A partire dall’ultimo quarto del diciannovesimo secolo, per molti italiani cittadini del nuovo Stato unitario, l’emigrazione (come, diversamente, a qualche decennio di distanza, la Grande Guerra) rappresentò un enorme laboratorio di trasformazione linguistica: un fenomeno che accomunò, nella sua “disunione”, con varie ondate, non solo pressoché tutti i popoli della penisola, ma anche larga parte del bracciantato e della piccola borghesia europea. Quando si studiano le culture dell’emigrazione e il complesso vissuto dei suoi protagonisti, come ha insegnato Abdelmalek Sayad, il punto di vista dell’osservatore è sempre decisivo: considerati dalla penisola a esodo concluso, alla ventina e più di milioni di emigrati italiani del secolo 1876-1976 possono tranquillamente applicarsi le etichette oggi alla moda di un’emigrazione “diasporica”, “globale” e “transnazionale”, tutto sommato di successo; tuttavia, visti sincronicamente dai porti e dalle baracche d’arrivo, nelle destinazioni del Nuovo Mondo, dell’Europa continentale e altrove, gli italiani risultano una delle più numerose componenti, sud-europee, appenniniche e alpine, di un gigantesco travaso di forza-lavoro con cui la dura realtà dei rapporti di forza economici e sociali affermava, in un’epoca di piena industrializzazione, una priorità “dal basso” sugli alti ideali delle patrie e delle nazioni. Ciò non toglie che a New York come a San Paolo, a Parigi, a Stuttgart o nelle miniere del Belgio, si emigrasse (allora come oggi) portandosi dietro anche bagagli identitari, scambiandoli, volenti o nolenti, con le merci reali e simboliche delle culture d’arrivo, e contribuendo al tempo stesso a modificarle.

Anatemi elitisti

Negli ultimi tre decenni, in concomitanza non casuale con l’avvio della massiccia immigrazione in entrata, si è cominciato a studiare con serietà e da una molteplicità di prospettive il mondo estremamente articolato dell’emigrazione italiana. La dimensione culturale ne rappresenta una delle componenti centrali: al suo interno, le dimensioni linguistiche e letterarie meritano un’attenzione particolare, non solo per recuperare il tempo sprecato in anni di anatemi elitisti (da Mario Soldati a Giuseppe Prezzolini ad Alcide De Gasperi, ecc.), ma anche alla luce della loro diversamente sofferta e sbrigliata, tragica e autoironica creatività, coadiuvata da un circuito di produzione e distribuzione (con l’Italia e all’interno delle “colonie”) di tutto rispetto.

Il poeta "rosso" degli operai italoamericani

Già pochi anni dopo la sua fondazione nel 1880, quello che presto diventerà il maggiore quotidiano degli italiani negli Stati Uniti, «Il Progresso Italo-Americano», reclamizza a tutta pagina i titoli della sua «Libreria»: romanzi contemporanei italiani ed europei, classici antichi e italiani, opere di poesia, racconti, varia letteratura e manualistica, dizionari, ecc. Simili iniziative fioriscono, del resto, anche sulle colonne della stampa irlandese, tedesca, yiddish, scandinava, greca, polacca. Il «Progresso», come nel Novecento il «Corriere d’America», può fare affidamento su firme importanti della madrepatria: Ferdinando Fontana, Dario Papa, Luigi Barzini senior. Ma sin da subito si sviluppa un giornalismo autoctono, da cui passano scrittori, teatranti, attivisti sindacali e politici. Sulla costa Est degli Stati Uniti, come a San Francisco e nei centri maggiori di Canada, Brasile e soprattutto Argentina, il panorama della carta stampata è fittissimo di titoli e di iniziative. Giornalismo ed editoria, teatro, cinema e industria discografica promuovono voci e visioni di italiani alle prese con scenari sociali e metropolitani del tutto inediti. Il virtuosistico macchiettista e trasformista campano Eduardo Migliaccio, in arte Farfariello, può raccontare con impagabile comicità un’uscita serale con la ragazza (la “ghella”, girl) a Cunailando, Coney Island. Un’altra presenza irrinunciabile di Little Italy, il calabrese Riccardo Cordiferro (al secolo Alessandro Sisca), compone per il do di petto di Caruso Core ’ngrato (1911), inno lacrimevole della nostalgia e futuro standard della canzone napoletana. Il poeta “rosso” degli operai italoamericani, Arturo Giovannitti, si misura con D’Annunzio elevando un inno non ad una città del silenzio, ma alla metropoli newyorkese, che unisce, nel suo inesausto respiro, gli accenti del Meridione e non solo:

Città senza storia e senza leggende,

città senza eroi e senza monumenti,

senza santuarii e senza fortificazioni,

Città senza porte, aperta a tutti i pedoni,

a tutti i romei del pane e dei pensieri importuni,

Città degli uomini comuni

che mangiano e bevono e dormono

e lavorano e generano senza altre ambizioni,

o Città incredibile, realtà senza visioni,

io ti saluto. (La città incredibile, 1915)

Ma, poiché al tempo stesso si rivolge ad un pubblico più vasto, propone i suoi versi anche in inglese (prendendo le mosse da Whitman), con sensibili modifiche a mano a mano che procede:

