Enciclopedia novecentesca delle possibilità di una «lingua toscaneggiante per manzonismo e letterariamente levigata», capace anche di includere e assorbire – prosperosa, presuntuosa e vorace – «rari abbassamenti verso il dialetto» (le citazioni da Vittorio Coletti, Storia dell’italiano letterario, Einaudi 1993, pp. 332-333), si erge nei paraggi della seconda metà del secolo come un cippo miliario la prosa statuaria del romanzo Il mulino del Po di Riccardo Bacchelli (Bologna, 1891 – Monza, 1985), ponderoso affresco storico che si dilata attraverso le vicende di tre generazioni di una famiglia di mugnai della Bassa ferrarese (gli Scacerni), dalla ritirata di Napoleone in Russia (1812) fino alla vittoria italiana sul Piave, un secolo dopo, nella Grande Guerra. Il romanzo è in realtà una trilogia e comprende Dio ti salvi (dall’invocazione che Lazzaro Scacerni, il capostipite, scrive sulla macina per invocare la protezione divina), La miseria viene in barca e Mondo vecchio sempre nuovo. La pubblicazione dell’opera parte dal 1938 e si compie giusti 70 anni fa, nel 1940.

L’amato Rossini

Bacchelli, visto oggi, è, come il suo più celebre romanzo, un solido cippo conficcato nella storia letteraria e culturale del Novecento, anche se un po’ eroso per via della discontinua attenzione dei critici. Ha attraversato tutto il secolo, facendosi artiere della letteratura di stile nelle riviste «La voce» e, soprattutto, nell’anti-avanguardistica «La Ronda», e ha pubblicato una quantità notevole di pagine di diverso genere e argomento, dalla poesia lirico-filosofica e concettosa al romanzo storico (si ricordi almeno, oltre al Mulino, Il diavolo al Pontelungo, 1927), dal romanzo d’argomento biblico alla prosa meditativa e fantastica, dalla favola di tono lieve alla narrazione di ambito autobiografico, dai saggi storico-critici a quelli musicologici (la monografia dell’amato Rossini, 1954), dai dialoghi teatrali alle opere radiofoniche ai libretti d’opera (con Nino Rota) http://www.radio.rai.it/.

Mangia e inghiotte e rielabora tutta la tradizione narrativa e di lingua ottocentesca, Bacchelli. Infaticabilmente operoso, è anche uno dei padri del premio letterario Bagutta, là dove lo va a conoscere un giovane Indro Montanelli, colpito in primo luogo dal fatto che lo scrittore «gode di un appetito in proporzione alla sua berniniana corporatura»: per l’appunto, siamo in presenza di un possente divoratore di vita, cibo, parole.

Provvidenza manzoniana

Il mulino è scelto da Bacchelli come simbolo dell’operosità contadina che contende il destino alle mutevoli e infide acque del fiume, pur generatrici di vita (http://www.repubblica.it/). Sotto l’alterna luce di una provvidenza manzoniana che crede nella mai perduta possibilità di riscatto per gli uomini di buona volontà, si svolge la saga degli Scacerni: dal patriarca Lazzaro, nominato erede dal suo capitano morente in Russia, nelle steppe innevate del Vop, dopo la battaglia della Beresina, e costruttore della contrastata fortuna propria e della propria famiglia, incarnata nel mulino, fino all’ultimo rampollo della dinastia, l’adottivo Lazzaro primonovecentesco, che muore al passaggio del Piave, poco prima della fine della guerra. In mezzo, tutta la storia dell’Italia che nasce, l’epopea degli umili (il Quarantotto è visto dalla parte delle popolazioni emiliane di golena, che si vedono private dagli Austriaci dei mulini, trasferiti sulla riva veneta del Po), gli slanci risorgimentali (uno Scacerni, nipote di Lazzaro – e Lazzaro anche lui di primo nome – muore da garibaldino nella battaglia di Mentana), le contrapposizioni tra proprietari terrieri e contadini, la nascita delle prime organizzazioni socialiste: tutto scorre in una fluviale narrazione imbrigliata dalla salda perizia compositiva dell’autore («procede […] come un gran fiume che lentamente e voluminosamente serpeggia in un immenso territorio», Emilio Cecchi), che è ora digressivo filosofo-commentatore, ora sceneggiatore di turgide scene d’appendice.

