Le libere donne di Magliano, malate mentali internate, e Mario Tobino (www.internetculturale.it), psichiatra, poeta e scrittore. «Un giorno a Lucca nevicava e le malate uscirono dalla corsia con delle coperte per coprire la sua macchina. Volevano proteggerlo», raccontò nel 2006 al «Corriere della Sera» Michele Zappella, neurologo e psichiatra infantile, nipote di Tobino. Sembra uno schizzo uscito dalle pagine del romanzo forse più famoso di Tobino, Le libere donne di Magliano, prima tappa (1952) della trilogia dedicata alla sofferenza e alla «rovinosa “libertà” interiore della follia» (Giulio Ferroni) – seguirono Per le antiche scale (1972) e Gli ultimi giorni di Magliano (1982) –. La trilogia intera, ma soprattutto il primo e più famoso elemento del trittico, fa di Tobino un «narratore eccelso di scrittura di cose» (Walter Pedullà).

Quest’anno ricorre il centenario della nascita di Tobino e la Fondazione a lui intitolata (www.fondazionemariotobino.it), nata nel 2006, sta mettendo in campo, avendo già cominciato a prepararsi da almeno un paio d’anni, alcune iniziative tese a ricordare e approfondire la figura del medico-scrittore che, nel secondo dopoguerra, per tutta la sua vita attiva, fu direttore dell’ospedale psichiatrico di Maggiano, frazione di Lucca. Fino a quando egli, accorato e dolente, si ritrovò a manifestare il suo dissenso sull’abolizione dei manicomi, giuste la cosiddetta “legge Basaglia” (legge 13 maggio 1978, n. 180, “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”) e la legge istitutiva del Servizio Nazionale Sanitario (legge 23 dicembre 1978, n. 833). Scriveva queste parole al suo assistente Franco Bellato: «Questa legge 180 ha del buon principio, ma come spesso in Italia accade saranno problemi. I malati vanno curati e amati. I politici guasteranno tutto… come sempre, speriamo. Ma resteremo soli e la moda vincerà. Addio malati, cari compagni della mia vita». Animato da una sincera dedizione per quelle che lui chiamava «creature degne d’amore», Tobino fu pubblicamente e con durezza attaccato da Franco Basaglia: «La psichiatria è la scienza che serve al potere per controllare la persona emarginata […] Il rapporto già fragile in molta stampa italiana fra informazione e disinformazione si squilibra a vantaggio della seconda quando si affidi alla penna cechoviana di uno scrittore l’analisi di un ambiente che è in realtà la tesi dell’ideologia dominante. Oggettivamente il suo scritto rende un grosso servizio al potere […] Ebbene, era tutto falso! Dove erano le donne oscene e cattive, quei bei personaggi descritti dal Tobino? Nella realtà del manicomio non c’era da avere pietà e compiacersi della sofferenza ma soltanto lavorare duramente per abbattere giorno per giorno quei muri» (www.fondazionemariotobino.it/tobino_approfondimenti). Tobino diceva: «la cupa malinconia, l’architettura della paranoia, le catene delle ossessioni» esistono anche se si chiude il manicomio. Basaglia diceva: «La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere». Il rigore della formulazione teorica di Basaglia portava a stringere l’obiettivo sul sistema come locutore e generatore di malattia. Paradossalmente, si cancellava così la vicinanza iniziale di posizioni e di sentimenti tra i due uomini. Tobino aveva detto: «La pazzia è veramente una malattia? Non è soltanto una delle tante misteriose e divine manifestazioni dell’uomo, un’altra realtà dove le emozioni sono più sincere e non meno vive? I pazzi hanno le loro leggi come ogni altro essere umano e se qualcuno non li capisce non deve sentirsi superiore». Basaglia vedeva in Tobino un caritatevole cristiano affetto da narcisismo ed edonismo letterario. Lo studiato pathos di Tobino, sulla pagina, per intensità realistica e trattamento della sintassi e della parola, sembra sì mettere in luce la presenza di un autobiografismo sollecito, ma non sembra carico di edonismo. Forse si potrebbe parlare di vitalismo, espressione di un «generoso fondo romantico» (Geno Pampaloni), nel quale si intaglia una decisa volontà testimoniale.

