I due contadini

Dato che la traduzione comincia ad assumere gravi implicazioni storiche, culturali, politiche e religiose a partire dalla diffusione dei vangeli (nell’intreccio tra aramaico [presunto in una fase orale], greco di koinè, latino e, infine, lingue romanze), non sarà fuori luogo spiegare il lavoro del traduttore con una parabola, discorso allegorico ricorrente nell’insegnamento di Gesù, nonché etimo di parola (per antonomasia).

«Un contadino, la cui frutta e verdura godevano di ottima fama nella provincia, si recò al mercato con il suo bel carretto, pieno di cassette di mele, pere, pesche, fichi, pomodori, zucchine, cavolfiori ecc. A metà del tragitto, colto da sonnolenza, decise di sdraiarsi  sotto una quercia a riposare, giusto per pochi minuti. Tuttavia, a causa della grande stanchezza, finì per addormentarsi profondamente.

Passò di lì un altro contadino, i cui affari non andavano affatto bene: i suoi prodotti erano pochi e di mediocre qualità. Appena vide il carretto abbandonato sul ciglio della strada, si guardò intorno, stupito: accortosi che l’agricoltore benestante ronfava sdraiato sull’erba, decise di scambiare le cassette e ripartire subito alla volta del mercato.

Quando il dormiglione si svegliò e tornò al carretto, non ci mise molto a rendersi conto che qualcosa non quadrava: le cassette erano invertite, i fichi erano pochissimi, le mele troppe, le pere scarse; inoltre, provando ad assaggiare, sentì che il sapore era decisamente meno gradevole, a volte orribile.

Quel giorno vendette la roba per un pugno di monete e rincasò infuriato con sé stesso: non si sarebbe mai più addormentato per farsi derubare sotto il naso!»

Come si può facilmente intuire, il primo contadino è l’autore, che porta a vendere il suo testo, ricco e sapido; il secondo, invece, è il traduttore, che sostituisce le parole cercando di salvare i concetti, ma spesso rischia di perdere elementi preziosi (i fichi), di aggiungerne altri in modo arbitrario (le mele), di dare al lettore una qualità scadente anche dal punto di vista stilistico e formale.

Ma tradurre significa rubare? In parte sì, anche se il furto è giustificato per due ragioni: da un lato, far conoscere dei testi a lettori che non potrebbero apprezzarli nella loro veste originaria; dall’altro, offrire un’interpretazione, ovvero condensare nel lavoro traduttivo i risultati di un’intensa attività filologica. Dunque non basta sostituire a caso frutta e verdura: occorre distinguere le mele dalle pere e, se possibile, mantenere le stesse quantità e conservare i sapori. Il ladro-traduttore, in ultima analisi, avverte l’esigenza di non farsi scoprire, in questo senso avvicinandosi alla figura del falsario: non a caso il più bel complimento, per chi traduce i versi di un poeta vivente, è sentirsi dire dall’autore che li avrebbe scritti così se avesse parlato la lingua di arrivo.

In questa sede cercherò di dare alcuni suggerimenti per la resa traduttiva di testi composti in metrica, a partire da esempi concreti in varie lingue, secondo un percorso che andrà da Occidente a Oriente: in questa prima parte, l’inglese americano di Emily Dickinson, lo spagnolo di Gabriel García Lorca, il catalano quattrocentesco di Ausiás March, il francese di Charles Baudelaire; nella seconda, il tedesco di Bertolt Brecht, l’arabo del siriano Nizār Qabbānī, il russo di Pu_š_kin, il cinese della poesia Tang di Li Bai. Alla fine della seconda parte si trarranno alcune conclusioni di ordine metodologico, più che altro proposte linguistiche e stilistiche per conciliare forma e contenuto.

