Questa è la seconda di quattro puntate di un'indagine volta ad analizzare le caratteristiche della produzione poetica che sceglie la via di Internet. Cliccare qui per leggere la prima puntata.

Fatti e parole, parole e fatti

L’entrata di un vocabolario, secondo Jean e Claude Dubois (Introduction à la lexicographie) «un enunciato in cui il soggetto e/o l’elemento topico è l’entrata di cui il predicato è la definizione», manifesta un doppio statuto: è un termine della lingua − analizzabile secondo procedure linguistiche −  e allo stesso tempo è un «fatto di cultura», ovvero esce dai binari di significante e significato per rinviare a un’analisi antropologica e scientifica. Già stai facendo una smorfia. No, queste cose vanno dette. Ed è bene dirle senza troppe semplificazioni. Perché se il lessema-hashtag #instapoet entra nel Vocabolario Treccani c’è qualcosa di nuovo che significa. Così recita l’incipit: «instapoet (Instapoet) s. m. e f. Chi pubblica i propri componimenti poetici, di solito brevi e accompagnati da immagini, nei siti di relazione sociale in Rete, in particolare Instagram». La prima volta che trovai questa parola sui quotidiani, confesso, scoppiai a ridere. Mi chiesi, a una prima lettura superficiale, perché qualcuno dovrebbe riconoscersi in una etichetta così limitata. Pensiamoci bene. Proprio perché la poesia, già nel suo regime segnico è il suo fuoriuscire, l’oltrepassare il testo e noi stessi, l’idea di sentirsi autore di e per un mezzo social lo trovavo davvero strano. Ma, c’è un ma. Dietro a instapoet avvertivo che si nascondeva un problema molto più serio. Una «categoria» non nasce da sola. Nasce, esattamente come una pianta, se c’è un terreno fertile. Se c’è, come ben evidenzia Matteo Marchesini in Da Pascoli a Busi. Letterati e letteratura in Italia (Quodlibet, 2014) in merito al nostro caso, una «progressiva perdita della capacità di distinguere i poeti veri». Il punto di partenza risiede allora qui, tra la poesia che «non è più indispensabile per capire la nostra cultura» e l’intellettuale che diviene sempre più un manichino spoglio in quella famosa vetrina senza negozio di cui parlavo nella prima puntata. Addirittura, sempre secondo Marchesini, «il poeta italiano non solo è emarginato, ma non è neanche considerato uno scrittore (dei narratori che compongono versi si dice: “scrittore e poeta”, identificando la narrativa con la scrittura tout court)». Ed è inutile che sbuffi, tu che scrivi versi. Quante volte – e mi ci metto anche io – ti è venuto spontaneo presentare qualcuno (o presentare te stesso) in quel modo? Dire semplicemente «poeta» crea, infatti, imbarazzo. Non è una cosa nuova. Non posso e non voglio dimenticarmi di quella riflessione in forma di ricordo che Giovanni Giudici racchiudeva in Andare in Cina a piedi (Ledizioni, 2017). Lo scambio di battute tra il prete curioso di quello «scrivere versi» e il poeta in preda a un senso di colpa cosmico si conclude con una dolorosa sconfitta: «"Ah, versi?! E ha pubblicato?". "Ho pubblicato". Ma non basta. Insiste per sapere se io sia all’altezza di Tizio e Caio e mi fa dei nomi. "Che cosa vuol che le dica", mi difendo». Ma non dovevamo parlare di Instagram? Appunto.

Il riuso non è il retweet

A complicare questa «mutazione genetica» dei poeti e della poesia, che, sempre secondo Marchesini, va ricondotta al periodo successivo agli anni Quaranta, stanno due atteggiamenti, quali la «poeticità privatistica» e «l'autoreferenzialità gergale». Essi non solo hanno confuso i contorni (già) opachi del fare poetico, ma hanno preparato, se così si può dire, il terreno. La poesia, divenendo qualcosa di irriconoscibile, ha “permesso” a certe etichette di manifestarsi. Anche perché, come ovvia risposta di chi crede in un verbo ma non riflette abbastanza sulla contemporaneità e, soprattutto, sul percorso storico che dobbiamo sempre tenere vivo, la poesia doveva essere in ogni caso ancora riconoscibile e percepibile, in un modo diverso, «stilizzato». Ecco che, in circostanze non sospette, a un certo punto compare il fantomatico hashtag, che funge da abito contemporaneo per quei poeti che vogliono proprio definirsi instapoets e per chi, invece, si ritrova, senza saperlo, in un sottobosco davvero surreale. Prima di attraversare il nuovo campo di osservazione del «cos’è un instapoet, cosa fa», restiamo ancora un po’ nel «perché un instapoet». Un perché in più non ha mai fatto male a nessuno, anzi. L’ho chiesto a Guido Catalano, che non si sente affatto tale: «La mia poesia non nasce per il web, la poesia nasce per altro». È vero, in ogni caso, che la sua poesia si «sposa bene con il web». Ma si tratta di una fase successiva di condivisione. Mi racconta che è stato da sempre perseguitato dalle etichette. Anche prima dell’avvento dei social, quando negli anni 2000 spopolavano i primi blog – dimensione prima per la diffusione di un possibile libro – era considerato una webstar. E che quando ha scoperto di essere considerato un instapoet si è domandato cosa significasse davvero quell’«insta»: scrivere poesia «instantanea» o «per Instagram»? Forse tutte e due le cose. E poi, la poesia degli instapoets è altro rispetto alla poesia? Possiamo definirlo un «fenomeno»? Simone Di Biasio coglie l’universo che risiede là, oltre una scelta non meramente lessicale. Non si tratta di una «manifestazione altra» della poesia: le idee degli instapoets «girano attorno a essa vorticosamente, proprio come vorticoso è il movimento della rete, capace di portarti in alto e poi sbatterti di nuovo a terra in brevissimo tempo. Sfruttano l’aura della “poesia” per abbassarne l’aura stessa. Ma mentre la poesia nasce autonomamente come fenomeno (stavolta sì) psico-artistico, l’Instapoetismo nasce come strumento che sfrutta le occasioni di Internet». Siamo, dunque, nella sfera dell’intenzione. È lì, nella volontà di creare a tavolino due o tre righe, a capo, – anche perché, come mi ricorda Di Biasio, «l’andare a capo è spesso una esigenza spaziale da digitale, non una questione ritmica» – che la parola poetica perde qualcosa. Perde, secondo Giovanna Cristina Vivinetto, «la profondità»: questa «poesia d’occasione» che raccoglie like e non condivide, al di fuori dei pixel, una «totalità  in funzione», come invece potrebbe fare, è sì riconoscibile, ma in una nuova prospettiva. È riconoscibile nella sua mancanza. È, sempre secondo la Vivinetto, una «poesia indistinguibile, nel senso che potrebbe essere scritta da chiunque: manca la voce di un Io riconoscibile che evidenzi la sua cultura, i suoi modelli, la sua tanta lettura pregressa (di cui, ovviamente, è carente)». E allora, è chiaro come, in questo universo di fruitori della velocità improvvisata, il riuso sia lasciato in disparte. A titolo informativo, il riuso non è il retweet.

