A un quarto di secolo dalla scomparsa di Gesualdo Bufalino resta ancora da sciogliere un dilemma critico capitale: confinarlo - come pare si voglia - nelle secche d’un classicismo fuori stagione, ossia d’una destrezza formale basata sul recupero di materiali aulici e preziosissimi laccati di «grazia e d’armonia», o riconoscere nel suo modo di formare lo statuto d’una scrittura duttile, vitale, capace di conciliare in maniera compiuta le ragioni della letterarietà tradizionale con la compromissione estrema di chi assegna all’arte della parola una funzione taumaturgica, essenzialmente sacrale:

«si scrive per popolare il deserto; per non essere più soli nella voluttà di essere soli; per distrarsi dalla tentazione del niente o almeno procrastinarla. A somiglianza della giovane principessa delle Mille e una Notte, ognuno parla ogni volta per rinviare l’esecuzione, per corrompere il carnefice. […] Ma si scrive anche per dimenticare, per rendere inoffensivo il dolore, biodegradarlo, come si fa coi veleni della chimica. Può essere una vernice, la scrittura, che ci anodizzi i sentimenti e li protegga dalle salsedini della vita» (G. Bufalino, Cere perse, in Id., Opere. 1981-1988, a cura di Francesca Caputo, introd. di Maria Corti, Milano, Bompiani, 1992, pp. 822-23);

«Scrivere come guerriglia contro la solitudine» (Id., Il malpensante. Lunario dell’anno che fu, ivi, p. 1108);

«Ma se proprio devo esibirmi, dirò che scrivere è per me un gesto verso l’interno. Non rifiuta, ma nemmeno esige interlocutori. È un gesto per metà ludico, per metà esorcistico. E scrivo per passatempo, la scrittura per me è un giocattolo che mi distrae dal pensiero della morte, mi fa credere di durare. È una autoterapia. Insomma, scrivo per guarire del vivere o comunque consolarmene» (Id., Essere o riessere. Conversazione con Gesualdo Bufalino, a cura di Paola Gaglianone e Luciano Tas, nota critica di Nunzio Zago, Roma, Òmicron, 1996, p. 8).

Per l’artefice-demiurgo, quindi, la perfezione formale (mai disgiunta, si badi, dalla estetizzazione dell’esperienza personale) rappresenta l’unica via di scampo al male d’esistere. Tanto basti a legittimare l’equazione letterarietà/autenticità o artificio/affabilità comunicativa: questo è il tono Bufalino. Che il calibro del Comisano si misuri, del resto, dalla foggia della stoffa più che dall’ordito, dalla musica anziché dal libretto, dovrebbe essere ormai una nozione definitivamente acquisita: ogni tratto della sua pagina si configura, infatti, come una rivolta contro la normalità grammaticale, un dato che accomuna tutti i grandi prosatori siciliani - si pensi soltanto, per limitarci al secondo Novecento, ad autori come Antonio Pizzuto, Vincenzo Consolo, Stefano D’Arrigo -, i quali, dovendo rapportarsi all’italiano come a una lingua straniera per impiegarla a fini estetici (Bufalino la definisce con la consueta sagacia «una delle patologie dell’insularità»), non possono che attingere ai piani più alti della lingua e della storia letteraria.

«Questa è stata la mia scommessa: combinare il visibilio del lessico alto e i melismi dell’ineffabile con il sentimento di una ironica disperazione. Da ciò l’esigenza di cercare più che il canto fermo il falsetto, il gusto della mise en abyme, in un perpetuo tentativo di convertire ogni emozione in peculiarità dello stile e viceversa. Ho scoperto che fra artifizio e pietà un mio spazio esisteva e che stava a me coltivarlo e farne nascere fiori. Adoperando le armi più capziose della retorica antica e moderna: le criptocitazioni, gli ossimori, il belcanto, l’allitterazione, e tanti altri effetti di retorica che nuovi non sono, ma che a me piace intitolare con nomi di fantasia, mutuati dalle discipline più varie: l’effetto retard, copiato da certe compresse che si sciolgono nelle 24 ore, il piano sequenza, copiato dal cinema, il fiori napoletano e il gioco di compressione dal bridge, il gambetto di re dagli scacchi, il bluff dal poker, lo slow burn da Laurel e Hardy, il canto scat da Armstrong, il non finito da Michelangelo, le punizioni a rientrare dal grande ex numero dieci dell’Inter Mariolino Corso, certe copule di aggettivo con sostantivo dal Kamasutra. Ma si aggiunga anche l’effetto che chiamo Ikebana, cioè l’arte di combinare le parole secondo accordi di grazia e d’armonia, come nell’uso giapponese di disporre i fiori e le foglie» (Essere o riessere, cit., pp. 40-41).

Non meravigli, quindi, che il fulcro d’una struttura compositiva informata meno al contenuto che al cosiddetto significato del significante («Adoperando le armi più capziose della retorica antica e moderna») sia lo scarto dalla comunicazione ordinaria, una programmatica ricerca di differenzialità e inattualità realizzata mediante la rottura dell’ordine linguistico costituito in tutti i suoi connotati:

«Suggerisco innanzi tutto una lettura musicale delle mie cose, un’attenzione al ritmo, alle andature melodiche, alle scansioni ritmiche, ai campi metaforici, alla prosodia nascosta nei meandri del periodo. Con la riserva che i cosiddetti contenuti si riveleranno non astratti né slegati dalla melodia, ma spie di un consistente nucleo sentimentale e morale. In altri termini, se anche i miei eroi gridano e cantano più che parlare, ciò non toglie nulla alla verità della loro pena o passione» (Essere o riessere, cit., p. 39).

Donde l’intolleranza verso ogni forma d’immediatezza e di linearità sintattica, la totale sconfessione dell’ordine linguistico costituito attuata mediante un reciso, sistematico ripudio di strutture e modi non marcati. Mai, però, come vedremo in dettaglio nella seconda parte, tracimando dagli argini della comunicazione e della trasparenza né approdando a risultati d’estremizzazione gratuita o di glorificazione della forma, nella consapevolezza che il ricorso alla tradizione, anche nelle sue linfe più aristocratiche e desuete, non importa necessariamente, come da troppi si crede, l’egemonia dell’involucro sulla sostanza, col conseguente ingresso nel vicolo senza uscita del vuoto retorico esornativo e dell’art pour l’art.

Le puntate precedenti della serie La parola verticale. L’italiano degli autori:

L’Ignoto marinaio di Consolo

L’immagine di copertina riproduce L’immaginazione poetica, opera di Giovanni Fontana. Si ringrazia l’autore per l’autorizzazione alla pubblicazione.

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