City without history and without legends,

City without scaffolds and without monuments,

Ruinless, shrineless, gateless, open to all wayfarers,

To all the carriers of dreams, to all the burden bearers,

To all the seekers for bread and power and forbidden ken,

City of the Common Men,

Who work and eat and breed, without any other ambitions,

O incorruptible Force,

O Reality without visions,

What is between you and me? (New York and I, data incerta)

Tra Dante e l'Italglish

L’immaginario e il lessico danteschi emergono con frequenza, quasi àncora di salvezza nel mezzo della tumultuosa modernità: «Dante, io vorrei che tu scendessi in questa / bolgia feral che ogni altra bolgia avanza, / ove tace di sole ogni speranza / ed il fragore vince ogni tempesta […]» (Simplicio Righi, The Subway, 1924); ma lo stesso autore utilizza all’occorrenza anche il lessico Italglish per fornire un quadro realistico del pericoloso lavoro sui grattacieli: «Vennero i bricchellieri a cento a cento, / tutta una ghenga coi calli alle mani / per far la casa di quattro piani / senza contare il ruffo e il basamento […]» (circa 1926).

Bernardino Ciambelli e il pubblico dei semicolti

Così come le lingue (dialetti inclusi), i registri si alternano, si giustappongono, si intrecciano. Ce n’è, è il caso di dire, per tutti, per tutti gli umori così come per tutti gli orientamenti politici, dall’anarchismo e dal comunismo al nazionalismo ed al fascismo, passando per la più untuosa e folclorica devozione cattolica (ma all’occorrenza anche protestante). Generalizzando, si potrebbe sostenere che per un cinquantennio abbondante, sino alla seconda guerra mondiale, alla koiné dell’italiano popolare messa a fuoco in studi imprescindibili da Hermann Haller corrisponda una veste scritta di “italiano medio”, come ha concluso Pierre-Vincent Ruscher in una serrata analisi della lingua del maggiore romanziere della colonia, il lucchese (o garfagnino) Bernardino Ciambelli (1861-1931) – scrittore sicuramente non sprovveduto che indirizza la sua piuttosto formidabile macchina narrativa d’appendice ad un pubblico di “semicolti”, alzando il tono nel momento stesso in cui esprime uno sguardo solidale:

Il rimorchiatore trascinava con abbastanza velocità la barcaccia; le rive dove sono adagiate le due città New York e Jersey City, apparivano costellate da mille punti luminosi, alla destra giganteggiava il ponte di Brooklyn, la cui sagoma meravigliosa era marcata dai fanali elettrici, a sinistra pareva sorgere dalle acque la gigantesca statua della Libertà, con la sua face elettrica. / La serata era bellissima e l’acqua della baia sotto i raggi della luna appariva come argento in fusione./ I bastimenti ancorati spiccavano sull’acqua e sembravano mostri marini placidamente addormentati sulla superficie dell’oceano. (I Misteri di Mulberry Street, 1893)

Capolavori italiani in lingue diverse

Come ha sintetizzato sin dal titolo Fred Gardaphé in uno studio di riferimento, «segni italiani, strade americane». Alla piena consapevolezza della difficile e traumatica scelta emigratoria corrisponde molto spesso, nelle espressioni scritte, una decisa intenzionalità, che si traduce in aperture metalinguistiche e metaletterarie. Non è infrequente una messa in rilievo della centralità e problematicità dell’uso linguistico in un contesto allofono. E non è dunque un caso che due fra le personalità più forti della letteratura italoamericana del secondo dopoguerra, Giose Rimanelli e Joseph Tusiani, abbiano consegnato al secondo millennio, in decenni di pubblicazioni, un italiano d’oltreoceano ricco di sperimentazioni (Rimanelli), oppure mirabilmente impegnato in un’inesausta opera di traduzione dai classici, dal Duecento al Novecento (Tusiani) – mentre i grandi autori internazionali dell’italiano “in emigrazione”, scrivendo ormai nelle lingue d’arrivo come figli di emigrati, ponevano comunque al centro dei loro romanzi la trasformazione della lingua del "sì", segno di vitale e doloroso travaglio: così nella provincia australiana di Velia Ercole (No Escape, 1932), nella Manhattan di Pietro di Donato (Christ in Concrete, 1939), nella Buenos Aires di Syria Poletti (Gente conmigo, 1961), nei sobborghi di Parigi di François Cavanna (Les Ritals, 1978). Capolavori, questi, visceralmente italiani eppure scritti in lingue diverse, variamente contaminate e “di contatto”, che richiedono un ascolto attento al contesto e lontano da ogni astratta pretesa di purismo.

La serie intitolata Parole, storie e suoni nell'italiano senza frontiere è curata da Gabriella Cartago, coordinatore scientifico del CRC-Centro di Ricerca Coordinata dell’Ateneo di Milano Lingue d’adozione (link).

Le puntate precedenti:

1. Da migra(n)ti a transculturali a Ø di Gabriella Cartago e Franco Fabbri (link)

2. Igiaba Scego, figlia di due lingue madri di Andrea Groppaldi (link)

3. Alida, la par(ab)ola di una guerriera di Andrea Groppaldi (link)

4. Scrittori e scrittrici di madrelingua straniera si raccontano di Lucilla Pizzoli (link)

Immagine: Little Italy

Crediti immagine: Andrea Raimondi [CC BY-SA 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)]