Prima e dopo un’instapoesia

«La poesia sta bene ovunque: sui muri, sulla pagina, sul profilo Instagram della poetessa che non conoscevo ma a cui per fortuna sono arrivata. È un bene, dunque, che stia anche sui social, e non mi fa paura». Martina Germani Riccardi mi fa riflettere su un altro aspetto, che mi/ci permette di arrivare allo stadio di «cos’è un instapoet, cosa fa». Perché Internet, come già evidenziato, non rappresenta un ostacolo alla parola. Rappresenta, piuttosto, un’occasione di sperimentazione. È naturale, per chi è abituato a pensare in versi, associare a una fotografia un verbo poetico. Anzi, forse è dalla fotografia o dall’opera d’arte che può nascere un processo creativo. Lalla Romano, se fosse ancora tra noi, avrebbe un profilo Instagram perfetto. Lei che è riuscita in Lettura di un’immagine (Einaudi, 1975) a spostare la lettura su un altro piano: «le immagini sono il testo e lo scritto un’illustrazione», si legge nella Prefazione. Ma gli esempi sono tantissimi. Dunque, non stupiamoci della grande novità di queste “pratiche social”. È cosa sta prima e dopo la parola-accesso (o parola-eccesso) veicolata dai poeti del web il focus del nostro stupore. Mettiamo per davvero a fuoco la lente. Cos’abbiamo? Un’intenzione, dicevamo, che trasforma il mezzo in fine – «non è l'urgenza di un altro momento» a scatenare la scrittura, sostiene Chiara Mazzetti –, una poesia che può assomigliare a un gioco di parole, e poi? Mi manca cosa c’è dopo. Sì, sono d’accordo con te, che annuisci e sai dove voglio arrivare. E invece non lo sai. Perché è quel “nulla” che sta nella terza posizione, nell’ultima, quella di uscita, di riuso e di storia, che mi permette di vedere l’icona social da un’altra prospettiva. Prova a fare una ricerca con l’hashtag #instapoetry o #instapoet: troverai caos e cose buffe. Troverai, soprattutto, pochissimi oggetti coerenti alla sfera d’azione dell’instapoetismo. Ecco perché, forse, dovremmo chiamarlo «fenomeno», come precisa Giovanna Cristina Vivinetto, nel senso etimologico del greco fainomai, che significa apparire. Se la poesia, secondo il pensiero di Titos Patrikios, che Simone Di Biasio condivide, «cerca risposte a domande non ancora poste», la poesia-che-nasce-per-i-social «a domande nuove risponde sempre allo stesso modo». O forse non risponde. Non risponde perché non può rispondere. È solo un nome vuoto.

Bibliografia

Risorse cartacee

Afribo A., Poesia contemporanea dal 1980 a oggi: storia linguistica italiana, Carocci, Roma, 2007.

Cadioli A.- Decleva E. - Spinazzola V., La mediazione editoriale, Il Saggiatore, Milano, 2000.

Casadei A., Poetiche della creatività. Letteratura e scienze della mente, Bruno Mondadori, Milano, 2011.

Cavallo G. - Chartier R., Storia della lettura, Laterza, Roma-Bari, 1995.

Genna G., Io sono, Il Saggiatore, Milano, 2015.

Marchesini M., Da Pascoli a Busi. Letterati e letteratura in Italia, Quodlibet, Macerata, 2014.

Nancy J., La custodia del senso, EDB, Bologna, 2016.

Immagine: Di Hans Braxmeier [CC0 o CC0], attraverso Wikimedia Commons

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