A cent'anni dalla morte di Giovanni Pascoli, un inedito e delizioso dono agli amanti del poeta che apre il Novecento letterario italiano viene dalla pubblicazione di 19 componimenti scelti e tradotti dal grande poeta, critico e teorico francese Yves Bonnefoy. Il libro, curato con attenzione, intelligenza e premura da Chiara Elefante, si intitola semplicemente Bonnefoy traduce Pascoli e si avvale di un CD allegato in cui Bonnefoy interpreta la propria versione in francese e gli attori italiani Angela Baviera (morta precocemente nel 2008) e Gabriele Marchesini rendono in italiano l'originale pascoliano (edizioni Mobydick, Faenza, 2012).

Le onomatopee e il latino

Nella traduzione del sonetto I gattici (1889), Bonnefoy, liberata la macchina poetica dallo schema metrico obbligato, prosciuga quanto v’è di più elegantemente letterario, ma autoconsolatorio, in Pascoli, ovvero il polisindeto finale di forte sapore foscoliano: «i brevi dì che paiono tramonti / infiniti, e il vanire e lo sfiorire, / e i crisantemi, il fiore della morte» diventa «Et le jours brefs semblent sans fin des crépuscules, / Cependant que aleurite puis défleurit / Le chrysanthème d’or, la fleur des morts».

Peraltro, una prospettiva breve, schiacciata sull’evoluzione del linguaggio poetico odierno, rischia di compromettere la comprensione della radicale novità che la parola poetica pascoliana costituì nell’Italia letteraria del suo tempo. Come scrisse Gianfranco Contini (Il linguaggio di Pascoli, conferenza tenuta a San Mauro il 18 dicembre 1955), «Pascoli o trascende il modulo di lingua che ci è noto dalla tradizione letteraria, o resta al di qua: a ogni modo, si tratti di una poesia, se così mi posso esprimere, translinguistica, si tratti di una poesia cislinguistica, siamo di fronte a un fenomeno che esorbita dalla norma». L’onomatopea viene addotta da Contini come primo motivo della sua valutazione, in quanto l’onomatopea è «linguaggio agrammaticale o pregrammaticale, estraneo alla lingua come istituto». Poi, naturalmente – restando sul piano delle scelte lessicali – v’è altro, come l’adozione di una fitta trama di tecnicismi, piegati a intenzioni espressive, evocative del colore locale (la campagna garfagnina). In una fase successiva, v’è la scelta, nei Poemi conviviali, di dare voce alle inquietudini che si muovono nelle profondità dell’uomo, tra psiche e storia, mettendo in risonanza l’italiano poetico con il modello sotteso di un’altra lingua, il latino. L’unicità di Pascoli rispetto alla temperie parnassiana e simbolista, dice Contini, sta nel «fatto che egli esperisca contemporaneamente i due settori: il settore pregrammaticale e il settore grammaticale e post-grammaticale»: fonosimbolismo, lingua letteraria coeva, latino come adstrato cognitivo e linguistico.

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Dopo Petrarca e Leopardi

Fatte queste premesse, risulterà tanto più interessante leggere le versioni in francese di questi 19 componimenti pascoliani rese da Yves Bonnefoy: I gattici, Dall’argine, Paese notturno, Temporale, Maggio, Novembre, Lavandare, Il lampo, Il tuono, Il gelsomino notturno, Fides, Il fanciullo, Tra il dolore e la gioia, Nella nebbia, Orsa maggiore, La civetta, Nebbia, L’ora di Barga, La vertigine. Interessante perché il poeta francese – traduttore di Petrarca e Leopardi, tra i sommi italiani – si avvicina per la prima volta a quel Pascoli che la cultura d’oltralpe novecentesca ha sostanzialmente trattato come figura di secondo piano, complici l'ideologica svalutazione marinettiana sulla piazza parigina (sopravvenuta alla prima, troppo entusiastica esaltazione in un ambiente ammaliato dalla sensualità decadente dannunziana) e la successiva riduzione del poeta romagnolo a una scipita dimensione di poeta intimista, domestico e patetico da parte dell'establishment letterario francese.

Bonnefoy attiva i filtri della propria poetica, com’è ovvio che faccia un serio traduttore, ma si muove anche contro la tradizione interpretativa impostasi in patria, scegliendo con ponderazione il proprio Pascoli da restituire nella propria lingua. Come scrive la curatrice del volume, Chiara Elefante, «la selezione […] ha comportato la totale esclusione delle poesie storico-politiche così come di quelle che alludono in maniera evidente al dramma famigliare del poeta, o di quelle che esprimono in forma enfatica, e talvolta plateale, una certa tendenza al patetico» (p. 8).

