Da quando (2005) nel nostro Paese la leva obbligatoria è stata sospesa a tempo indeterminato (http://www.difesa.it/sospensione-leva.htm) e il servizio militare è diventato professionale (http://www.difesa.it/Riforma-del-Servizio-Militare.htm), capita di rado di imbattersi in termini e fraseologia di caserma: i ragazzi, nella stragrande maggioranza dei casi, a diciott’anni non decidono per le stellette, preferiscono studiare o lavorare o fare i precari (un mestiere, ormai) o – chi può – fuggire in veste di cervello all’estero. Se usiamo parole che vengono dal mondo di quella che per tanti anni (dagli inizi del Novecento) si disse con voce gergale naja, lo facciamo soltanto perché quelle parole hanno assunto da tempo un significato figurato. Insomma, per via di metafora si riferiscono a realtà della vita di tutti i giorni. Così accade anche per la locuzione rientrare nei ranghi, che, alla lettera, potrebbe ancor oggi voler dire ‘riprendere il proprio posto (nello schieramento militare)’ o ‘riaggregarsi alla truppa’, ma che ormai si usa figuratamente e vuol dire, come si legge nel Vocabolario Treccani.it (s.v. rango), «tornare all’obbedienza, al rispetto della disciplina, recedendo da posizioni e azioni polemiche, di opposizione e di scissione, all’interno di partiti, associazioni e organizzazioni, ecc.». Chi rientra nei ranghi, decide in qualche modo di assoggettarsi nuovamente alle regole che gerarchizzano l’insieme ordinato di cui si torna a fare parte. Stare al proprio posto vuol dire, anche, occupare una precisa, e certa, posizione.

Ordine e grado sociale

Una posizione sociale, una posizione di potere – per quanto relative: chi esce dai ranghi lo fa, verrebbe da dire “per definizione”, da un rango comunque inferiore a quello dal quale qualcun altro esercita il Potere vero. Dietro il concetto militare e sociale del rango soffia il vento lungo della storia; si legge in filigrana la nascita e formazione di ceti, classi, “stati” che poi si cristallizzano ma, una volta fattisi cristalli, sono sottoposti alla pressione sempre più decisa dei nuovi ranghi emergenti.

Rango ricalca il francese rang, che a sua volta proviene dal francese antico renc (XIII secolo), nell’accezione di ‘linea di soldati’ e poi, dal 1462 ‘(posto nella) classe sociale’ (cfr. DELI, s.v. rango). Nel significato di «posizione o condizione di un individuo, per lo più con riferimento all’ordinamento sociale […]», DELI riporta al 1643 la prima comparsa della parola in italiano. GDLI, s.v. rango, recupera un’attestazione del 1686, anno nel quale uno dei più alti esponenti della nobile famiglia veneziana dei Foscarini, il senatore Sebastiano (1649-1711), scrisse, da ambasciatore, una relazione che conteneva frasi come la seguente, in cui adoperava il termine rango: «A meno di confessarlo il migliore comparativamente tra gli altri del rango, donde soglion trarsi in Spagna i privati e i primi ministri».

L’accezione militaresca di ‘allineamento di soldati, fila, riga, ordinanza’ è documentata per la prima volta in italiano nel 1677, secondo DELI, negli scritti di Lorenzo Magalotti (1637-1712).

Non piace ai puristi

La parola rango, sia perché tacciata di francesismo, sia perché, in ambito militare, considerata inutile doppione esterofilo di ‘fila, riga’, dispiacque ai puristi nostrani ottocenteschi: Azzocchi, Lissoni, Molossi, Valeriani, Ugolini, Fanfani e Arlìa, Rigutini. Rango era rifiutato nelle accezioni di ‘grado, carica, lignaggio, condizione, ordine’, ma anche (come ricorda Luca Serianni, s.v., in Norma dei puristi e lingua d’uso nell’Ottocento, Firenze, Accademia della Crusca 1981) come elemento delle locuzioni militaresche «rompere il rango ‘rompere le file’; formare il rango ‘formare le file’; stare in rango ‘stare in fila o in ordinanza’». Con poche modifiche formali (il plurale in luogo del singolare e annessi), tra Ottocento e Novecento questa fraseologia si imporrà in lingua, anche nei significati figurati.

