La «clownerie filosofica» di Vito Riviello, nato a Potenza nel 1933 e morto a Roma il 18 giugno 2009, sostiene Plinio Perilli, che corredò di note i testi dell’essenziale antologia poetica di Riviello Assurdo e familiare (Manni, Lecce, 1997), apparentò l’intera sua opera comico-giocosa «alla linea burlesco-satirica e antilirica dei Cenne de la Chitarra e Cecco Angiolieri, Berni e il Burchiello, Folengo e il Ruzante, Tassoni e il Basile e Redi. Una linea in sostanza espunta dal ‘canone’ letterario ufficiale, ma invero vitalissima e che ha fiancheggiato le avanguardie novecentesche». Una linea che la cultura accademica, monumentale, ufficiale della poesia italiana ha da sempre emarginato a piè di pagina, appiattendola al livello orizzontale di (scrive sempre Perilli) «giullarata conviviale».

A ciò s’aggiunga che in Riviello, dietro al «legame del comico con la sproporzione, con lo scompenso tra livelli diversi, con la differenza di potenziale» (questa e le successive citazioni da Giulio Ferroni, prefatore di Assurdo e familiare), traspaiono le «arcaiche maschere greco-italiche», l’«enigmatico sorriso apulo del venosino Orazio», l’«humus nero e celeste, cosmopolita e parigino del surrealismo novecentesco» e, perdipiù, l’«ammiccamento verbale e corporeo dell’avanspettacolo meridionale»:

Alloò…

Con chi parle?

Con chi con con

Con con con chi

Con chi?

Vous etez le Con?

Con qui parle…

Ah le Con Qui Parle…

(XXXVII, da Kukulatria, in Assurdo e familiare)

Dove lo mettiamo un poeta che scrive una cosa (tra le tante) come questa, irresistibilmente umoristica, che sembra uscita da uno sketch di Totò (amatissimo da Riviello)? Dov’è collocabile questo Totò dapprima classicamente maccheronico («Con chi parle?»… noi volevòm savuàr…), poi davvero colto, capace di imbastire sul metamorfico cambio di codice (dall’italiano sgangherato al francese mimato e ricostruito) lo sberleffo comico del qui pro quo, finendo col dare del con (‘stronzo’) a chi sta dall’altro capo del telefono, in un’atmosfera di rarefatta surrealtà che distilla atomi di nonsense universale, assurdo e familiare? Molti lo metterebbero, appunto, ai margini, lasciandolo solo, al termine e al di là di ogni avanguardia, neo o post che sia, a giocare col suo preciso e acuto talento di revocatore in dubbio della consistenza delle cose, attraverso il lavoro sul linguaggio. Da solo? Potrebbe anche esser motivo di vanto. Da solo magari sì, ma non in esilio, andrebbe aggiunto.

Il poeta, né burocrate, né bohémienne

Ferroni ricorda un altro tratto dell’alterità di Riviello, la sua nobile, dugentesca «vocazione incoercibile alla scena, alla oralità», che lo collocava naturalmente fuori dei salotti e dei paludati consessi accademici, spingendolo all’empatica tenzone comunicativa con un pubblico co-autore del set recitativo. Rispondendo a Marco Palladini (Dobbiamo oggi dirci “attori di poesia”, «L’Umanità», 10 ottobre 1983 www.retididedalus.it), Riviello si esprimeva così: «Per questo lavoro di interazione col pubblico io credo che i poeti debbano oggi essere definiti “attori di poesia”. Pur senza artifici scenici, le letture si vanno spettacolarizzando nel momento in cui noi rappresentiamo e parliamo dei versi che scriviamo […] significa lottare contro l’oralità appiattita, omogeneizzata dei mass-media a favore di una oralità diversa, sperimentale, che vada a intaccare il testo. E sarebbe ora che all’interno della scuola e delle università si riconoscesse ufficialmente questo ruolo di servizio, di spettacolo dei poeti al di là del trito schema che li vuole o burocrati d’accademia o bohémiennes emarginati».

La poetica della sproporzione

Ha scritto Francesca Bellino, citando una significativa considerazione di Riviello (Scusate, sono momentaneamente assente – Vito Riviello Tribute www.nazioneindiana.com): «[Riviello] assorbiva il contesto sociale sulla sua pelle sentendosene sempre coinvolto e poi lo traduceva con il linguaggio della derisione, del comico, della sorpresa, dell’invenzione […] convinto che questo era “l’unico approccio possibile per difendersi dalla noia, dall’assurda normalità, dalla disperazione, dalla Storia come inganno e dalla sproporzione a cui spesso siamo condannati e della quale siamo testimoni”». Quella sproporzione sta alla radice del comico in Riviello. Come ha notato Ferroni, la sproporzione si annida nella peculiare e fortissima meridionalità di Riviello, che si afferma come scarto tra le attese nate nel mondo provinciale del secondo dopoguerra potentino, «curioso, assetato di cultura, aperto verso orizzonti nazionali e internazionali», ma «continuamente tarpato in questa sua apertura», fino alla sconfitta dell’utopia di Potenza città moderna, ridotta al rango di stazione di partenza per emigranti – ed emigrante fu pure Riviello, che si trasferì a Roma per vivere la sua vita difficile di ulisside. Così il poeta rilegge il suo suddissimo nel 1989 (da Apparizioni), in un componimento tenero e umoristico che ripercuote e varia la parola-totemica sud fino alla sorprendente e amara stretta conclusiva.