Ancora valida e condivisibile è la seguente riflessione di Umberto Eco: «anche se si accettasse l’idea che la poesia è per definizione intraducibile – e certamente molte poesie lo sono – il testo poetico rimarrebbe come una pietra di paragone per ogni tipo di traduzione, perché rende evidente il fatto che una traduzione può essere considerata veramente soddisfacente solo quando rispetta (in qualche modo da negoziare) anche le sostanze della manifestazione lineare, persino quando si tratta di traduzioni strumentali, utilitaristiche e dunque prive di pretese estetiche» (Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzioni, § 11.5).

Al contempo, occorre evitare l’unilateralità da cui metteva in guardia Schleiermacher, in una memoria letta il 24 giugno 1813 (testo citato da Siri Naargard nella sua rassegna storica di traduttologia):

«Quant’è pure difficile che il traduttore, là dove l’occasione lo richiede, risarcisca imparzialmente e per davvero quello che ha dovuto sottrarre a ognuno e non finisca vittima, sia pure inconsciamente, di un’ostinata unilateralità, dato che la sua propensione è rivolta più a un elemento artistico che a un altro! Se infatti nelle opere d’arte la sua preferenza va al contenuto etico e alla sua trattazione, egli sarà meno in grado di accorgersi dove avrà fatto torto all’aspetto metrico e musicale della forma e, invece di pensare al risarcimento, si accontenterà di una traduzione di questa mirante sempre più al facile e, per così dire, al parafrastico. Se però capita che sia un musico o uno che se ne intende di metrica, il traduttore tenderà a trascurare l’elemento logico per impadronirsi appieno soltanto di quello musicale; e nella misura in cui si smarrisce sempre più in questa unilateralità, egli sarà costretto a lavorare tanto più a lungo quanto con maggiore insoddisfazione, per cui se, nel complesso, si confronta la sua traduzione con l’originale si troverà che, senza accorgersene, egli si è venuto sempre più avvicinando a quella banalità scolastica in cui, oltre al particolare, va perduto anche il tutto; se infatti, per salvare la somiglianza materiale dell’accento e del ritmo, si traduce in una lingua con espressioni pesanti e urtanti quello che in un’altra è reso con levità e naturalezza, è evidente che nei due casi si avrà un’impressione del tutto diversa».

Nonostante la netta contrarietà di Dante («nulla cosa per legame musaico armonizzata si può della sua loquela in altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza ed armonia» [Convivio 1.7]), peraltro condivisa da Jakobson (Aspetti linguistici della traduzione), si devono provare a mettere sui due piatti della bilancia da un lato i «sacrifici» (così li chiameremo, nel senso di perdite negoziate nel nobile compromesso tra significante e significato), dall’altro i «salvataggi» (la conservazione di elementi che rischiano di naufragare in una traduzione poco attenta ai valori formali della poesia e che dovrebbero compensare le perdite), in modo da poter dire, con Benjamin (Il compito del traduttore), alieni da ogni vuoto idealismo, ma consapevoli delle virtù materiali del testo:  «La vera traduzione è trasparente, non copre l’originale, non gli fa ombra, ma lascia cadere tanto più interamente sull’originale, come rafforzata dal suo proprio mezzo, la luce della pura lingua». Non a caso Antoine Berman osserva che «la traduzione è uno dei luoghi dove il platonismo è simultaneamente dimostrato e confutato»: in astratto si vagheggia lo spirito della poesia, ma in concreto si verifica, nel tradurre, quanto il piacere estetico derivi dalla scelta e dalla disposizione delle parole.

Prima di iniziare la rassegna, ringrazio le colleghe di lingue del mio ateneo (Università per Stranieri di Siena) per i preziosi consigli e suggerimenti (ferme restando le eventuali carenze rispetto all’originale, imputabili al sottoscritto): nell’ordine dei testi di questa prima parte, Elisa Ghia (inglese), Beatrice Garzelli (spagnolo), Cèlia Nadal (catalano), Ornella Tajani (francese).

