Di Silvia Ballestra* è difficile non apprezzare la vis ironica, la capacità di ritrarre in maniera vivida e credibile personaggi, ambienti e situazioni, la sapienza con la quale mescola elementi colti e pop, lo sfruttamento di risorse linguistiche di non comune ricchezza. Nei suoi libri la forza conoscitiva propria della letteratura si sposa con il divertimento allo stato puro, dimostrando la scarsa validità di quelle impostazioni critiche basate sulla rigida settorializzazione. Consistenza letteraria e pacifica leggibilità possono coniugarsi, come dimostrano parecchi scrittori contemporanei: è ciò che Ballestra fa dall’inizio degli anni Novanta, quando i suoi primi libri hanno aperto la strada di quel filone antitradizionale che poi sarebbe stato chiamato – molto impropriamente – narrativa pulp.

«Nobile e popolare al tempo stesso»

Ad un certo punto del suo percorso letterario, Ballestra ha contaminato la rappresentazione tragicomica dei ragazzi di provincia (lei stessa aveva coniato in proposito l’efficace etichetta buriniade) con elementi di riflessione malinconica sulla vita, con l’esplicito intento di non lasciarsi intrappolare nel ruolo di “scrittice giovane”. Il processo appare pienamente compiuto nel romanzo autobiografico Tutto su mia nonna, coerentemente con la definitiva accettazione dello stato adulto (naturalmente presentata in modo scherzoso: sapendo di dover scrivere un libro per «“Stile libero”, che è una collana anche de giovani», la protagonista si vede costretta a constatare, ribattendo alla madre che vuole consolarla: «So’ stile vecchia», p. 56).

Il romanzo, che si può leggere come un Lessico famigliare del Duemila (mentre molto minori appaiono le tangenze col cinema di Almodóvar, evocato dal titolo), prende avvio dalla morte di nonna Fernanda, la cui eredità è oggetto di dispute tra figlie e nipoti, che faticano ad accordarsi sulla divisione, molto più che dei non ingenti beni materiali, di memorie e sentimenti. È il pretesto per rappresentare – non in maniera lineare, ma per sequenze apparentemente casuali di singoli quadri – i fatti salienti di tre generazioni di una famiglia che come tutte ha conosciuto grandi dolori e momenti esilaranti, slanci ideali e piccole meschinità. Molto opportunamente, se il lato comico di persone e accadimenti è fatto emergere attraverso la prediletta figura dell’iperbole, con esiti spesso esilaranti (come ad esempio avviene per il padre, uomo bizzarro, chiamato Norman Bates per la somiglianza caratteriale col protagonista di Psycho), quello triste è tratteggiato con mano leggerissima, evitando accuratamente ogni tentazione di patetismo o peggio di enfasi.

La convivenza di stati d’animo opposti, e conseguentemente degli stili adoperati per renderli, è apertamente indicata dalla voce narrante attivando quella funzione metaletteraria che emerge sempre volentieri nelle opere dell’autrice: «Me devo fa’ veni’ in mente un progetto credibile. Qualcosa che m’incateni il lettore alla pagina e attiri magneticamente la sua attenzione, ma senza ricorre’ a ipnosi o espedienti illegali. Penzàvo a ’na bella storia à la Benigni. Magari me venisse! ’Na storia dove ogni tanto se ride e ogni tanto se piagne. Nobile e popolare al tempo stesso, inzómma. Mista. Stile misto» (pp. 56-57).

Contro l’«italianu mortu»

La citazione appena riportata è utile anche a mostrare la caratteristica linguistica che più salta agli occhi del lettore di Tutto su mia nonna, come del resto di quasi tutti i libri di Ballestra: la presenza di screziature dialettali. Se nella maggior parte dei romanzi e racconti dell’autrice è limitato a forme episodiche o al massimo a singole battute di dialogo, il dialetto in questo romanzo intensifica la sua presenza, e soprattutto appare dettato da motivazioni più profonde. Dall’uso prevalentemente ludico delle prime opere, Ballestra sembra qui passare a qualcosa di diverso. Rimane nettissima, comunque, la sua distanza da qualsiasi tentazione di mimesi di matrice naturalistica, a cui continua ad apparire immune.

Colpisce in particolare il fatto che a parlare in dialetto sia soprattutto la protagonista-narratrice, la quale inoltre procede ad offrire ostentazioni di incultura poco probabili, come in questo brano: «Il Bachtin? Il Bachtin sarà un medicinale. Me pare. Nun è ’n antipiretico? [...] E va be’, s’ho fatto ’n eroretto, e che sarà mai? Me sarò sbajata. Me sarò sbajata, ma che me ne frega? A me la teoria nun me serve. Io devo solo cunsegna’ all’Einaudi ’sto timballo, chiùdeme dentro casa e aspetta’ il parere dell’editore» (p. 142). Abituati all’Ego sconfinato di molti scrittori, passi come questo si leggono con autentico sollievo.

