Il sardonico Darth Sidious, tiranno della Galassia nella trilogia originale di Star Wars, diceva che il lato oscuro della Forza, ancorché ritenuto potere innaturale, è la via per dimostrare molte capacità.

Proprio come “il lato in ombra dell’italiano”, propulsore di quell’evoluzione diacronica indispensabile al processo di rinnovamento linguistico.

Infatti l’italiano che oggi noi tutti parliamo, scriviamo e digitiamo ha radici lontane e ammicca alle sue origini, benché una sua parte consistente sia andata perduta, soppressa o sostituita, “per ragioni sociali, culturali, di costume o di prestigio”.

Vittorio Coletti, a lungo ordinario di storia della lingua italiana presso l’Ateneo genovese e membro di spicco dell’Accademia della Crusca, ci racconta con garbata erudizione la reattività della lingua, mutevole e funzionale, nel suo L’italiano scomparso. Grammatica della lingua che non c’è più (Bologna, Il Mulino, 2018).

Il testo è un viaggio lungo e meditato, generoso d’esempi, curiosità e termini desueti all’interno dei vari mutamenti che, nel tempo, hanno cambiato i connotati all’italiano; la lingua, è noto, racconta la sua storia tanto attraverso le novità e gli acquisti quanto – nella medesima misura – tramite le perdite e gli abbandoni, come in un continuo saliscendi che imbarca il nuovo ed espelle il vecchio.

Abbiamo chiesto a Vittorio Coletti di tratteggiare le linee guida del suo studio: quanto segue è l’esito di una chiacchierata ad ampio raggio sullo stato di salute della lingua del sì.

Lo scriveva anche il De Sanctis, che la lingua è un organismo vivo, sempre avido di nutrizione o d’assimilazione; di certo essa è tutt’altro che immutabile, crederlo sarebbe un abbaglio. Ora, in questo suo camaleontico movimento, la lingua sa dimostrarsi concreta e pragmatica, come il naufrago che lotta per la sopravvivenza. Professor Coletti, che cosa è rimasto dell’idioma d’un tempo nel DNA dell’italiano contemporaneo?

Moltissimo, sia come parole sia e soprattutto come motore, cioè parole che svolgono funzioni di raccordo e costruzione (articoli, preposizioni ecc.). Non di meno, non è poco neppure quello che col tempo si è perduto o si è modificato: sono scomparsi il giustacuore, l’articolo el e la congiunzione conciossiacosaché, il gerundio con preposizione, tanto per fare qualche esempio.

La chimera di una lingua perfetta, tanto nei costrutti morfo-sintattici quanto nelle scelte lessicali (lo scriveva con acume Umberto Eco), da sempre ha ossessionato ogni cultura; del resto ipotizzare l’esistenza di “universali linguistici”, ossia regole granitiche e soggiacenti alla formazione di ogni lingua naturale, è operazione affascinante, ma poco ancorata alla realtà, dal momento che occorre sempre fare i conti con il magmatico cambiamento che ogni idioma palesa nel corso della sua storia. Pensiamo per esempio al lessico, che continuamente acquista nuove occorrenze e ne elimina altre. Parole, espressioni idiomatiche, costrutti: continuamente appaiono e scompaiono. Secondo uno schema prestabilito?

No, non c’è uno schema prestabilito, ma ci sono due forze che agiscono a seconda dei casi: 1) la cultura, che fa cadere una parola perché è caduta la cosa (i trabocchi, una specie di catapulta…), o si è modificato il suo significato (ragione aveva e oggi non ha più anche il significato di ‘conto’, visibile però ancora in ragioniere) o la sua forma (dimanda/ domanda); 2) il sistema, che agisce secondo regole di funzionalità, economia, regolarità ecc. (“io ero” che sostituisce “io era” per analogia con l’uscita in -o della prima persona del presente; la potatura dei troppi sinonimi corradicali, tipo: accusa accusazione accusamento) e risente della codificazione grammaticale imposta dall’uso scritto e colto (scompare la paraipotassi, cioè la costruzione contemporaneamente subordinativa e coordinativa di due frasi: “se io parto e tu torni”).

La parola è storia, fervida testimonianza di fatti sociali e culturali. L’evoluzione linguistica non può che esser messa in rapporto con la parallela evoluzione della società, dei suoi usi e dei suoi costumi. Ben lo ha spiegato Cesare Beccaria. Professor Coletti, è vero dunque che l’italiano scomparso ci ricorda che, di là da certi ambiti d’uso, la lingua si riassetta e si riconverte?

Non c’è dubbio. I cambiamenti sociali sono o diventano anche cambiamenti linguistici, soprattutto nel lessico (si pensi ai nomi delle parti o dei componenti di un’automobile, nomi antichi che assumono significati nuovi come frizione o volante o baule…, o nomi nuovi per oggetti nuovi: cruscotto, tergicristallo, tachimetro…). La lingua si risistema continuamente, sia nel vocabolario (maggioranza oggi vale superiorità numerica, non morale) sia nella grammatica (in passato si diceva “lo ti dico” poi è prevalso “te lo dico”, anteponendo il tratto più differenziale, che è quello della persona).

Parliamo ora di grammatica, termine certo polisemico, ma riconducibile al funzionamento della lingua o, se vogliamo, alla riflessione che si fa sugli usi della lingua. Quali sono pertanto il ruolo e la portata della grammatica esplicita all’interno dell’evoluzione diacronica d’ogni sistema linguistico?