Il vecchio Mosè

Il componimento n° 521 dell’edizione Franklin (The Poems of Emily Dickinson, a cura di R. W. Franklin, 3 voll., Cambridge, The Belknap Press of Harvard University Press, 1998) è datato al 1863 (1862 nell’edizione curata da Thomas Johnson [ivi, 1955]) e presenta, nel manoscritto, alcune varianti a piè di pagina (http://www.edickinson.org/editions/1/image_sets/235793), ai vv. 16 (show supremacy vs prove ability), 21 (Lawful Manor vs Broad Possession), 22 (But titled Him vs ’Twas little), 24 (One vs My); le menziono perché potranno essere incluse (tra parentesi quadre) nella traduzione, come alternative. Al v. 14 la variante marginale In (vs With) sembra valere come correzione, il che porta a considerare le altre in basso meno rispettose della volontà definitiva dell’autrice.

Nelle quartine si alternano, in modo non sistematico, due tipi di versi, che potremmo equiparare al novenario e al settenario: data la differenza sillabica del lessico italiano rispetto a quello inglese, si sceglierà l’endecasillabo per il novenario, cercando di conservare il settenario, che tradizionalmente fa coppia con l’endecasillabo nella canzone. Le rime, anche imperfette, riguardano il secondo e il quarto verso (be:injury, Tribes:Robes, see:Thee).

It always felt to me - a wrong

_
To that Old Moses - done -_

_
To let him see - the Canaan -_

Without the entering -                                          4

And tho’ in soberer moments -

_
No Moses there can be_

_
I’m satisfied - the Romance_

_
In point of injury -                                               8_

Surpasses sharper stated -

_
Of Stephen - or of Paul -_

_
For these - were only put to death -_

_
While God's adroiter will                                    12_

On Moses - seemed to fasten

_
With tantalizing Play_

_
As Boy - should deal with lesser Boy -_

_
To prove ability -                                                16_

The fault - was doubtless Israel's -

_
Myself - had banned the Tribes -_

_
And ushered Grand Old Moses_

_
In Pentateuchal Robes                                        20_

Upon the Broad Possession

_
’Twas little - He should see -_

_
Old Man on Nebo! Late as this -_

_
My justice bleeds - for Thee!                             24_

Sempre mi diede l’effetto - di un torto

Fatto al vecchio - Mosè

Lasciare che vedesse - Canaàn

Senza potervi entrare -                                        4

E anche se a mente sobria -

Nessun Mosè può esserci

Io sono persuasa - che il racconto

Nel punto dell’offesa -                                         8

Le crude pene supera -

Di Stefano - o di Paolo -

Ché questi - furon solo messi a morte –

E il Suo voler, più saggio,                                   12

Su Mosè - sembrò stretto

Con un gioco di Tantalo

Come un ragazzo - con uno più piccolo -

Prova l’abilità -                                                   16                  [Supremazia ostenta]

Colpa - a Israele, certo -

Per me - avrei bandito le tribù -

E accompagnato il gran vecchio Mosè

In vesti da Torah                                                 18                   [Con v.]

Sopra il vasto dominio                                                              [Sulla Terra Promessa]

Poco era - che vedesse -                                                            [Veder fu grazia piccola]

Vecchio sul Nebo! Ancora la giustizia                                      [Un senso di giustizia]

Mia sanguina - per te!                                         24                  [sanguina ancor per te!]

Sacrifici:

  1. il grado comparativo in soberer e sharper;

  2. la sostituzione di God con il possessivo;

  3. il passaggio dall’infinito all’indicativo in To prove > Prova;

  4. la perdita di was al v. 17;

  5. l’enjambement la giustizia / mia, assente nell’originale (v. 24).

Salvataggi:

  1. 15 clausole su 24 (vv. 1, 3, 4, 6-8, 10, 11, 13, 16, 18, 19, 21, 22, 24);

  2. in luogo delle rime, assonanze-consonanze (esserci/offesa, Tantalo/abili), assonanze (Paolo/saggio, vedesse/te) e un’ossitonia paronomastica (tribù/Torah).

