Moriva dieci anni fa il poeta toscano Piero Bigongiari (Navacchio, Pisa, 1914 - Firenze, 1997), esponente dell'ermetismo fiorentino che, sviluppatosi attorno alle riviste «Il Frontespizio», «Campo di Marte» e «Letteratura» tra la metà degli anni Trenta e gli anni Quaranta, rese alte prove poetiche anche con Mario Luzi e Alessandro Parronchi. Gli ermetici fiorentini scintillano di rigore spirituale e ardua esclusività di stile, ricucendo la ferita aperta dalle avanguardie primonovecentesche, esacerbate dall'ansia di palleggiarsi il cuore nero dell'effimero, strappato in petto alla tradizione. Per Luzi e sodali (compresi il Carlo Bo del quasi-manifesto Letteratura come vita e il finissimo traduttore e critico Oreste Macrì), il ponte va gettato indietro, alle sponde degli archetipi simbolisti, per ricomporre un diafano e petroso monumento che nel verso torni a unire suono e significato. La voce dell'ermetismo risuona anche nel Meridione d'Italia, aprendosi «verso soluzioni di sensibilità o d'idillio o di musica», come ebbe poi a scrivere Vittorio Bodini, uno dei suoi maggiori rappresentanti insieme a Leonardo Sinisgalli e Alfonso Gatto. Luciano Anceschi, con sguardo retrospettivo, nella antologia poetica Linea lombarda del '52, da lui curata, riconobbe una punta ermetica anche nelle esperienze "nordiste" maturate intorno alla rivista «Corrente», caratterizzata da «una certa vena illuministica»: qui il poeta più significativo è Vittorio Sereni.

Geometria della logica interiore

Bigongiari è animato da una «smisurata logica interiore per cui tutto, oggetti, sentimenti, passioni viene sottoposto a un confronto geometrico», dice Carlo Bo, che lo conosce bene; e ammette, pur con affetto, che Bigongiari «ha rispettato fino in fondo l'immagine del poeta ermetico [...] al punto di apparire immobile o murato in un gioco che lascia adito soltanto alla tentazione della prova fine a sé stessa e della modulazione». Un giudizio che torna anche in successive analisi critiche: Bigongiari, «il più concettualistico rappresentante del movimento [ermetico, ndR] nella sua fenomenologia fiorentina», rappresenta, secondo Donato Valli, «la fase entropica del simbolo nella storia dell'ermetismo italiano»; più reciso, Stefano Pavarini nota che in Bigongiari «l'obscurisme è programmatico», volto com'è a «trasporre in algidi emblemi metafisici [...] le tappe di una biografia allegorica», con esiti che già dalla raccolta La figlia di Babilonia (1942) si risolvono «nell'oltranza manieristica, nella saturazione retorica del testo».

L'oscurità e l'assenza

Bigongiari, da acuto critico di sé stesso, ha spiegato quale temperie morale e psicologica lo motivò a una così rigorosa «poesia della poetica» (Carlo Ossola). In tempi prima di oppressione politica e poi di angosciante guerra, il poeta s'è trovato a fare i conti con la crescente dismisura tra oggetto e uomo. L'intelligenza non faceva presa sulla realtà. Ogni oggetto perciò di per sé si condensava in simbolo, era «per metà oggettivo e per l'altra metà peccava di un apriori simbolico» (Bigongiari). L'uomo nel suo storicistico determinarsi in rapporto con il tempo, la società e la cultura, come individuo e come ente collettivo, poteva essere salvato soltanto dalla «oscura memoria di un mondo perfetto, non riscontrabile nella realtà» (Donato Valli). La verità non è mai data. Può essere colta solo nel suo farsi come vero nel momento in cui si avvera, platonico riflesso di una perfezione custodita nella memoria oscura.
Ecco allora l'urgere della poetica dell'assenza. Leggiamo Più uno, meno uno:

La poesia che nasce nella tua stanza
è come il frutto delizioso del melarancio,
odo nel ticchettio delle parole
il carosello perduto e melanconico
un notturno riassorbersi d'aconito,
nel tuo slancio d'amore, queste sere.
Non mancan le parole per godere,
mancan le parole per non soffrire.
La farfalla di luce sul candeliere
sugge l'ultima cera, la più calda,
la più molle e volatile, sul fondo.
Come in miasmi di luce, anch'io m'effondo,
non mancan le parole per soffrire
in questa mia stanza di fantasmi.