Leggiamo l’inizio del romanzo Le libere donne di Magliano:

«Oggi è arrivata, proveniente da Firenze, una malata, una matta, giovane, fresca, alta, con lo stampo della salute fisica. Quando sono entrato nel reparto era seduta a letto e mangiava con golosità. Aveva la camicia aperta sì che le si vedeva comodamente un seno. Non aveva alcun pudore, neppure la finzione del pudore. È affetta da schizofrenia, quella malattia mentale che scompone la persona umana rendendola senza senso e senza scopo».

L’efficacia dell’ingresso in medias res sembra reggersi sulla danzante coordinazione asindetica dei due sostantivi “negativi” (malata, matta) con gli aggettivi “positivi” (giovane, fresca, alta), chiosati con perentoria fermezza (con lo stampo della salute fisica). Questo «narrare per punte, frammenti acuti, scene scottanti» (Walter Pedullà), in un romanzo che si accende per sketch, per paragrafi giustapposti, medaglioni di figure che appaiono vive, febbricitanti e sfuggenti, è tutt’uno con lo «stile sobrio e immediato, spesso sintatticamente fratto e talvolta ruvidamente fuori regola, quasi a voler meglio aderire a quanto rappresenta» (Eugenio Ragni e Toni Iermano). Si squarcia il buio del malessere più profondo, che si annida e lavora nei visceri, e talvolta, in alcuni, erompe oltre la maschera e fa nuovo il volto: i bagliori illuminano una donna, «bruna, bellissimi occhi, la gola lupina»… un’altra, «gli occhi molto belli, neri, sempre lucidi di malinconia e di sopportazione che, stranamente, brilla di profonda letizia».

Forse è negli scolpiti proslogi lirici che s’accende più sfacciato e consapevolmente esibito il pensiero di sé, creatura perduta tra i perduti.

Manicomio di Lucca

Rimarrò qui,
fino alla morte,
come un gufo?
 
Pazzo, povero, disgraziato.
A cinquant’anni
non ho
né tetto né famiglia.
E non mi manca
il marchio
di:
medico di manicomio.

Parleranno di me
nelle tavolate.
Qualcuno dirà:
Visse chiuso in una stanza
in manicomio,
senza amici,
donne, fratelli.

L’ufficiale medico della 31a Sezione di Sanità della Divisione “Pavia” che operava in Libia, lui che la «follia dell’impresa fascista» in Africa (Ragni e Iermano) raccontò, con vivida vena satirica e marezzature drammatiche, nel romanzo Il deserto della Libia (1962); il baldo partigiano che fece la sua stagione resistenziale in Versilia, e ne ripercorse tra epica popolana e vena picaresca le venture nel romanzo Il clandestino (1962; Premio Strega); il giovane medico che lavorò negli ospedali psichiatrici di Bologna, Ancona, Gorizia, Firenze e in Bandiera nera (1950) diede un resoconto amaro delle condizioni della sanità sotto il fascismo: lui, lo scrittore cattolico, sensuale ed energico, dal «linguaggio pieno di immediatezza toscana, di passione e di colore, di cordialità e aggressività» (Giulio Ferroni), riuscì «nel suo piccolo mondo a essere un grande narratore» (Walter Pedullà), a trasformare la singola impronta individuale in «racconto di altre vite e di altre esperienze esistenziali, testimonianza di violenza e di morte, di abbandono e di solitudine, di abnegazione e di cinismo, componendo una sorta di incursione nella follia colpevole e in quella incolpevole dell’uomo» (Eugenio Ragni e Toni Iermano).

Immagine: Giorgio Mondadori e Mario Tobino

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