Si parla del marchio inteso come «contrassegno originale, grafico o figurativo, applicato ai prodotti di un’impresa per distinguerli da prodotti simili di altrui fabbricazione» (Vocabolario Treccani.it), di solito brevettato e legalmente protetto per un certo numero di anni, e, dunque, si parla, qui, del marchionimo, come dicono gli studiosi di lingua, ovvero del nome dei marchi. Il marchio è garanzia di riconoscibilità e, in qualche modo, di qualità: certi marchi (la mela morsicata di Apple, il cane a sei zampe di Eni, l'aquila stilizzata di Giorgio Armani) attraversano il globo senza tema di anonimato. Più il marchio vale, maggiori sono i tentativi fraudolenti di veicolare sotto la sua egida merce taroccata. Si marchia sin dall'antichità. Oggi, se non si marchia, nel mercato globale non si esiste. La presenza del nome del marchio aziendale o del singolo prodotto nella vita quotidiana dei Paesi di consumismo avanzato (che si potrebbe intendere anche come 'rimasto, residuato', vista l'aria che tira...) è talmente pervasiva da essere trasparente e impercettibile, come l'aria che respiriamo: «ce l'hai un kleenex?»; «pulisci con lo scottex»; «mi prendo un'aspirina»; «dammi un pavesino» sono frasi di tutti i giorni che contengono marchionimi passati in vario modo al rango di nomi comuni.

Pavesiano o Pavesino?

Il processo di lessicalizzazione comporta, nel caso di kleenex e scottex, lo slittamento dal nome proprio del marchio al nome comune, con un transito dalla specificità alla genericità; più tecnicamente, kleenex passa dall'identificare esclusivamente un determinato tipo di fazzoletto assorbente prodotto da una determinata azienda al significato iperonimico di 'fazzoletto assorbente' (la parte per il tutto), così come scottex non è più, soltanto, un determinato tipo di carta assorbente per pulizie prodotto da una certa azienda, ma è un qualunque tipo di carta assorbente per pulizie. Il pavesino ha poi una ricca storia onomastica, ricordata da Enzo Caffarelli (in Dimmi come ti chiami e ti dirò perché. Storie di nomi e di cognomi, Laterza, 2013, p. 166): «[...] prendete un nome come Pavia, che secondo una delle tradizioni etimologiche deriverebbe dal nome Papìa (dal greco papías 'custode del palazzo'). Dalla città si è generato l'aggettivo di provenienza pavese, cristallizzatosi in almeno due cognomi Pavese e Pavesi; e, mentre l'aggettivo ha assunto altri valori ('tipo di moneta') o è entrato in espressioni come zuppa pavese, ecc., i due cognomi – a causa di altrettanti portatori noti – hanno dato vita il primo, quello dello scrittore Cesare, all'aggettivo pavesiano e ad altri possibili derivati; il secondo, quello dell'industriale dolciario novarese Mario Pavesi, al marchio aziendale e ai nomi di singoli prodotti, come i biscotti dolci Pavesini e i cracker salati GranPavesi [...]».

Lo zibellino in casa Nokia

Spesso è interessante sapere l'origine del nome di alcuni marchi famosi. Non sempre è pensabile che la scelta onomastica sia importante per il successo del marchio. Diciamo che la scelta del nome contribuisce a creare una sorta di aneddotica spendibile dall'azienda come narrazione automitologica. Al consumatore moderno piacerà sentirsi raccontare che la «parola finlandese nokia (plurale di nois) indica un piccolo animale dal pelo scuro (simile allo zibellino) che abitava la zona circostante il fiume», che reebok è il nome di una gazzella africana, che «il nome ikea è l'acronimo delle iniziali del fondatore (Ingvar Kamprad) e di Elmtaryd e Agunnaryd, la fattoria e il villaggio dove Kamprad crebbe», che (a proposito!) il nome kleenex è «la contrazione tra kleen (ovvero clean, termine inglese che significa 'pulito') e il suffisso -ex (da Kotex, l'azienda che per prima produsse il Kleenex, oggi di proprietà della multinazionale Kimberly-Clark)» e via spulciando nel catalogo della fabbrica dei nomi commercia(bi)li.

Venga****, ho un Finezzo di Salumeo Picanto

Altro capitoletto interessante è costituito dai marchionimi pseudoitaliani ideati da creativi al soldo di firm più o meno prestigiose, fuori dai confini nazionali. L'italiano, inteso come lingua e come tipo antropologico, piace all'estero, c'è poco da fare, anche se filtrato attraverso tutti gli stereotipi del caso (tradizione, canto e cantabilità, cuore, amore, mamma, spaghetti e mozzarella, mafia...). Basti pensare alla presenza costante di italianismi e pseudo-italianismi in tante canzoni straniere, studiate di recente in modo sistematico da Stefano Telve, o ai nomi dei modelli di certe automobili, che destabilizzano l'italiano, inteso come persona, che vi faccia attenzione, per via di quell'aria a metà tra strafalcione e parodia. Per esempio, la multinazionale coreana Kia Motors ha in produzione vetture come Sorento – che a noi madrelingua suona come un errore di ortografia - Picanto, Cerato, Venga. Nel suo blog Terminologia etc.it, la studiosa Licia Corbolante cita anche «i nomi delle varietà di caffè Nespresso, come Volluto, Livanto, Finezzo, Fortissio e Vivalto, e quelli di alcune marche del supermercato LIDL, Crestamio, Linessa, Lovilio, Salumeo, Milbona, Certossa, Italiamo, Frotto e Nostia [...]». E commenta: «Non li trovo accattivanti, anzi, mi sembrano quasi nomi di prodotti taroccati, ma sicuramente in altre lingue suonano bene proprio perché sono italianeggianti».

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