Musica dell’anacoluto

Sarebbe un errore credere che Svevo guadagni qualcosa letto nelle traduzioni. In queste va perduta quella che direi la sclerosi dei suoi personaggi. Svevo vi appare elegante, mentre era faticoso e profondo, invischiato e liberissimo, scrittore di tutti i tempi ma triestino dei suoi difficili anni. Meglio dunque aggiungere qualche virgola, alleggerire qualche anacoluto ma lasciare a Svevo la musica che fu sua». Parole di uno che se ne intendeva, di scrittura: il poeta Eugenio Montale - laureato Nobel nel 1975-, uno dei pochi italiani che intuì per tempo la grandezza di quell’oscuro (allora) autore triestino, il signor Ettore Schmitz, alias Italo Svevo, facendo travedere i fasti ai quali quest’ultimo verrà sollevato soltanto grazie a una complessa triangolazione giocata tra sponde straniere (i buoni servigi critici offerti da James Joyce, Benjamin Crémieux e Valery Larbaud). Ecco che allora, in poche righe, Montale, tanto distante da Svevo per linguaggio, temi e genere di scrittura, sbozza un ritratto scorciato, pacatamente ironico, ma puntuale, nel quale condensa un giudizio rifinito sulla funzionalità espressiva della lingua di Svevo; quello Svevo che di sé stesso, consapevole della propria italianità periferica e della padronanza libresca dell’italiano, diceva che scriveva «male». Suggerisce Montale: non banalizzate Svevo; cari traduttori, non vi sforzate di abbellirne la lingua d’uscita; la prosa di Svevo ha una «musica» che non va tradita, le cui disarmonie interne, le cui sgrammaticature sono solidali con il mondo poetico e con la ratio culturale espressi dai romanzi.

Percorsi in internet (culturale)

La bella frase di Montale si trova incastonata in una felice ricostruzione della vita e delle opere di Italo Svevo, presente nel portale del Ministero per i Beni Culturali (www.internetculturale.it) all’interno del settore "Percorsi culturali" e, dentro questi ultimi, nella sezione "Mostre". Tra le mostre virtuali presenti, si individua un filone dedicato ai grandi della letteratura italiana otto e novecentesca, ai quali, nel corso degli ultimi anni, sono stati dedicati percorsi espositivi reali, spesso itineranti per le biblioteche statali italiane, che hanno avuto efficace trasposizione on line. Il principio che informa e unifica le pagine sfogliabili su Svevo, Manzoni, Gozzano, Ungaretti, D’Annunzio, Pascoli, Calvino, Pirandello, Brancati, Tobino e – sorprendentemente – un Totò poeta è quello di offrire una ricostruzione dell’ambiente culturale (famiglia, relazioni amicali e professionali, incontri, luoghi, letture, composizione della biblioteca domestica) e un corredo di manufatti e di riferimenti (pagine autografe manoscritte, riproduzione di lettere, raffigurazione di luoghi, riproduzione di quadri e fotografie) che aiutino a illuminare il contesto storico in cui operò l’artista e contemporaneamente punteggino di luci più intime l’itinerario biografico, illuminandolo dall’interno. È vero: per chi si attende da questa rubrica pretti riferimenti alle scelte linguistiche e considerazioni sullo stile di questo o quell’autore, le mostre di internetculturale sono avare (fanno eccezione i testi della mostra dedicata a Manzoni, forse perché tra gli estensori c’è un finissimo critico come Dante Isella); ma la consultazione di queste mostre virtuali costituisce un utilissimo (e godibile) introibo all’opera di poeti e scrittori, che può, innanzi tutto, spingere il curioso e il lettore post-scolastico, pigro e arrugginito, a riavvicinarsi ai testi cartacei e dunque alla (ri)scoperta del piacere della lettura di opere spesso appiattite e depauperate dalla coazione scolastica.

Né parlato, né scritto

Sono state scritte vagonate di pagine sull’interferenza di costrutti sintattici tedeschi sull’italiano delle opere di Svevo; sulla tortuosità e "innaturalità" della sua sintassi; sulle zone grigie del lessico; sulle incertezze di grafia; sulla variantistica asistematica. Peraltro, esaurite le polveri dei coevi che spararono su Svevo imputandogli un deficit d’arte a causa del possesso incerto del bello scrivere, tutta la critica moderna ha rilevato, sulla scia dell’intuizione montaliana, l’aderenza tra le mire poetiche dell’autore e gli strumenti linguistico-espressivi in suo possesso e da lui agìti. Ciò che preme sottolineare è l’oggettiva posizione di "libertà" che Svevo si trova ad occupare nel quadro della narrativa italiana del primo Novecento, nel momento in cui si fondano gli istituti di una medietà linguistica a partire dalle esperienze di Pirandello e di Moravia. Dove c’è da scegliere tra simulazione dell’oralità e perseguimento del canone letterario; dove si comincia ad affacciare il problema del rapporto tra dialettalità soggiacente, ancora pulsante e potenzialmente centrifuga da una parte e fedeltà aggiornata del dettato manzoniano dall’altra, lì non troviamo Svevo. Svevo abita un altrove geografico, biografico, psicologico e poetico. Sua necessità assoluta è forgiarsi una lingua adatta al procedere argomentativo e analitico, come ben si vede nell’opera più grande, La coscienza di Zeno. Lingua e stile non contano e non sono considerati in quanto problemi formali autonomi (di là dalle considerazioni chissà quanto realmente autocritiche dello stesso Svevo), ma come veicoli di un ragionar narrando che deve badare esclusivamente a raggiungere i propri obiettivi pseudo-dimostrativi (che, artisticamente, si compiono nell’ambiguità). In Svevo manca qualsiasi preoccupazione di verosimiglianza, sia in direzione dell’oralità simulata, sia in eventuale ossequio alla stereotipa formulistica della tradizione. Come ha notato Enrico Testa nel suo saggio Lo stile semplice, la prova di tale atteggiamento è ricavabile dalla consistenza dei dialoghi, in particolare di quelli contenuti nel terzo capitolo del romanzo, nel quale un isotonismo «tra il formale e il burocratico» uniforma le tre voci di Zeno, del dottor Muli e dell’infermiera Giovanna, annullando «ogni differenziazione linguistica di ruolo sociale» e senza che nessuna eco di oralità scuota le pareti invisibili ma indistruttibili della camera analitica in cui si agitano tre profili psichici a confronto:

Solo non capisco perché lei, invece di cessare ex abrupto di fumare, non si sia risolto di diminuire il numero delle sigarette che fuma.

Già: ella non crede né alla necessità della cura né alla serietà con cui mi vi accingo.

Se lei ci minaccierà, io chiamerò l’infermiere ch’è un uomo forte e, se non venisse subito, la lascerei andare dove vuole perché io non voglio certo rischiare la pelle!

Il primo personaggio a parlare è il dottor Muli, il secondo è Zeno, il terzo è l’infermiera. Ma Svevo, costruendo questa serie atonale, li equipara nella voce. Così facendo, libera il lettore da ogni ingaggio con lo stile e lo lancia dritto nell’anima della "nevrosi" novecentesca.

Immagine: Italo Svevo.

Crediti: fotogramma dal documentario Rai Italo Svevo: ritratto di uno scrittore (1970).