È bello sapere che l'edizione critica della Ventisettana, cioè la versione dei Promessi Sposi licenziata da Alessandro Manzoni nel 1827 (quella definitiva, del 1840, gli studiosi la chiamano la Quarantana), edita per la Casa del Manzoni, è diretta da un filologo di gran vaglia come Dante Isella, che ha operato sulla scia dell'impostazione di Gianfranco Contini, improntata alla «critica delle varianti», cioè alla ricostruzione comparativa e contrastiva dei processi di intervento, macro e microstilistici e linguistici, messi in atto dallo scrittore durante le diverse fasi di redazione del testo, passando attraverso ripensamenti, pentimenti e correzioni. È bello sapere altresì che da un mese è pronto il primo dei tre volumi dell'edizione, curata da Barbara Colli, Paola Italia e Giulia Raboni: un volume, in due tomi, che riporta, fittamente commentato, il primo abbozzo del capolavoro finale, cioè il Fermo e Lucia, steso tra l'aprile del 1821 e il settembre del 1823 (la Ventisettana occupò Manzoni dal 1824 al '27, e ci fu pure una riscrittura intermedia, una seconda minuta, intitolata Gli Sposi Promessi). È altresì bello che il testo definitivo e l'apparato critico del Fermo e Lucia siano stati presentati nella Biblioteca Braidense di Milano, che conserva la quasi totalità dei manoscritti manzoniani, raccolti nella "Sala Manzoni": proprio la sala in cui dal 1999 ad oggi Isella e le sue collaboratrici hanno lavorato giorno dopo giorno per allestire l'edizione critica. Bello, perché l'insieme dei fatti congiura a dare certezza che, nei luoghi, nello spirito e sotto la cura delle persone giuste il monumento manzoniano esce e uscirà armoniosamente restituito al cimento degli specialisti (gli eziologi della correzione, viene da dire), dei letterati, degli appassionati di don Lisànder e degli amanti della letteratura italiana (anche se la tiratura dell'opera sarà limitata).

Tra dialetto e arcaicità

Parlare del Fermo e Lucia, del testo, dello stile e della lingua non avrebbe molto senso se non si facessero almeno due considerazioni preliminari. La prima, col senno di poi, riguarda il fatto che la prima versione imbozzolata dei Promessi Sposi non soltanto è l'inizio di un cammino di affinamento stilistico: è, in realtà il primo esperimento entro il laboratorio teorico che l'autore doterà a mano a mano, col passare degli anni, di tutti gli strumenti necessari a rinnovare profondamente la lingua letteraria italiana, arrivando a pensare e modellare un complesso espressivo che si proporrà come esempio di lingua scritta viva per tutta la nazione. In questo processo, avrà un peso decisivo l'ampliarsi e il maturare di una concezione della lingua come fatto sociale e non solo privatamente stilistico o più latamente letterario. Numerosi scritti teorici costelleranno la prassi scrittoria manzoniana, segnando i passi di una evoluzione del pensiero linguistico che renderà possibile, con I Promessi Sposi, nella loro versione finale, proporre un modello funzionante di lingua scritta (ma non solo) per l'uso della comunità nazionale nascente. In secondo luogo, tanto per misurare l'ambizione e la portata dell'itinerario seguìto dal Manzoni, bisognerà rendersi conto della situazione sociolinguistica in cui trovava l'Italia nel primo ventennio dell'Ottocento e, dunque, delle difficoltà che si frapponevano al disegno di uno scrittore che anche soltanto si proponesse - come nel caso del Manzoni, nel 1820 - di darsi e di dare alle lettere italiane una lingua e uno stile acconci a un romanzo storico, genere allora in voga all'estero che, frammischiando storia e invenzione, era improntato alla necessità di parlare una lingua «viva e vera» (come quella francese in Francia, ammirata dal Manzoni, che invidiava i suoi colleghi scrittori d'Oltralpe), secondo gli intendimenti della scuola romantica europea. Ebbene, che cosa sentivano intorno a sé le orecchie del Manzoni? Dialetto ovunque o, per restringersi alla sua Milano, diffuso tra le classi medio-alte, il «parlar finito», una sorta di italiano regionale che traduceva, non senza affettazione, il dialetto locale in lingua toscana, cercando insomma qualche concordanza con la lingua espressa dalla regione che, bene o male, aveva trainato la letteratura italiana dai tempi di Dante, Petrarca e Boccaccio. Manzoni non è un purista, ma per muoversi ha soltanto uno stretto corridoio al quale da una parte s'affacciano, riquadrati da vetuste cornici, i lemmi della Crusca, nell'edizione veronese del 1806, da lui tanto accanitamente postillata fino ad averlo «conciato in modo da non lasciarlo vedere» (parole sue); e, dall'altra sta appoggiata alla parete la variopinta stele di Rosetta del Vocabolario milanese-italiano del Cherubini (che, peraltro, per la parte italiana pescava nella Crusca): libri, soltanto libri che citavano altri libri.

