Nel novero delle molte canzoni partigiane, Bella ciao è la meno di parte, la meno divisiva e la meno violenta di tutte: nomina un invasore e non ne fa, nell’occasione, un nemico, ma una minaccia; evoca un partigiano e non ne fa un uomo in armi, ma un individuo che ha la certezza di morire.
Eppure, nonostante l’assenza di qualsiasi forma di incitamento alla violenza, Bella ciao genera, come ha scritto Moni Ovadia, un rifiuto totale «in fascisti e in reazionari sotto qualsiasi travestimento si presentino», oppure provoca fastidio «in quei sedicenti moderati che non vogliono essere messi di fronte a certe scelte fondamentali». Decida chi legge se collocare o non collocare in una di queste tre categorie un esponente politico che nel dicembre del 2018, informato del fatto che nella scuola frequentata dalla figlia la recita natalizia, nell’occasione dedicata alla Costituzione, prevedeva che i bambini cantassero anche Bella ciao, si è scagliato contro l’iniziativa dichiarando testualmente: «Non consentirò in alcun modo a mia figlia minorenne di cantare una canzone che evoca uno dei momenti più bui della storia d’Italia, scritta da vigliacchi senza divisa che sparavano alle spalle ai veri soldati italiani». In séguito, il sottoscrittore di questa dichiarazione l’ha in parte ritrattata. Ha fatto bene, perché qualificare i partigiani «vigliacchi senza divisa» e i repubblichini i soli «veri soldati italiani» oltrepassa, nello spirito e nella lettera, uno dei limiti etici, oltre che giuridici, stabiliti dalla nostra Costituzione. Poiché a infrangerlo è stato un cittadino di quella Napoli alla quale le Quattro giornate comprese fra il 27 e il 30 settembre del 1943 valsero una medaglia d’oro al valor militare, al fiore del partigiano morto per la libertà voglio accostare un altro fiore; un fiore napoletano verace, si direbbe da quelle parti: quella Ginestra che Giacomo Leopardi vide sulle pendici del Vesuvio dalla terrazza di villa Ferrigni di Torre del Greco, dove era andato a vivere nell’aprile del 1836, in un giorno di quello che per noi è il mese della Liberazione. La «lenta» (cioè ‘flessibile’, se non addirittura ‘flessuosa’) ginestra – canta Giacomo – soccomberà ancora, come ha fatto da che se ne ha memoria, dinanzi alla furia del Vesuvio; piegherà ancora il suo capo innocente quando il fiume di lava che ora scorre sotterraneo la inonderà per l’ennesima volta. Lo farà senza opporre resistenza, è vero; ma anche senza rivolgere suppliche inutili e codarde alla Natura che avrà armato il vulcano contro di lei. Con quell’immagine, Leopardi intendeva riferirsi polemicamente non a un nemico uomo, come può essere un invasore, ma a un nemico dell’uomo: quella Natura che lui, razionalista e materialista, considerava matrigna e che invece le filosofie dominanti del tempo, ottimiste e provvidenzialiste, consideravano madre benigna. Ma chi rimanga ancorato alla lettera di questi versi ha tutto il diritto di farli proseguire immaginando che sulle pendici di quel Vesuvio smisurato che è il mondo, ogni volta che uno sterminio distruggerà uomini e ginestre, ci saranno altre ginestre capaci di rinascere e altri uomini capaci di ricostruire.
Riferimenti
Bella ciao de Il Nuovo Canzoniere Italiano, opuscolo a cura di Roberto Leydi e Filippo Crivelli, la Grafica Cremonese, prima edizione 1964, ristampa 1974.
Giacomo Leopardi, Canti. Edizione critica diretta da Franco Gavazzeni a cura di Cristiano Animosi, Franco Gavazzeni, Paola Italia, Maria Maddalena Lombardi, Federica Lucchesini, Rossano Pestarino, Sara Rosini, Firenze, Accademia della Crusca, 2009.
Carlo Pestelli, Bella ciao. La canzone della libertà. Prefazione di Moni Ovadia, Torino, add Editore, 2016.
Immagine: Torino, 6 maggio 1945. Sfilata della liberazione in piazza Vittorio Veneto
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