L’importanza della solitudine

La canzone di Federico García Lorca sulla solitudine (la prima delle Odas, del 3 luglio 1924 [nell’edizione Newton Compton di Tutte le poesie e tutto il teatro, a cura di Claudio Rendina ed Elena Clementelli, si può leggere una versione anisosillabica in italiano]) è composta da stanze di alessandrini sciolti, che vanno resi con il doppio settenario. A fine verso escarcha (‘brina’) torna due volte (vv. 8 e 21); spicca la rima vida:nascida (vv. 15-17).

Desnuda soledad sin gesto ni palabra,

transparente en el huerto, y untosa por el monte;

soledad silenciosa sin olor ni veleta,

que pesa en los remansos, siempre dormida y sola.

Soledad de lo alto, toda frente y luceros,

como una gran cabeza cortada y palidísima;

redonda soledad que nos deja en las manos

unos lirios suaves de pensativa escarcha.                                     8

En la curva del río te esperé largas horas,

limpio ya de arabescos y de ritmos fugaces.

Tu jardín de violetas nacía sobre el viento

y allí temblabas sola, queriéndote a ti misma.

Yo te he visto cortar el limón de la tarde,

para teñir tus manos dormidas de amarillo,

y en momentos de dulce música de mi vida

te he visto en los rincones, enlutada y pequeña,                         16

pero lejana siempre, vieja y recién nacida.

Inmensa giraluna de fósforo y de plata,

pero lejana siempre, tendida, inaccesible

a la flauta que anhela clavar tu carne obscura.

Mi alma, como una yedra de luz y verde escarcha,

por el muro del día sube lenta a buscarte;

caracoles de plata las estrellas me envuelven,

pero nunca mis dedos hallarán tu perfume.                               24

Sombra, mujer y niño, sirena, lejanía.

Ciso llora en la ruina y Baco en el racimo.

Yo nací para ti, soledad de lo alto;

cuelga una trenza tuya, hasta muro de fuego.

La fuente, la campana y la risa del chopo

cambio por tu frescura continua y delirante,

y el cuerpo de mi niña con la fronda del alba

por tu cuerpo sin carne y tus mimbres inmóviles.                    32

Solitudine nuda, senza gesto o parola,

trasparente nell’orto, e untuosa per il monte;

tacita solitudine senza odore o girandola,

che pesa sugli stagni, sempre dormiente e sola.

Dall’alto solitudine, tutta fronte con astri,

come una grande testa mozzata e pallidissima;

rotonda solitudine che lascia nelle mani

a noi soavi gigli di pensierosa brina.                                       8

Nella curva del fiume ti ho attesa lunghe ore,

già di arabeschi limpido e di ritmi fugaci.

Nasceva il tuo giardino di violette sul vento

e lì tremavi sola, amando te medesima.

Io ti ho visto il limone tagliare della sera

per tingerti le mani assopite di giallo,

e in momenti di musica dolce della mia vita

ti ho vista in un cantuccio, in lutto e piccolina,                    16

però lontana sempre, vecchia e da poco nata.

Immensa giraluna di fosforo e d’argento,

però lontana sempre, distesa, inaccessibile

al flauto che a inchiodarti l’oscura carne anela.

L’anima mia, come edera di luce e verde brina,

per il muro del giorno sale lenta a cercarti;

argentine conchiglie, le stelle mi avviluppano,

ma il tuo profumo mai sfiorerò con le dita.                          24

Ombra, donna e bambino, sirena, lontananza.

In rovina Narciso piange e Bacco nel grappolo.

Io per te sono nato, dall’alto solitudine;

una tua treccia pende, fino a un muro di fuoco.