Le versioni "pop"

Proprio il suo consistere anche in una fitta trama di vicende in cui s’annodano storie individuali e destini collettivi, guerre e passioni, tradimenti e atti di coraggio, sentimentalismi e inflessibilità morali garantisce al Mulino una ricezione vasta e un ampio gradimento popolare, ma soltanto nella “traduzione” in forma di spettacolo cinematografico e televisivo: la stratificazione tematica e linguistica del testo scritto rinuncia a sé stessa per appiattirsi e allargarsi a macchia d’olio sulla superficie confortevole degli schermi. Il film è sceneggiato nel 1948 da Federico Fellini e Tullio Pinelli, la regia è di Alberto Lattuada. Lo sceneggiato televisivo viene diretto da Sandro Bolchi ed è diviso in due serie: la prima va in onda nel 1963 (tra gli interpreti, Raf Vallone, Giulia Lazzarini, Gastone Moschin, Vittorio Sanipoli, Tino Carraro, Corrado Pani, Renzo Montagnani e Ave Ninchi); la seconda nel 1971 (con Ottavia Piccolo, Valeria Moriconi, Ornella Vanoni, Nando Gazzolo, Raoul Grassilli).

Lo stile nominale

Come nota Maurizio Dardano (Leggere i romanzi, Carocci 2008, p. 47) certi moduli tipicamente novecenteschi (per significazione e frequenza d’uso) come lo stile nominale, possono venire piegati a esigenze espressive diverse, a seconda dell’autore che li impieghi. Nel Mulino, scrive Dardano,«così Bacchelli organizza in una salda esposizione lo svolgersi di eventi tra loro connessi», in un crescendo dinamico che parte dalle attualizzazioni temporali (in agostopoi) e ritma la concitazione degli eventi attraverso i nessi sindetici (eee…):

«Grandi novità, infatti, e delle quali l’eco, benché fievole, non poteva mancare d’arrivare spesso anche alla Guarda, erano accadute in Ferrara e nei paesi maggiori del contado: la guardia civica in uniforme turchina con le spalline rosse e l’elmo di cuoio nero guarnito d’ottone e di criniera; tafferugli di questi militi, che gli austriaci chiamavan briganti, col presidio della Fortezza; in agosto la città occupata militarmente, poi restituita agli svizzeri del papa; e la costituzione promulgata dal papa; e voci sempre più insistenti di guerra prossima contro l’Austria; e dimostrazioni, e arrivi di volontari, che furono migliaia, d’ogni parte d’Italia, e riempivano la città, non senza turbolenze».

Il Coniglio mannaro

Con Bacchelli, siamo in presenza di modulazioni novecentesche di architetture testuali, scelte e predilezioni linguistiche e stilistiche ancorate alla tradizione. Si legga questo scorcio, che lega la visione di un particolare del portale del Duomo di Ferrara al trattamento abilmente umoristico del soprannome affibbiato dalla gente a Giuseppe Scacerni, figlio del patriarca Lazzaro:

«… durava un resto della strana fantasia, che all’antico scultore delle porte del duomo di Ferrara ha suggerito tante bestie semiumane e tanti uomini semibestiali; durava, segnatamente, il famoso e secolare spavento dell’uomo lupo. Allora, burlandosi del suo viso di coniglio feroce, la gente soprannominò Giuseppe Scacerni, piacevolmente, Coniglio mannaro; e giuravano ridendo che la notte, invece d’allupare diabolicamente, e di correre per le terre con l’urlo orrendo del lupo mannaro bramoso di sgozzare i viandanti attardati, si doveva accontentare, lui, di inconiglire, con una voce sottile, con uno squittio di “barbastèl”, ossia di pipistrello, ed avventarsi alle galline sviate dal pollaio: Coniglio mannaro».

Nella prosa plastica, ricca di incisi, accorpata in due grandi membrature incardinate sul punto e virgola, spicca il rintocco antifonario dei due ricercati verbi allupare ‘divenire simile a un lupo’ (voce della tradizione comica, attestata nel Burchiello e nel Lippi) e inconiglire ‘divenire simile a un coniglio’ (formazione neologistica da scapigliatura lombarda), mentre l’addensarsi della ricca aggettivazione (orrendo, bramoso, attardato, sottile) s’incarica di aumentare la temperatura espressiva, raffreddata di colpo, in sapiente anticlimax, nel ghigno finale sulle «galline sviate dal pollaio», che gettano una luce irridente e definitiva sullo scolpito epiteto di Coniglio mannaro.

Drammatico, comico, tonitruante, leggero, colto, digressivo, il romanzo-enciclopedia merita di essere riletto anche per pescare nel fiume dei variati accenti che scorrono le tante perle descrittive, scampoli di assoluta maestria di stile:

«Salì sul bastione alberato, e si trovò all’altezza della nebbia, che sulla città stava dileguando, e lì fuori, sul vasto sterpeto e sulle basse boscaglie e sui maligni acquitrini del piano, dai bastioni, fino al Lagoscuro e al Po stagnava uguale, come un immenso lenzuolo».

Immagine: Mulino del Po.

Crediti: fotogramma dal film Il mulino del Po di Alberto Lattuada (1949).