Nei suoi romanzi, Tullio Avoledo riesce sempre a coniugare le istanze di una vena narrativa strabordante, che concede molto alla leggibilità e spesso anche al vero e proprio divertimento, con la ricerca di una rappresentazione non semplicistica della vita. Tale caratteristica è evidente già nella notevole opera prima, L’elenco telefonico di Atlantide (Milano, Sironi, 2003); si tratta di un libro difficilmente classificabile: in oltre 500 pagine vengono alternati o mescolati elementi appartenenti a generi diversi, dal giallo alla distopia, dalla fantarcheologia alla commedia nera. Il titolo, col suo cortocircuito tra l’evocazione di uno scenario mitico e la menzione del tipo testuale più antifiabesco possibile, mette già sull’avviso il lettore riguardo al regime di coincidentia oppositorum che governa il romanzo.

Mostri in condominio

Un elemento positivo che merita di essere segnalato è la propensione ad utilizzare i topoi della narrativa fantastica non a scopo di pura evasione, come spessissimo accade, ma quali strumenti efficaci di disvelamento delle dinamiche sociali ed esistenziali. I contesti in cui vengono messi in scena gli eventi narrati sono in effetti, a seconda di come li si guarda, piattamente ordinari o terribilmente inquietanti; quella attuata da Avoledo è una strategia rappresentativa che si potrebbe definire teratologia del quotidiano. Ricollegandosi ad una tendenza che dagli anni Novanta ha interessato parte della migliore narrativa italiana, l’autore si applica, dimostrando di possedere ad hoc capacità non comuni, alla raffigurazione di ambienti, personaggi e fatti che sarebbe difficile immaginare più banali, presentata però in modo da mettere in risalto il grottesco che si cela in molte cose di tutti i giorni, e che comunemente si tende a non vedere (il punto più alto si ha in un memorabile resoconto di una riunione di condominio, animata da presenze – i vicini di casa – che si stenterebbe a riconoscere come umane).

Si presta ovviamente bene a questa operazione un certo tipo di mondo del lavoro, che può costituire la più potente macchina da alienazione esistente. Il tasso di derealizzazione insito in espressioni comunemente usate negli uffici («Ci siamo trovati d’accordo sul fatto che le incombenze legate alla legge sulla privacy sono gestibili con minori costi e più efficienza in sede centralizzata»: p. 139) non ha nulla da invidiare a quello conseguente a un rapimento da parte degli alieni.

Il protagonista, Giulio Rovedo, lavora come legale in un piccolo istituto bancario: un tempo lo si sarebbe detto un uomo perfettamente integrato, mentre nei primi anni Duemila – e il fenomeno, naturalmente, si è molto accentuato in seguito – può finire con l’essere relegato ai margini della società benestante. Così, non è affatto contraddittorio che un avvocato si trovi impelagato in avventure postmodernamente picaresche: pur istruito e in giacca e cravatta, Giulio attraversa il mondo senza controllare nulla di ciò che gli accade, ed osservando tutto con una sorta di perenne stupore che l’addestramento da funzionario borghese non è riuscito a togliergli.

Aspetti di stile

Dal punto di vista stilistico, la modalità principale di attivazione di quella comicità che appare come uno degli elementi cardinali dell’Elenco è il risultato di un reiterato processo di travestimento: vengono raffigurati realia privi di qualsiasi dignità estetica attraverso una scrittura incongruamente sostenuta. Si tratta di un meccanismo ben collaudato; per citare un precedente (che peraltro non è affatto detto sia tenuto presente da Avoledo), vengono in mente le pompose descrizioni della vita di un impiegatuccio su cui ruotano le Resultanze in merito alla vita e al carattere di Gino Bianchi di Piero Jahier (1915), notevolissimo romanzo che meriterebbe di essere ricordato più di quanto oggi si faccia.

Ecco ad esempio, a poche righe dall’incipit, come viene detto che nel caseggiato in cui vive il protagonista d’estate si soffre terribilmente il caldo: «Nei loro beati e ignari anni sessanta, i progettisti devono aver concepito l’edificio per esseri umani dotati di incredibili capacità di resistenza agli sbalzi termici. Le generazioni condominiali successive, di fibra meno eroica dei primi coloni, si sono via via attrezzate con tecnologie sempre più sofisticate e costose» (p. 9).

Ad un certo punto (p. 296), vengono elencati gli scrittori viventi amati dal protagonista; non si può fare a meno di notare che tra di essi non compare neppure un italiano. La sensazione è che almeno in questo passaggio l’autore si autorappresenti attraverso Giulio: la sua scrittura, nel libro d’esordio come in tutti quelli successivi, non sembrerebbe proprio debitrice di alcun filone della tradizione italiana. A differenza di altri narratori per cui si può dire la stessa cosa, però, Avoledo si dimostra pienamente padrone della lingua: leggendo le sue pagine non si ha mai l’impressione di essere di fronte ad un romanzo straniero tradotto.

Si apprezza in particolar modo la credibilità dei dialoghi, che peraltro si estendono fino a coprire buona parte del romanzo. È nel far parlare direttamente i personaggi che troppi narratori tradiscono la dipendenza da romanzi e film americani, con effetti di involontaria artificialità; viceversa, nei lunghi scambi di battute dell’Elenco risuonano molte voci verosimili, anche perché ben distinguibili l’una dall’altra.

Le avventure di un uomo medio

Ben rappresentato è anche il punto di vista del protagonista, su cui spesso la narrazione è focalizzata. La sostanziale medietas della lingua utilizzata nel romanzo, che anche nei momenti di maggiore creatività si mantiene estranea a qualsiasi forma di espressivismo, è coerente con il livello per nulla straordinario di pensieri e pulsioni che abitano Rovedo.

Appare perfettamente realistico anche il fatto che alla stregua di un qualsiasi giovane colto del Duemila il personaggio possieda un immaginario che attinge dai serbatoi più disparati, dai sottoprodotti del consumismo («A Giulio ricorda uno di quegli animali componibili che quand’era bambino si trovavano nei pacchetti di biscotti Granturchese Colussi. Gli Amici di Gioele»: p. 174), alla letteratura più alta, evocata in maniera a dir poco irriverente («Aprile è il più crudele dei mesi, ma anche febbraio non scherza, se deve prenderti a calci sul muso, si disse Giulio»: p. 243).

Come è naturale, vengono riportati volentieri pensieri incentrati su scene di romanzi o film appartenenti ai generi fantastici: «La luce del sole aggiunge profondità al bosco e fa spiccare i tronchi degli alberi in tutta la loro bellezza tridimensionale, come se dicessero toccaci, non siamo una foto; non siamo un’immagine del ponte ologrammi» (p. 91); «La rara gente che incontra ricorda a Giulio un racconto di Lovecraft. Uomini alti e scheletrici, con sguardi spenti, che spingono carrelli carichi di casse su e giù per i ponti» (p. 325). È anche attraverso questi particolari che viene rappresentato un personaggio credibile alle prese con avventure inverosimili.