La vocazione alla trasparenza

Il grimaldello interpretativo di Bonnefoy traduttore è lo stesso che opera nel Bonnefoy poeta: la trasparenza. Le sue scelte sono «tese a rendere alla poesia pascoliana la qualità concreta che la percorre, e che stilemi francesi troppo astratti o convenzionali rischierebbero di velare» (Elefante, p. 15). Ha dichiarato lo stesso Bonnefoy, a partire dal suo lavoro traduttorio su Leopardi, che le parole francesi «non hanno – come "montagna" o "mare" o "silenzio" o "immensità" – quella ricchezza sonora che è pari a quella del mondo sensibile (...) Là ove l'italiano è concreto, nei suoi versi, e rimane nel respiro della vita, in francese v'è un passaggio all'idea, un distrarsi dall'ascolto verso gli orli della significazione».

Il tuono e la culla

Bonnefoy è poeta fenomenologo: «La poesia auspicata da Bonnefoy chiede la rinuncia alla parola del “moi”, che resta irriducibilmente un'esperienza esclusiva dell'autore, non condivisibile da altri. Quel che caratterizza questa poesia è la voce del “je”, che deriva da una consapevolezza di sé e dei propri limiti, e dall'assunzione da parte del soggetto di un ruolo attivo e responsabile» (Lorena Zaccagnino). Un ruolo che consiste nel confronto costante col mondo. Spogliato l’io, sulla pagina e nel pensiero, di ogni individualismo narcisistico, Bonnefoy non si butta, però, sui frutti più noti delle myricae, cioè sul rigoglio fonosimbolico e onomatopeico. Ne coglie l'importanza e la sostanza, certo, così come apprezza la marcata movimentazione sintattica del verso. Di questi due elementi, però, bada a catturare l’aura (musicalità, ritmo, sonorità), ricercandola nei componimenti in cui Pascoli illumina apparizioni di oggetti o fenomeni naturali nella linearità quasi atemporale della paratassi. Qui, dice Elefante, Bonnefoy concentra la sua attenzione, «tentando di cogliere, nella temporalità traduttiva, che sempre associa l’istante dell’intuizione alla durata della ricerca, la velocità e la prontezza dell’evento poeticamente figurato» (p. 9). L’effetto, in francese, è come di fotografia, e mira a sottolineare il «rapporto di Pascoli con l’hic et nunc dell’esistenza, con la sua accentuata finitudine, che non inibisce tuttavia l’anelito a una qualche forma di trascendenza» (ibid.).

A questo fine, nel complesso e delicato gioco che si instaura tra il traduttore e il testo di partenza, può succedere che Bonnefoy introduca modifiche mirate, come accade nei versi finali de Il tuono (1900): «[...] Soave allora un canto / S'udì di sua madre, e il moto di una culla» diventa «Qu'entendit-on alors? Chantonner, tendrement, / Une mère, et le bruit du berceau balancé». Al rovinìo di fonemi vibranti che riproduce la cinetica dell'atmosfera («rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo», v. 3), Bonnefoy fa seguire lo scarico a terra della tensione accumulata, attraverso due espedienti: 1) il ricorso prima a una cantilena di suoni nasali e poi al fonema [b] in allitterante lallazione; 2) l'aggiunta di una domanda che, assente in italiano, «tende a creare complicità tra la voce poetica e il lettore» (Elefante, p. 13).

Leopardismo depurato

Non sempre tutto scorre liscio, come sottolinea Chiara Elefante. Il cimento con Pascoli si complica con il doppio incrocio tra Pascoli che presuppone (e cita) Leopardi e Bonnefoy che, amante e traduttore di Leopardi, deve fare i conti col Leopardi percolato nei versi di Pascoli. La curatrice coglie con acutezza il risultato di questa tensione contraddittoria, quasi sofferta, e individua le scelte radicali di Bonnefoy, che preferisce abbandonare Pascoli e viaggiare per conto proprio quando questi (come accade in Nella nebbia, 1897) è «troppo esplicito» nel «rimando a stilemi leopardiani».

Peraltro, Bonnefoy s'illumina anche come poeta, oltre che come traduttore, quando s'imbatte in componimenti come Fides (1890), che gli ricorda – per sua stessa ammissione alla curatrice del libro nel corso di un importante scambio di e-pistole –, le atmosfere e i temi de L'heure présente, permettendogli di istituire un dialogo più profondo e fecondo, in grado sia di illuminare zone nuove del testo pascoliano, sia di retroagire sulla propria riflessione metapoetica, non senza che il lettore tragga vantaggio da questa corrispondenza d'intellettuali e spirituali sensi.

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