Scozia, Irlanda, Portogallo, Spagna: 2 miliardi e 700 milioni di euro. Pare che il turista con mazza e pallina da golf, nei suoi soggiorni per buche europee, spenda una media di 250 euro al giorno «e solo il 25 per cento di questa somma direttamente per giocare». Conclusione e obiettivo (da qui parte la nostra modesta proposta): trasformiamo l’Italia in un immenso campo da golf. Col vantaggio di rendere letterale la metafora della green economy. In realtà, l’idea di puntare su questo sport che conta un numero sempre maggiore di appassionati e praticanti viene già battuta con discreto successo dal Portogallo e dall’Andalusia. Vuoi mettere con l’Italia, teatro storico di cultura millenaria e stupendo scenario naturale? Finora a combinare prati verdi e città d’arte ci ha pensato solo il Mulino Bianco, con gli spot televisivi di qualche anno fa. Ora, a quanto pare, anche l’Italia sta diventando meta di turismo golfistico sempre più ambita. Diamoci da fare sul territorio (campi, alberghi, ristoranti, pacchetti gastronomico-culturali…), creiamo in casa i nostri Tiger Woods (escort a parte: abbiamo già dato) da esportare sui campi anglosassoni (americani in primis), con conseguente ricaduta pubblicitaria sul Bel Paese.

Il calcio della Crusca

A pensarci appena un po’, sorge la domanda: è possibile che dobbiamo importare dai popoli “barbari” del Nord gli sport (e le relative denominazioni) che fanno girare i soldi? Il football, il rugby, il basket, il tennis? Punti nell’orgoglio, cerchiamo di rintracciare origini italiche: “eh, ma il tennis senza la nostra pallacorda rinascimentale non esisterebbe”. E il gioco della palla, non si faceva già a Firenze, in costume, nel Cinquecento? Vatti poi a leggere il Vocabolario degli Accademici della Crusca, anno di grazia 1612, alla voce calcio: «E CALCIO anche nome d’un giuoco, proprio, e antico della Città di Firenze, a guisa di battaglia ordinata, con una palla a vento, rassomigliantesi alla sferomachía, passato da’ Greci a’ Latini, e da’ Latini a noi» (http://vocabolario.signum.sns.it/)… Ingegnosi nei secoli, vociferiamo che anche il golf, sport (insieme col nome) quant’altri mai originatosi in certe lande nebbiose del Nord Europa, propaggini da una remota diffusione continentale per provincias della romana antiqua paganica (http://www.golfacademy.it/), sport di bastone ricurvo e arronzata pallina di pelle concia, imbottita di piume: sport di verde e di colli, sette e pure più di sette, come testimonierebbe l’etimo, essendo paganica ‘cose o luoghi dei pagani’ e pagani, nei tempi remoti, gli abitanti dei pagi, cioè degli agresti e burini villaggi delle origini. Insomma, dietro la Scozia medievale che nel quindicesimo secolo battezza gouf quello sport di mazza e pallina allo stato brado che, più che parentela genetica, probabilmente ha soltanto ovvia analogia con la paganica, così come con tutti i consimili sport di mazza e pallina nati nell’era moderna in varie contrade d’Europa (per esempio, in Francia: jeu de mail, chole, crosse; o in Olanda, kolven, che deriva il nome dal neerlandese kolf ‘bastone’, da cui viene anche il nome gouf/golf scozzese/inglese). Va perdipiù notato che il golf è l’unico sport, tra quelli citati (paganica compresa), che presenta la buca come obiettivo del gioco: gli altri hanno come meta di colpire un bersaglio posto sopra il terreno.

Giacomo II, l’arco e la pallina

Proprio in uno statuto scozzese del 1457 compare la prima attestazione scritta di golf in lingua anglosassone. Il re Giacomo II mette al bando il popolarissimo diporto (che dunque risale a tempi ancor più remoti, forse già agli inizi del quattordicesimo secolo), perché distoglie i sudditi dalla pratica del tiro con l’arco, molto più sensata e redditizia se si è costretti a combattere, per esempio, contro i detestati inglesi. Gli scozzesi erano e sono gente orgogliosa e tenace: quarant’anni dopo la messa al bando viene ritirata. È la vittoria del popolo sportivo. Pallina, pallone… oppio dei popoli, sempre. Nel 1540, a testimonianza del radicamento ormai benevolo dello sport tra le verdi colline di Scozia e d’Inghilterra, la lingua inglese registra anche l’espressione tecnica golf ball ‘pallina da golf’. Nel frattempo, 1513, gli scozzesi (forse perché ormai disabili all’arco e abili soltanto con bastone e pallina) avevano perso il sovrano e l’intera èlite nobiliare nella battaglia di Flodden Field contro gli inglesi (che magari giocavano meno a golf…).

La rivincita di Benedetto Croce

Gira che ti rigira, la pallina va finalmente in buca anche in Italia. Risale al 1907 la prima attestazione scritta di golf. Umanistici per tradizione e vocazione, ci permettiamo, da eredi diretti dei popoli latini, di recare come seconda attestazione di golf un passo tratto da una recensione che il grande, “classico” filosofo idealista Benedetto Croce scrisse nel 1932, comparsa sul n° 32 della rivista «La Critica», da lui stesso diretta: «L’autore, che è insegnante, si vale dell’espediente di sottoporre a un certo numero di lettori una poesia della quale non dice l’autore, e raccogliere le impressioni e i giudizii che essi ne danno. In questo volume ci sono i protocolli di siffatta esperienza per tredici poesie, buone o cattive. Il suo fine è di mettere in guardia contro gli impedimenti e i traviamenti e i pregiudizii che si oppongono al ben giudicare. Egli si maraviglia che vi sia una tecnica per saltare la sbarra, o per la pesca, pel golf, ecc., e non se ne sia data una per avvicinarsi a una poesia. Veramente, tutti i vecchi insegnanti di letteratura, tutti i critici, tutti i teorici dell’arte fanno appunto questo: mostrano come si deve giudicare di poesia; e il sig. Richards esagera, a dir poco, la novità e l’importanza del suo conato. Poiché i più varii espedienti possono avere eventualmente la loro utilità, non intendiamo negare che talvolta possa giovare di far leggere una poesia nascondendo il nome dell’autore: senonché, in ultima analisi, tutto dipende sempre dal raccoglimento spirituale, dalla finezza osservatrice, dall’educazione conforme, dal sano criterio intellettuale del giudicante».

Insomma, dice Croce – che con gli intimi si vantava di non saper compilare un bollettino di conto corrente – l’anglosassone professor Richards, abituato a ridurre i fenomeni alla loro metrologia normativa (come accade con le regole degli sport, per esempio dell’anglosassone golf!), si meraviglia perché la poesia non è avvicinabile con “tecniche” predeterminate e universali. Suvvia, scrive Croce sorridendo sotto i baffoni, per leggerla e giudicarla basta soltanto poter contare su “raccoglimento spirituale”, “finezza osservatrice”, “educazione conforme”, “sano criterio intellettuale”. Basta essere colti eredi dell’Umanesimo italiano, prof. Richards, basta essere come don Benedetto. Poi in buca la finissima analisi del testo ci va praticamente da sola.

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