La fonte, la campana e il sorriso del pioppo

cambio per il tuo fresco continuo e delirante,

e il corpo del mio amore con la fronda dell’alba

per il tuo corpo senza carne e i tuoi giunchi immobili.          32

Sacrifici:

  1. y > con (v. 5);

  2. introduzione di enjambement: nelle mani / a noi (vv. 7-8); interno, senza | carne (v. 32);

  3. mis dedos hallarán > sfiorerò con le dita (v. 24).

Salvataggi:

  1. 29 clausole su 32 (escluse obscura, perfume, alto);

  2. assonanza-consonanza vita/nata per la rima vida/nacida.

Tra Dante e Petrarca

La canzone di Ausiás March Així com cell qui en lo somni es delita, «que solis endecasillabis gaudet esse contexta» («che gode di essere intessuta di soli endecasillabi», secondo la formula del De vulgari eloquentia [2.12.3]), presenta una fronte ABBA e una sirma CDDC. Si tratta di una riflessione paradossale sull’agrodolce contrasto fra passato e presente, in cui ciò che fu appare più vivo di ciò che è grazie all’amore. Se Francesca da Rimini oppone il piacere d’un tempo alla pena eterna («Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / ne la miseria [Inferno 5.121-123]), e la mente di Petrarca è «schiva / di quel che vede e nel passato volta» (Rerum vulgarium fragmenta 124.1-2), March fa interagire i due poli con raffinata introspezione psicologica.

Mi baso sul testo critico fissato da F. Xavier Dilla (Edició crítica del poema d’Ausiás March, Així com cell qui en lo somni es delita, in Edición y anotación de textos. Actas del I Congreso de Jóvenes Filólogos [Coruña, 25-28 settembre 1996], I, Universidade de Coruña, Servizo de Publicacións, 1998, pp. 215-228).

Així com cell qui en lo somni es delita

_
e son delit de foll pensament ve,_

_
ne pren a mi, que el temps passat me té_

_
l’imaginar, que altre bé no hi habita._

_
Sentint estar en aguait ma dolor,_

_
sabent de cert que en ses mans he de jaure,_

_
temps d'avenir en negun bé em pot caure:_

ço que és no res a mi és lo millor.                             8

Del temps passat me trop en gran amor,

_
amant no res, pus és ja tot finit._

D’aquest pensar me sojorn e em delit,

_
mas, quan lo perd, s’esforça ma dolor,_

_
sí com aquell qui és jutjat a mort_

_
e de llong temps la sap e s’aconhorta,_

_
e creure ’l fan que li serà estorta,_

_
el fan morir sens un punt de record.                         16_

Plagués a Déu que mon pensar fos mort

_
e que passàs ma vida en durment!_

_
Malament viu qui té son pensament_

_
per enemic, fent-li d’enuigs report,_

_
e, com lo vol d’algun plaer servir,_

_
li’n pren així com dona ab son infant,_

_
que, si verí li demana plorant,_

_
ha tan poc seny que no el sap contradir.              24_

Fóra millor ma dolor soferir

_
que no mesclar poca part de plaer_

_
entre aquells mals qui em giten de saber_

_
com del pensat plaer me cové eixir._

_
Las, mon delit dolor se converteix,_

_
doble és l’afany aprés d’un poc repòs,_

_
sí co el malalt, que, per un plasent mos,_

_
tot son menjar en dolor se nodreix.                      32_

Com l’ermità, que enyorament no el creix

_
d’aquells amics que havia en lo món,_

_
essent llonc temps que en lloc poblat no fon,_

_
fortuït cas un d’ells li apareix_

_
qui los passats plaers li renovella,_

_
sí que el passat plaer li fa tornar,_

_
mas, com se’n part, l’és forçat congoixar,_

_
lo bé, com fuig, ab grans crits mal apella.            40_

Plena de seny, quan amor és molt vella,

_
absència és lo verme que la gasta,_

_
si fermetat durament no contrasta_

_
en creure poc, si l’envejós consella.                      44_

Così come colui che si diletta

sognando e da follia diletto trae,

m’accade, che il passato occupa il mio

immaginare e altro ben non vi resta.

