Dieci anni fa, il 6 marzo del 2001, moriva Luce D’Eramo (pseudonimo di Lucette Mangione), nata nel 1925 a Reims e cresciuta a Parigi – il padre era un sottosegretario italiano della Repubblica di Salò. Il “dopo” dell’esistenza umana e letteraria della D’Eramo, pur preparato dalle narrazioni di Straniera (1955) e Finché la testa vive (1964), si concretizza nel suo romanzo più famoso (in Italia e all’estero), Deviazione, «che nel 1979 irrompe nella scena letteraria con l’inaspettata violenza di un pugno» (Maria Vittoria Vittori), «toccante ma sorvegliatissimo» (Eugenio Ragni). Tra andirivieni della memoria, l’autrice – con un’opera di alta presa morale – trae dalla propria coscienza, liberandolo dall’oppressione del ricordo, ricostruito infine, dopo anni di restituzioni parziali, nell’integra crudezza della deliberata riemersione dalla rimozione psichica, il groviglio di drammatiche e, in qualche modo, romanzesche avventure del “prima” della propria esistenza. Più di trent’anni addietro, Luce, in quelle avventure, si era gettata a capofitto, giovane ardente fascista, per mettere alla prova, e possibilmente smentire, la terribilità delle voci sui campi di lavoro nazisti. A 18 anni era fuggita di casa per immergersi nell’esperienza che le avrebbe cambiato la vita.

L’identità negata

«Venti milioni di stranieri lavorarono in quel periodo in Germania, e di essi due terzi erano volontari. Ma il ricordo ne è stato rimosso, troppo scottante essendo anche solo l’idea che per fame, per bisogno, per mancanza di lavoro, si potesse fare quella scelta», ha dichiarato Luce D’Eramo nel 1979, commentando l’uscita del proprio romanzo (http://www.archiviolastampa.it/). La parola-chiave, rimozione, vale anche per Luce, che pure non per fame, se non di conoscenza, s’era mossa in direzione di Monaco e Dachau. La prima parte del racconto di Deviazione, ovvero la presa di coscienza delle strategie discriminatorie e classiste messe in atto dai nazisti nei campi, sfocia nello sciopero collettivo alla Farben, la fabbrica in cui è andata a lavorare come operaia volontaria. I compagni di Luce vengono spediti a Dachau, Luce tenta il suicidio, poi riesce a tornare in Italia, grazie all’intervento del console italiano. È qui che la rimozione entra in gioco. Soltanto scrivendo e riscrivendo quel che diventerà Deviazione, trent’anni dopo, Luce riuscirà a dissiparla del tutto, facendo emergere ciò che aveva “dimenticato” per tanto tempo. Scrive D’Eramo: «C’è un fatto che ho eluso. A forza di dire che ero stata deportata a Dachau, ci ho creduto. Ma non è vero. I miei compagni vennero trasferiti in quel Lager. Io no. Fui rimpatriata». Nel romanzo di lunga gestazione soltanto “dopo”, molto dopo, viene per la prima volta esplicitato questo trait d’union tra la prima e la seconda parte dell’avventura concentrazionaria, nella quarta sezione di Deviazione, intitolata La deviazione, per l’appunto. La realtà, tanto pesante, ha avuto bisogno di trent’anni per essere ruminata, digerita nelle profondità della coscienza e restituita all’esterno in forma di parola scritta. La realtà è quella di una scelta estrema, scioccante, dalle conseguenze esistenziali drammatiche. Prende il via dalla ribellione al proprio detestato destino di privilegiata e protetta, con la conseguente decisione da parte di Lucia (l’autrice in proiezione autobiografica)/Luce, appena rimpatriata a Verona, di negare la propria identità, gettando i documenti, in modo da farsi catturare dalle SS in un rastrellamento ed essere spedita a Dachau.

Concitazione interpuntiva

Poter essere umile tra gli umili, sommersa tra i sommersi: questo voleva Lucia/Luce. Picchiata come le sue compagne popolane nel lager, che ripropone e accentua le distinzioni di classe, Lucia/Luce, nel ricordare il trattamento perequativo delle botte mentre sta fuggendo verso Magonza, sembra finalmente soddisfatta:

«finalmente (ridevo tra le lacrime) anch’io sono stata picchiata, da sola, personalmente, adesso sono proprio come loro bastonata, sputata, in tutto come loro, non ricadrò nel mio ceto, mentre correvo correvo verso Magonza».

La piega mossa della sintassi, nella concitazione interpuntiva che scuote la linearità paratattica, nei franti spezzoni di monologo interiore, così tipici dello stile dell’autrice quando si infila tra le pieghe emotive della sua interfaccia narrativa, rende bene il febbricitante vitalismo di Lucia, su cui già incombe – nel momento stesso in cui viene reso sulla pagina – il senso della dolorosa disillusione successiva. La ferita invalidante subita a Magonza nel febbraio del 1945 (Lucia/Luce rimarrà sulla sedia a rotelle per il resto della vita), nel tentativo di estrarre dalle macerie una famiglia tedesca, è il prezzo pagato per la “folle” fuga verso la ricerca di una negazione del “prima” (cioè del sé ereditato da famiglia e coté sociale e ideologico), per approdare alla realtà del “dopo”.

Il ceto degli scrittori

Un “dopo” che, con lucidissima introspezione, Lucia/Luce ricostruisce attraverso la narrazione della tormentata ricerca di un equilibrio, nella nuova dimensione di una libertà collettiva e personale che porta con sé, però, l’esclusività eterodossa di una esperienza individuale difficilissima da condividere e far accettare agli altri – v’è poi di mezzo un matrimonio fallito, il ricorso tossico ai medicinali antidolorifici, la maternità. In definitiva, per Luce si spiana un cammino lungo e irto, ma aperto e ricco, verso la maturità, che ha uno sbocco importante nell’approdo all’unico ceto in cui è possibile per lei radicarsi significativamente: quello degli scrittori, magari di certi scrittori, come l’amato e studiato Ignazio Silone, «chiave di volta di un’attenzione per la letteratura che non si separa dal resto del mondo […], anche a costo di dolorose fratture con il suo mondo d’appartenenza» (Pierluigi Battista http://www.archiviolastampa.it/).

Partiranno

Ecco perché il “dopo” di Luce D’Eramo sarà tanto fertile e intenso e le permetterà prima di raccontare la lotta armata degli anni di piombo in Nucleo Zero (1981; Carlo Lizzani ne trasse il film omonimo del 1984); il dramma degli anziani in Ultima luna (1993); l’afasia e la chiusura emotiva dei giovani naziskin di Si prega di non disturbare (1995); il disagio mentale in Una strana fortuna (1997); la vita di una donna che deve fare i conti con un marito prevaricatore in Un’estate difficile, postumo (2001). Senza dimenticare la bella e tenera favola fantascientifica Partiranno (1986), cui l’autrice teneva molto, forse perché un poco si identificava nell’alienità dei gentili e curiosi ET sbarcati sulla Terra.

Immagine: Luce d'Eramo nel 1946.

Crediti: Marco d'Eramo [Public domain], attraverso Wikimedia Commons.