Di tutte le figure che vengono fatte apparire in scena è proprio Silviè (come la chiama la madre) quella più propensa alla regionalità linguistica, ciò che non solo contrasta con la prima Ballestra, ma costituisce un elemento fortemente straniante. Questo imprevedibile procedimento appare peraltro facilmente interpretabile: è come se, nel congedarsi da una persona molto amata, pur con tutti i suoi difetti, la narratrice ne volesse mantenere la vicinanza attraverso l’adozione di lingua e mentalità. Com’è noto, la prima delle fasi dell’elaborazione del lutto, secondo una teoria molto divulgata in particolare da film e serie televisive americane, è la negazione: per fingere che nonna Fernanda sia ancora presente, calarsi nel dialetto può sembrare la soluzione migliore, mentre l’adozione integrale di «tutto ’stu cazzu d’italianu mortu» (p. 141) sancirebbe le distanze incolmabili tra le generazioni.

Mille modi di parlare

Tutto su mia nonna è un romanzo costruito in maniera non lineare, volutamente caotica, assemblando tipi discorsivi differenziati: alla prevalente narrazione di stampo sostanzialmente tradizionale (che può essere svolta adottando i tempi passati ma anche il presente) si alternano infatti lunghe sequenze di dialogo allo stato puro, oltreché lettere e immaginari elaborati da concorso («Dopo la sociologia della comunicazione e la nascita dell’opinione pubblica, il candidato passi, con adatta determinazione, alla disamina di tendenze e percorsi della filosofia estetica contemporanea»: p. 92).

Complessa è la stessa prospettiva discorsiva della protagonista, che quando racconta rinuncia alla stabilità, per servirsi di modalità espressive sempre diverse: a seconda delle pagine si ha la sensazione di essere di fronte ad un romanzo familiare d’antan, ad un trattato sociologico sull’istituto familiare, ad un diario, ad un resoconto fatto a voce (con tanto di informali “appelli al lettore”). Anche le parti dialogate non sono omogenee: se spesso Silvia parla (di persona o al telefono) con la madre, a tratti la si coglie in conversazioni con un personaggio immaginario che pirandellianamente vuole influire sulla sua scrittura. Il vuoto lasciato dalla morte di una persona cara spinge a cercare conforto nelle parole di altri, che poi questi ultimi esistano o no appare secondario.

In un testo in cui ciò che i personaggi dicono conta almeno quanto ciò che fanno, è coerente che sia particolarmente curata la presentazione dei discorsi riportati. Molto ricca è la gamma di verba dicendi, che dànno conto di ogni possibile sfumatura di tono e di registro che accompagna, rafforzandole o magari smentendole, le battute pronunciate (o in alcuni casi solo pensate). Eccone un elenco sommario, scorrendo il quale si noteranno molti verbi non convenzionali come introduttori di discorsi diretti: almanaccare, ammonire, annuire, cantilenare, convenire, gemere, ghignare, grugnire, mugulare, piagnucolare, sentenziare, sillabare, spazientirsi, strepitare, stupire, vaticinare. In parecchie occasioni l’atteggiamento di chi parla è descritto attraverso espressioni modali: «aggiungeva in un sussulto d’onestà» (pp. 25-26); «le si rinfacciava noi figlie, scandalizzate» (p. 26); «bisbigliava in un soffio, guardando circospetta in giro» (p. 35); «proclamava, tonando» (p. 43); «le spiegava nonna Fernanda, il tono à la “già prevedo e già soffro”» (p. 44); «mi dico, smarrita, impotente» (p. 60); «sogghignavamo, sprezzanti e complici» (p. 73): «dice praticamente da dentro un singhiozzo, ospedaliero e gentile quant’altri mai» (p. 85); «ha detto lei, semi strozzata dall’angoscia» (p. 107); «le suggerivo piano, ridacchiando stravolta» (p. 157); «così mi fu detto, e alquanto aspramente» (p. 173).

Si è voluta documentare una caratteristica tecnica importate che però ha poche possibilità di essere notata a prima vista. Più in generale va sottolineato che nella scrittura di Ballestra sono moltissimi i frutti di un sapiente lavoro stilistico che sono tenuti sottotraccia, senza alcuno sfoggio di bravura. La misura di un breve profilo non permette di farne l’inventario: ai lettori più attenti il compito – molto piacevole per chi non è insensibile alla forma – di rintracciarli.

Luigi Matt

(Università di Sassari)

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