Sentendo che è in agguato il mio dolore,

certo che finirò nelle sue mani,

di nessun ben può illudermi il domani:

ciò ch’è niente è per me cosa migliore.                   8

Del passato mi trovo in grande amore,

nulla amando, ché tutto è già finito.

Questo pensiero m'è gioia e diletto,

ma, se lo perdo, cresce il mio dolore,

come chi viene condannato a morte

e da tanto lo sa e si conforta,

e gli fan credere alla grazia accolta,

morir lo fanno senza alcun ricordo.                        16

Piacesse a Dio che a me il pensiero morto

fosse e la vita passasse dormendo!

Vive male chi ha il suo pensamento

per nemico (di noie fa rapporto),

e se lo vuol d’alcun piacer servire,

gli accade come a donna col suo infante,

che, se veleno le chiede implorante,

senno ha sì poco che no non sa dire.                        24

Sarebbe meglio il mio dolor soffrire

che non mischiare poco di piacere

tra quei mali che mi fan delirare

se devo dal piacer pensato uscire.

Ahi, il mio diletto in dolor si converte,

doppio affanno è dopo un breve riposo,

come il malato, che per un bel morso

tutto il mangiare in dolor gli si nutre.                       32

E come l’eremita che non nutre

nostalgia degli amici suoi nel mondo,

e, da tempo lontano dal suo borgo,

per puro caso uno di loro incontra

che i piaceri passati rinnovella

sì che il piacere passato ritorna,

ma, come parte, per forza si angoscia,

gridando il ben fuggito male appella.                       40

Piena di senno, quando Amore è un veglio,

è l’assenza quel verme che lo guasta,

se rigida fermezza non contrasta

e creder poco all’invido consiglio.                              44

Sacrifici:

  1. cambio di soggetto: ve > trae; li apareix > incontra; fa tornar > ritorna.

  2. mutamento di connettivi: que altre > e altro; quan lo > se lo; com lo > se lo;

  3. em giten de saber > mi fan delirare.

Salvataggi:

  1. 40 clausole su 44 (escluse , jaure, caure, fon);

  2. 9 coppie di rime, il resto assonanze e/o consonanze (in un caso, rimanti vocalici in iato, trae/mio).

Prosopopea della bellezza

Nella sezione Spleen et Idéal della silloge baudelairiana Les Fleurs du Mal leggiamo un inno alla bellezza (Hymne à la Beauté [XXI]), rappresentata dal poeta come una seduttrice dai connotati ambigui, libera da vincoli morali, insieme attraente e spaventosa.

L’alessandrino va mantenuto, e lo schema ABAB deve trovare un corrispettivo. Il grande scrittore Gesualdo Bufalino si cimentò nella traduzione della raccolta (I fiori del male, Milano, Mondadori, 1983), cedendo ad abusi dovuti alla duplice esigenza del doppio settenario e della corrispondenza rimica (o l’abisso t’esprime [v. 1], piovono senza scelta [v. 3], repentino [v. 6], l’amante sull’amata [v. 17] ecc.).

Viens-tu du ciel profond ou sors-tu de l’abîme,

_
O Beauté ? ton regard, infernal et divin,_

_
Verse confusément le bienfait et le crime,_

_
Et l’on peut pour cela te comparer au vin.                                    4

_

Tu contiens dans ton œil le couchant et l’aurore;

_
Tu répands des parfums comme un soir orageux;_

_
Tes baisers sont un philtre et ta bouche une amphore_

Qui font le héros lâche et l’enfant courageux.                               8

Sors-tu du gouffre noir ou descends-tu des astres?

