Il punto di non ritorno nell’evoluzione stilistica di Antonio Pizzuto, il compimento di un’orbita e insieme il collaudo d’una forma proiettata verso gli esiti estremi delle pagelle, è senza dubbio Ravenna. Ma un equivoco letale, generato da un «graecum est, non legitur» non meno inibitivo che irrazionale, ha impedito a selve di commentatori corrivi di riconoscere che il terzo libro del prosatore palermitano, non che inaugurare il periodo detto informale (quello, appunto, delle pagelle: brevi componimenti in sé conclusi, caratterizzati dalla soppressione del verbo ai modi finiti, con conseguente disgregazione di personaggi e vicende), conclude in maniera superba la stagione figurativa avviata con Signorina Rosina nel 1956 e illustrata da Si riparano bambole quattro anni dopo, mai tracimando dagli argini della trasparenza, all’insegna della più godibile leggibilità.

Non già, dunque, una silloge di dati formali, ma un’operazione insieme ambiziosa e semplicissima: la corrosione dei canoni romanzeschi tradizionali attuata - fuori, beninteso, da programmatici avanguardismi o astratte applicazioni di sistema - tramite la messa in forma d’un linguaggio innovativo sentito come necessaria emanazione d’un credo teoretico: l’impossibilità di penetrare l’essenza del reale e di conoscere le cause efficienti dei fenomeni.

L’essere delle cose, sostiene Pizzuto contro il determinismo meccanicistico, non è che l’essere percepito, poiché l’oggetto conosciuto dipende dal soggetto senziente. Se lo spirito è un dato, la materia è un’ipotesi. Il fatto è quindi ridotto a mera illusione, con l’annessa distinzione tra narrare e raccontare: questo consistendo nella mera rappresentazione d’uno svolgersi di eventi; quello componendo l’aporia di «tradurre l’azione in rappresentazioni poiché riconosce che il fatto è un’astrazione».

E siamo al cuore della poetica pizzutiana, incardinata sulla sospensione del giudizio unita al più radicale indeterminismo. Di qui l’atarassia dell’artefice e l’annientamento delle gerarchie, con l’omologazione dei contrarî, o anche solo dei diversi, che ne deriva: il superfluo all’essenziale, il verso alla prosa, l’infinitesimo all’universale. Ma soprattutto l’aulico al quotidiano e l’inanimato all’animato, il cui paritario coesistere è fonte d’un umorismo sufficiente a proteggere la scrittura da ogni estremizzazione espressivistica o barocca. Solo qualche esempio:

«cupido egli nel seguirne in bagnetto […] indi attento alla pesatura prius et post, quatton quattone discreto con la fase galattica»;

«ecco massaie toccatutto traentisi appresso le sporte rotoloni, dibattiti di finanza e giustizia»;

«Alle volte, ben rare, essendo la macchina da scrivere disponibile, Andrea vi brancolava. Per ogni battuta, repentine erigentisi dall’anfiteatro, calavano le dotte leve fulminee a beccare il foglio. Col primo errore quella predestinata subito era addosso alla falsa, accavallamento, l’accorrere della terza, sveglia la quarta, giù quinta sesta settima formando capanna; poi separate da tali a corpo a corpo esse ricadevano umili nei loro alvi»;

«salvia rosmarino mentuccia, aglio tutto trecce fluenti come lei avaiani, cesti, damigianone, panieri, ogni altra georgica omeomeria, carratelli»;

«Già quante firme e firme raccolte via via nel vicinato, tortuose colonne simili a endecasillabi sciolti, con metri minori e alcun quinario»;

«Come un cavallo appena vedutone altro che comincia a correre subito lo imita, là tutti componevano giunti in età».

Il segreto di fabbricazione appare tutt’altro che inafferrabile. Nel brano iniziale, un semplice controllo di peso prima e dopo la nutrizione del lattante diviene «pesatura prius et post», mentre la suzione è definita, con arduo ma insindacabile grecismo, nientemeno che «fase galattica». Nel secondo, le ciance donnesche sull’iniquo carovita si fanno - in virtù d’una transcodificazione massimale - «dibattiti di finanza e giustizia». Nel terzo, una maldestra attività dattilografica si trasforma in un duello di dignità guerriera. Per tacere dei successivi, in cui alcun mero prodotto campestre è classicamente trasfigurato in «georgica omeomeria», o si raffronta una raccolta di firme alle quantità della metrica, o si dà corso a una similitudine di vago sapore virgiliano allo scopo di vivificare, straniandolo, un trivialissimo processo emulativo.