Mappa

Più a sud del sud c’è sud

sud e sud, tanto sud che

ancora a sud non c’è che sud

a perdita d’occhio sud

all’infinito sud,

solo alla fine dei sud,

si fa solo per dire,

c’è l’ultimo sud,

il sud più sud che mai

il sud-sud, il suddissimo,

poi c’è il Sud-Africa.

Nella sproporzione radicale tra potenzialità in parte vissute, in parte frustrate, si rivela quella primitiva vis comica che porterà il Riviello «lucano, domestico, piccolo-borghese» (Ferroni) a confrontarsi con l’universo sempre più derealizzato e delocalizzato, transtemporale e fittizio, della moderna, onnipervasiva e performativa, comunicazione contemporanea, flusso miscelato di linguaggi settoriali, luoghi comuni prefabbricati e conformistici, codici stereotipati e posticci suggellati dalla televisione, produttrice della dimensione avvolgente dell’apparire (Apparizioni si intitola, significativamente, una raccolta del 1989).

Ecco come Riviello, armato di percussive epanalessi (fuochino fuochino, acqua acqua: con sarcastico accostamento di gioco infantile a realtà crudele, rivissuta come videogame), figure etimologiche (consumo, consumazione), deformazioni giocose (vedi le parole-macedonia Saddames < Saddam e dames e terrimistificante < terribile e mistificante), mix di lingue, contraffazione risemantizzante di motto celebre («il petrolio / è l’oppio dei popoli»), mette in mostra (exibition) la gelida, inumana mostra televisiva degli orrori della Guerra del Golfo:

Exibition

Saddames et monsieurs

c’est la guerre terrimistificante

fatta alla videogame parterre

d’armi alla vetroresina

di missili espropriati

di rampe semoventi, prendimi

se ti riesce, di bunker… fuochino… fuochino

acqua acqua acquosa,

di colori postmoderni

dei tracciati esplodenti

con qualche ricordo di Warhol,

ma anche di doppia morte e tripla

morti di paura di strazio

delusione morti dinnanzi

alle proprie televisioni.

E Dio sa se il petrolio

è l’oppio dei popoli

ora che il suo consumo

brucia in consumazione.

La fedeltà del dadaista?

Nell’arco di un trentennio, Riviello è sempre rimasto fedele a sé stesso: se si perdono le forme quasi liberty e neocrepuscolari del realismo surreale degli inizi poetici di Città fra paesi del 1955, presentata dal nume lucano Leonardo Sinisgalli, cresce e si accresce la sapienza giocosa dentro la poetica della sproporzione, si fortifica la presenza dell’uomo e dell’artista che sta con la testa e col cuore dentro i propri tempi, si affina lo stile preciso «delle sue acrobazie verbali, […] lo smalto dei suoi calembours e delle sue agudezas» (Giovanni Raboni).

Proprio a Giovanni Raboni, ci segnala il poeta Domenico Adriano (che di Riviello fu amico), si devono parole straordinariamente acute su posizione, senso e valore della poesia di Riviello. Introducendo la raccolta Assurdo e familiare nel 1986 (Empiria, Roma), Raboni afferma la fedeltà di Riviello a sé stesso: come già in Dagherrotipo (1978), egli «mantiene intatta la distanza che lo separa dai luoghi comuni linguistici della tribù; e risulta, oggi, per sua e nostra fortuna, non meno isolato, non meno eccentrico di ieri o dell’altroieri», permanendo nel suo poetare «una vena e […] un’ascendenza dadaista». Nel 2001, a 15 anni di distanza, ecco che cosa scrive Raboni, in una testimonianza inedita, che spicca per onestà intellettuale e finezza, messami amichevolmente a disposizione da Domenico Adriano: «Tanti anni fa ho parlato per lui di dadaismo, e credo che la cosa non gli fosse dispiaciuta; ma adesso, ripensandoci, non sono sicuro di sapere cosa intendessi dire. Forse che, fra tanti avanguardismi ridicolmente anacronistici e pesantemente velleitari, la sua poesia era invece, in virtù della sua specifica leggerezza, davvero all’avanguardia? Chissà. Comunque, se non lo era allora, lo è adesso, essendo rimasta fedele a se stessa mentre tutto, tutt’intorno, arrancava irresistibilmente all’indietro».

Immagine: Vito Riviello.

Crediti: fotogramma da recital di Vito Riviello, 1993 (video di Alberto Riviello).