«Scrivo male»

Nella seconda introduzione al Fermo e Lucia, scritta a conclusione dell'abbozzo, Manzoni, con onestà autocritica, afferma: «Scrivo male [...] scrivo male a mio dispetto; e se conoscessi il modo di scriver bene, non lascerei certo di porlo in opera». È spietato e analitico quando spiega, a proposito della lingua da lui impiegata, che la sua «dicitura è un composto indigesto di frasi un po' lombarde, un po' toscane, un po' francesi, un po' anche latine; di frasi che non appartengono a nessuna di queste categorie, ma sono cavate per analogia e per estensione o dall'una o dall'altra di esse». Se l'uomo Manzoni non brilla, ai nostri occhi, per simpatia umana (è noto, per esempio, il suo rapporto poco felice con i figli), certo il giovane Manzoni scrittore fa quasi tenerezza quando a piè sospinto inzeppa il suo Fermo di commenti e glosse metalinguistiche sempre un po' sopra le righe:

«La povera Lucia, come nella notte non aveva mai fatto un sonno pieno, e per dirla con un calzante modo milanese, non aveva mai potuto dormire serrato»; «"Cinque e cinque, dieci", rispose il conte. E questa, se mai per caso la nostra storia capitasse alle mani di un lettore ignaro del linguaggio milanese, è una formola comune [...]»; «Era costei nata (come dice il volgo di Lombardia) sotto le tegole del Conte»; «v'era già a quei tempi un forno che sussiste tuttavia, con lo stesso nome, che in toscano viene a dire: forno delle grucce, e nel suo originale milanese è espresso con parole di suono tanto eteroclito e bisbetico che l'alfabeto della lingua italiana non ha il segno per indicarlo»; «"Che pensare? Mi si è coperta la vista", rispose Fermo; un Toscano avrebbe detto: non vedo più lume. E continuò...».

Vediamo l'ultima frase citata, passata sotto la lente d'ingrandimento da Claudio Marazzini. Il Manzoni ricava l'informazione sull'espressione toscana dalla Crusca, sotto la voce Lume, laddove si registra «Non veder lume, vale esser sopraffatto da alcuna passione», con un esempio tratto dal predicatore trecentesco Fra' Giordano da Rivalta: «Sorpresi dalla immensa caligine dell'ira, non vedevano lume». Manzoni avrà poi cercato conferma nel Vocabolario milanese-italiano del Cherubini. Il quale segue, pedissequo, la Crusca: «Quatass la vista. Non veder lume. Essere sopraffatto da alcuna passione». Quatass significa 'coprirsi': ecco come nasce l'espressione artificiosa messa in bocca dal Manzoni al suo Fermo.

Baciocchi e pappolate

Se insistiamo nell'aguzzare lo sguardo, poi, sulla grana della "lombardità" del Fermo, avremo la conferma che le espressioni lombarde prette coonestate dal Manzoni nel tessuto linguistico del romanzo non sono poi moltissime: abbondano piuttosto i lombardismi che trovano riscontro soprattutto nel patrimonio arcaico «comico e popolareggiante del filone burlesco» (Vittorio Coletti): sguaratare 'squadrare con gli occhi', musare 'oziare', sciarrato 'diviso', gagno 'intrigo', pappolata 'fola'. Riferendo questi vocaboli letterariamente popolareggianti al mondo degli umili che animava il Fermo, Manzoni puntava a iniettare una qualche realistica vivezza in situazioni, personaggi e favelle socialmente "basse", secondo il canone tradizionale della partizione dei generi. Anche l'espressione venire oltre (che, dopo la celebre risciacquatura dei panni in Arno, nei Promessi Sposi Manzoni sostituirà con venire fuori), che al grande critico Francesco D'Ovidio sembrò rendere il lombardo vegnì a voltra, in realtà è un recupero libresco, come attesta la Crusca che la registrava con un esempio tratto da Boccaccio. I lombardismi, per dir così ruspanti, sono pochi. Ricordiamo tosa‚ ragazza, inzigare‚ aizzare, sulla bass'ora‚ verso sera, baciocco e martorello‚ sempliciotto, mo'‚ ora. Tutti cadranno nella Quarantana a favore dei corrispettivi fiorentini dell'uso vivo contemporaneo al Manzoni, corrispettivi che poi - come si è visto - sono pienamente italiani.

Romanzo per Tarantino

Tutto ciò detto, la lettura del Fermo e Lucia, reperibile anche nella maneggevole edizione commentata da Lanfranco Caretti (Einaudi, 1971), di là dal merito linguistico-filologico e lasciandoci noi lettori trascinare dal puro diletto, può riservare piacevoli sorprese a chi ama il "romanzesco" alla Walter Scott. Tinte forti, aspri contrasti tra i personaggi, digressioni fantastiche in stile "romantico" rendono il primo Manzoni prosatore più interessante di quanto si possa pensare, nonostante certe lungaggini e alcuni visibili squilibri narrativi. L'episodio di Gertrude (la monaca di Monza), potato decisamente e riscritto nella Quarantana, costituisce qui un romanzo nel romanzo, a suo modo godibilissimo. Le pagine della fine di don Rodrigo nel lazzeretto sono di colorito assai fosco. Anche queste furono tagliate dal Manzoni maturo, ma oggi, dopo tanto pulp a noi contemporaneo, potrebbero essere proficuamente attualizzate da un Quentin Tarantino o da un Mel Gibson all'italiana.

Immagine: Famiglia di pescatori a Lecco sul Lago di Como, dipinto di Ercole Calvi.

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