_
Le Destin charmé suit tes jupons comme un chien;_

_
Tu sèmes au hasard la joie et les désastres,_

_
Et tu gouvernes tout et ne réponds de rien.                                  12

_

Tu marches sur des morts, Beauté, dont tu te moques;

_
De tes bijoux l’Horreur n’est pas le moins charmant,_

_
Et le Meurtre, parmi tes plus chères breloques,_

_
Sur ton ventre orgueilleux danse amoureusement.                      16

_

L’éphémère ébloui vole vers toi, chandelle,

_
Crépite, flambe et dit : Bénissons ce flambeau!_

_
L’amoureux pantelant incliné sur sa belle_

_
A l’air d’un moribond caressant son tombeau.                           20

_

Que tu viennes du ciel ou de l’enfer, qu’importe,

_
O Beauté! monstre énorme, effrayant, ingénu!_

_
Si ton œil, ton souris, ton pied, m’ouvrent la porte_

_
D’un Infini que j’aime et n’ai jamais connu?                              24

_

De Satan ou de Dieu, qu’importe? Ange ou Sirène,

_
Qu’importe, si tu rends, — fée aux yeux de velours,_

_
Rhythme, parfum, lueur, ô mon unique reine ! —_

L’univers moins hideux et les instants moins lourds ?                28

Vieni tu dal profondo del cielo o dall’abisso,

O Bellezza? il tuo sguardo, infernale e divino,

versa confusamente beneficio e delitto,

e ti si può per questo paragonare al vino.                                    4

Nei tuoi occhi contieni il tramonto e l’aurora;

tu diffondi profumi da sera tempestosa;

sono un filtro i tuoi baci, e la tua bocca è un’anfora

che fa l’eroe vile e il bimbo coraggioso.                                       8

Esci da nera gola o discendi dagli astri?

Sedotto, come un cane va il Fato alle tue gonne;

semini per azzardo la gioia e i disastri,

e governi su tutto, e di niente rispondi.                                        12

Cammini sopra i morti, Bellezza, e li canzoni;

fra i tuoi gioielli Orrore non ha grazia minore,

e Omicidio, in mezzo ai tuoi più cari ciondoli,

sul tuo ventre orgoglioso danza pieno d’amore.                        16

La falena abbagliata vola da te, candela,

crepita, avvampa e dice «Benedetta la torcia!».

L’amante con affanno, chino sulla sua bella,

l’aria ha d’un moribondo che accarezza la tomba.                  20

Dal cielo o dall’inferno che tu venga, che importa,

o Bellezza! enorme mostro, tremendo, ingenuo!

se l’occhio, il riso, il piede tuoi m’aprono la porta

a me d’un Infinito che amo e che mai seppi?                          24

Da Satana o da Dio, che importa? O sirena

o angelo, se rendi – fata occhi di velluto,

ritmo, profumo, luce, o mia sola regina! –

l’universo meno orrido, l’istante meno duro?                          28

Sacrifici:

  1. sors-tu, variazione sinonimica di Viens-tu (v. 1);

  2. soppressione dell’articolo determinativo nelle personificazioni di Horreur e Meurtre (vv. 14-15);

  3. ce ‘questa’ > la (v. 18).

Salvataggi:

  1. 25 clausole su 28 (restano fuori chien, rien, charmant);

  2. 4 coppie di rime, 10 di assonanze e/o consonanze.

BIBLIOGRAFIA MINIMA SULLA TRADUZIONE POETICA

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Berman A., La traduzione e la lettera, o l’albergo nella lontananza, trad. di G. Giometti, Macerata, Quodlibet, 2003.

Buffoni F. (a cura di), La traduzione del testo poetico, Milano, Marcos y Marcos, 1989.

Contini G., Di un modo di tradurre, in Id., Esercizi di lettura sopra autori contemporanei con un’appendice su testi non contemporanei,Torino, Einaudi, 1974, pp. 372-379.

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Errante V., La traduzione di poesia ieri e oggi, a cura di Fausto Cercignani ed Emilio Mariano, Milano, Cisalpino, 1993.

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