L’espressione rientrare nei ranghi ha una sua prima attestazione nel 1906, nel significato letterale ‘reinserirsi nello schieramento’. La troviamo in un passo dell’opera I racconti di un fantaccino dello scrittore fiorentino Giulio Bechi, nato a Firenze nel 1870 e morto in guerra, presso Gorizia, nel 1917: «Il colonnello era livido. – Oggi nessuno esce! – ordinò con la voce brusca […] Gli ufficiali rientrarono nei ranghi, mogi mogi». In seguito, numerose saranno le attestazioni dell’espressione, in una serie di significati via via dilatati a raggiera, come cerchi concentrici nell’acqua: da «ritornare a occupare la precedente funzione o sceglierne una di secondo piano dopo aver rivestito una carica di rilievo», passando per «ritornare con i piedi per terra», fino a «rinunciare a ogni iniziativa individuale o a ogni forma di opposizione per obbedienza alle direttive ricevute» (GDLI, s.v. rango, 16).

Nelle righe dello schieramento politico

Certo, viene da pensare che in taluni casi l’uso figurato riesca immaginificamente a recuperare la sostanza tutta militare delle origini letterali dell’espressione. Si tratta di casi moderni, modernissimi: anzi, attuali. Che si verificano quando, per esempio, chi afferma di aver subìto pressioni per rientrare nei ranghi è un politico disobbediente, frondista, dissidente, inviso ai tenitori di un regime o alla leadership di un partito dei quali pure fa parte. Magari è più facile e scontato che succeda se il regime è totalitario o militar-militarizzato, oppure se, trattandosi di partito, questo è autocratico. Meno scontato se il regime è democratico, o se il partito o schieramento – impiantato in un Paese retto da una democrazia parlamentare – si richiama esplicitamente ai valori della libertà.

Però, se rileggiamo un paio di righe della trascrizione del discorso diffuso in Rete dal Presidente della Camera Gianfranco Fini sabato 25 settembre 2010, a proposito degli attacchi da lui subiti sulla faccenda dell’appartamento di Montecarlo, ci rendiamo conto che qui il rientrare nei ranghi ha tutta l’aria di essere inteso come un obbligo di stampo militaresco, condito da pressioni e minacce, tipiche delle polizie politiche dei regimi totalitari – quale fu, per esempio, il regime fascista, cui non troppi anni fa Fini guardava con l’affetto e il rispetto dell’erede designato.

Nell’estate appena passata c’era, ha dichiarato Gianfranco Fini, «chi mi consigliava dalle colonne del giornale della famiglia Berlusconi di rientrare nei ranghi se non volevo che spuntasse qualche dossier – testuale – anche su di me» (il testo integrale del discorso è recuperabile qui: http://www.repubblica.it/). Un-duè, un-duè, sembra dire Fini: ma io non sono un soldatino, non mi riallineo nelle righe dell’esercito berlusconiano schierato davanti al leader. Il Medioevo del renc è finito. Ma, oggi come ieri, c’è chi pretende la fedeltà dei fanti in giaco di maglia: che siano pronti a difendere il cavaliere, in caso di necessità, a strenui colpi di spada, a costo di esporsi a colpi mortali pur di offrirgli in riparo il proprio scudo.

Chi esce dai ranghi è un traditore; se poi lo si costringesse, con le buone o con le cattive, a rientrare, niente, in realtà, sarebbe più per lui come prima. Resta il problema di capire perché, nel non lontano passato, decise di entrare nei ranghi chi sapeva che non sarebbe stato disposto a sottostare a «una incessante vicenda di voleri e disvoleri» governata da altri.

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