Ed ecco ancora, a tripudio dei più nobili palati, lo spogliatoio «esse est percipi», perché s’illumina aperto per spegnersi chiuso; un ragno tracciar «seni coseni secanti cosecanti nella già esplicita struttura di fili»; stuoli di formiche sfilare «a giubileo» come una lunga teoria di tardi pellegrini; il vicendevole accompagnarsi riaccompagnarsi di Nanni e Fufina quale «infinito processo tesi antitesi divenire, quasi pedestre dialettica in opposto»; le codine dei maialetti apparentate a «esili spirali logaritmiche appena sbozzate fuori polo»; il ditale farsi antropomorficamente «astuto», perché lesto a sparire alla minima distrazione della cucitrice; i pomodori avvinti alle canne «in fila quasi scritture cinesi» e il drappello di galline correre inseguite «mani in tasca» (‘le ali serrate ai fianchi dal terrore’), mentre un’altra bandisce «l’uovo fatto con una stonata marcetta turca».

Passando agli aspetti non diremo più sostanziali, ma certamente di maggior interesse sul piano critico generale, va segnalato che le massime imputazioni mosse a Pizzuto circa Ravenna si coagulano intorno a due ordini di motivi: l’estrema esilità e frammentarietà dell’intreccio e la mancanza di un dramma vero della coscienza, di un senso tragico della Storia. «[L]’impianto musicale della prosa pizzutiana - avvertiva Cesare Segre - dice appunto che lo scrittore non s’è posto in modo critico, giudicante, di fronte alla sua materia […] in modo da riviverla e soffrirla. […] il gioco linguistico di Pizzuto si svolge verticalmente, tra l’osservatore e il mondo osservato, […] e mancandogli solidi appigli in una sofferta attualità è scivolato […] sino a un’impostazione di tipo fidenziano».

La risposta alla prima eccezione è implicita in quanto sopra s’è detto sull’astrattezza del fatto: chi giunge a rinnegare il nesso di causalità dichiarando di cominciare da dove il fatto cessa di avere una validità, e di operare tra le pieghe, sul ritmo, sulla musica, non può non reputare l’intreccio tradizionalmente inteso una griglia artificiale utile solo a trasformare la narrazione in una procedura registrativa, cioè a dire struttura avverso poesia, ritratto contro risonanza interiore. Il filo degli eventi è dunque esposto a continue lacerazioni perché importa non verbalizzare la realtà ma intercettare la vita quando è ancora battente, in divenire, per restituirla al connivente lettore in tutta la sua mutevolezza.

La seconda incolpazione scaturisce da un errore di metodo fra i più perniciosi: quello di chi, non sapendo abdicare al proprio personale sistema d’aspettative per disporsi a un ascolto impregiudicato (auscultazione il felice termine continiano), pretende di commisurare il testo a un modello precostituito, salvo far pollice verso al rilievo della prima discordanza. In virtù di quale legge il narratore deve temprarsi al fuoco sacro della Storia e al suo senso tragico, rivivere e soffrire la materia, rappresentare la società e insieme sottoporla a giudizio, pena l’affondamento nelle sabbie mobili del virtuosismo formale? Si apra Ravenna e in coscienza si dica se una pagina come quella che descrive l’appressamento della morte in Malinda - ma non si finirebbe più di citare - possa meritare un tal marchio:

«Ogni pomeriggio, incipriata, indotto il suo lino pallido, ella si affacciava aspettando figlia e nipote, quest’ultima non più ormai di mani burattine, docili polsi, né in braccio, ma libera, a camminare da sé. Una traversa quieta, poca gente, meno vetture, visi noti, un balcone del primo piano; volti gli occhiali bui al canto, vieppiù che la vista corta avvertivano i mamma, ecco nonna lassù, Pia, salutala, ed incominciava fra ringhiera e dabbasso lo Zapfenstreich. Come diversa Malinda, la capigliatura fondente di colore avventizio, il corpo smussato, le scarse ciglia, quelle gote sansoviniane. Vederla poi priva di terribilità, ma dolce, da non credersi quanto mite, solo nel ricordo la tempra invitta, i fermi occhi asciutti.»

Non c’è forse più dramma, più risentimento, più tensione critica e morale, più senso tragico della Storia in questi sofferti distillati di prosa che in dieci, cento romanzi contemporanei?

Il verdetto è affidato al lettore, insieme al destino del narratore più ingiustamente dimenticato del nostro tempo.

Bibliografia

Antonio Pizzuto, Ravenna, Milano, Lerici, 1962; Firenze, Polistampa, 2002, a cura di Antonio Pane, con una testimonianza di Andrea Camilleri.

Cesare Segre, L’«Hypnopaleoneomachia» di Pizzuto, «Strumenti Critici», i, 3, 1967; poi in Id., I segni e la critica, Torino, Einaudi, 1969, pp. 209-27.

Le puntate precedenti della serie La parola verticale. L’italiano degli autori:

L’Ignoto marinaio di Consolo

L’immagine di copertina riproduce L’immaginazione poetica, opera di Giovanni Fontana. Si ringrazia l’autore per l’autorizzazione alla pubblicazione.