Come ha notato Maria Luisa Altieri Biagi, è un'epoca della poesia italiana, quella tra le due guerre, in cui ad un certo punto prende a circolare una sorta di aria di famiglia, un «clima tipico» sostanziato dal ricorrere di parole-chiave, di scelte lessicali, da un ribattere di ritmi che, nell'attenzione acuita a una «"parola" [...] estremamente cosciente, carica di cultura», sembrano dare il senso di un colloquio generazionale a più voci. Nel componimento di Bigongiari forte è il tema della sottrazione di senso (stanza di fantasmi), della pienezza di una negatività gnostica (non mancan le parole per soffrire); netto il movimento che va dall'oggetto (la cera, la farfalla di luce - correlativo dell'io poetante) al sentimento (l'effusione poetica, luce di sofferenza) e che infine si concentra nella definizione di una condizione di solitudine affollata di assenze (fantasmi). Si sentono echi montaliani: il definirsi in negativo, il vuoto (l'arduo nulla) delle presenze/assenze, il gioco delle contraddizioni tra luce/vita e buio/nulla (La vita che dà barlumi / è quella che sola tu scorgi. / A lei ti sporgi da questa / finestra che non s'illumina; da In limine, Le occasioni). Anche se, mentre in Montale la luce manca intorno al soggetto, in Bigongiari la luce sta nel soggetto, pur se vanificata nel suo effondersi irrelato. Si noti la elegante scelta del verso ipermetro sia in Montale (... non s'illumina), sia, duplicato, in Bigongiari (in assonanza ... melanconico : ... d'aconito). In Bigongiari spiccano i sottili giochi di parallelismi e antitesi (vv. 7-8; e ancora al v. 13 variazione, sempre con negazione migrante), la rima ricca in contrasto cripto-ossimorico (fondo : m'effondo), la vocale etimologica restituita in riassorbersi, che determina una risalita "quantitativa" dell'accento tonico: esempi di un alto esercizio sul corpo retorico della parola e sull'artisticità ginnica del verso.

Per pochi iniziati

L'arduo cimento stilistico e verbale di Bigongiari conoscerà, a partire da Antimateria (1972), una svolta nel senso di una nuova consapevolezza della condizione in cui si trova il poeta, che ha perso ogni fiducia nella possibilità di relazione con il reale: la poesia diventa realtà in sé, «visibile è il reale, invisibile il vero».

Questa «forma d'altissimo artigianato letterario tendente a realizzare un tipo di lingua riservato a pochi iniziati» (Altieri Biagi), propria di Bigongiari e degli altri ermetici, si sostanzia fondamentalmente nel ricorso all'analogia - elettivamente nelle apposizioni analogiche (Luzi: portici fuggiaschi) - e alla sinestesia (Bigongiari: le tue risa s'iridano al vetro), le quali aggiungono «al sostantivo non una denotazione ma un grumo di affetti in esso contratti» (Altieri Biagi). Inoltre, come ha notato Maurizio Dardano, è costante l'«anomalo uso delle preposizioni» che «produce effetti di indeterminatezza». In particolare, deborda oltre le sue tradizionali funzioni la preposizione a (semplice o articolata), come in ponte che tramonta all'altra riva (Bigongiari); mentre le preposizioni in e di si piegano a criptici usi di locuzioni preposizionali dal valore sintattico aperto, con effetti di metafisica surrealistica (Bigongiari: capogiri / di scale a chiocciola). Chi ha parlato poi di petrarchismo degli ermetici ha inteso forse soprattutto segnalare la predilezione per un lessico astratto e indeterminato. Certo, però, che è ben presente, come scrive Dardano, una propensione per l'aggettivazione densa e rara, sempre giocata tra simbolizzazione e prospezione surrealistica: in Bigongiari il pianto di una cagna è «astruso» (Sonno); il «bel piede» è «delirante» (etimologicamente: 'che esce dal solco') in Egizia; spostandosi dall'aggettivo al verbo, le «bacche [...] chioccano in prati di rame» (Giunchiglia).

Immagine: Piero Bigongiari.

Crediti: Paola Severi Michelangeli [Public domain], attraverso Wikimedia Commons.