La grammatica non si limita a descrivere la lingua, ne condiziona col tempo anche il funzionamento, sia conservando istituti che l’uso accantonerebbe volentieri (l’opposizione gli/le) sia innovandone altri in precedenza implicitamente ammessi (il gerundio preposizionale è stato emarginato dalla grammatica nel Rinascimento) sia rallentando evoluzioni funzionali (la riduzione del congiuntivo dopo verbi di opinione).

Ogni storia linguistica, è noto, viaggia su due dimensioni: quella scritta e quella parlata. L’italiano, nel tempo, a partire dal fiorentino, ha mostrato una certa stabilità nello scritto e, di contro, un’oscillazione marcata nel parlato, complici le variopinte variabilità regionali. Ora, la polimorfia, che la nostra lingua ha evidenziato sin da subito, è da considerarsi una ricchezza o piuttosto rappresenta un limite?

La polimorfia è propria delle lingue allo stato aurorale specie prima della loro fissazione grammaticale. La grammatica riduce la polimorfia, potando i doppioni e i triploni: se accetta devo e debbo non accetta più diedono accanto a diedero, sarebbono accanto a sarebbero, avessino accanto ad avessero.

Professore, Le propongo il seguente passo, tratto dallo Zibaldone: “Per rimetter in piedi la lingua bisogna rimetter in piedi l’Italia e gl’italiani, rifare le teste e gl’ingegni loro”. L’italiano attuale, rispetto a quello che ormai non c’è più, è davvero lo specchio di una società in decadenza? Qual è la corrispondenza tra l’evoluzione sociale e culturale di un popolo e quella del suo linguaggio?

Una lingua perde continuamente pezzi perché in essa il ricambio è fisiologico, come nelle cellule di un corpo. Purtroppo ci sono anche perdite patologiche, quando una lingua perde un intero àmbito d’uso (come rischia l’italiano con la scienza più avanzata) o addirittura scompare dalla società che prima la usava (si pensi a certi dialetti, che hanno avuto una sorte che ci auguriamo non tocchi anche all’italiano).

Per giungere al capolinea e tirar le somme: che cos’è l’italiano scomparso, la bella lingua di una volta?

No, nessuna rivisitazione nostalgica del passato dell’italiano. L’italiano scomparso è quella quota di lingua che nel corso del tempo esce dall’uso, in una sorta di fisiologico, incessante metabolismo. Io ho cercato di ricostruire le linee lungo le quali avviene questo processo di dismissione e ricambio, nel lessico, nella morfologia e nella sintassi e di capirne le cause. Dietro la lingua che usiamo c’è una zona d’ombra di parole, forme e costrutti perduti, a volte da secoli, a volte da pochi decenni o anni. Non è un cimitero, però, sia perché a volte quello che era scomparso ritorna (specie nel lessico), sia perché quello che si è affermato è anche frutto delle spinte di ciò che è scomparso (si pensi alla morfologia dei verbi).

Purtroppo c’è anche un italiano scomparso a causa di varie patologie, sia quelle sociali, come l’analfabetismo di ritorno o quelle fisiche, come le malattie mentali, che colpiscono i singoli individui, sia quelle linguistiche che colpiscono il sistema, quando questo perde competenze in dati àmbiti (ad esempio, l’italiano è a rischio in quello scientifico più avanzato).

In conclusione: cosa ci dice sulla storia dell’italiano l’attenzione a quello scomparso?

Intanto ci ricorda un tratto da ultimo troppo dimenticato, e cioè la forte radice fiorentina della nostra lingua e il progressivo allontanamento da essa. Moltissime forme cadute sono innovazioni fiorentine, che hanno circolato per un po’ nella lingua ma che poi non sono state accolte (neppure i venghi, venghino di fantozziana memoria, già vivi nel fiorentino del ’500). Poi ci mostra i meccanismi di selezione del materiale linguistico, in genere all’insegna dell’economia e dell’efficienza (scomparsa di doppioni lessicali, riduzioni di varianti morfologiche della stessa parola). Infine, il peso sulla lingua della grammatica esplicita, che ha favorito regole nuove nella sintassi, dovute alla sua attenzione privilegiata alla lingua scritta (ad esempio la scomparsa del che congiunzione ripetuto dopo inciso, tratto che nell’orale è plausibile ma nello scritto inutile).

In conclusione, come ben ha focalizzato Matteo Motolese per Il Sole 24 ore, Vittorio Coletti non allestisce un panegirico dell’italiano che fu, né commenta con toni nostalgici o accusatori i mutamenti descritti; al contrario, l’accademico cruscante disserta sulla lingua sottolineando con vigore la sua forte valenza sociale e umana, che sottolinea la portata multiforme delle parole. Esse infatti, quali testimonianze attive di periodi, epoche, idee o modi di essere, rappresentano quel vivo processo d’innovazione che è motore pulsante d’ogni lingua in movimento.

Riferimenti biblio-sitografici

Vittorio Coletti, L’italiano scomparso. Grammatica della lingua che non c’è più (Bologna, Il Mulino, 2018)

Matteo Motolese, Parole e idee dell’italiano scomparso, ilsole24ore.com, 18 luglio 2018

Silvana Mazzocchi, L’italiano scomparso. Grammatica della lingua che non c’è più, www.repubblica.it

L’italiano scomparso. Grammatica della lingua che non c’è più di Vittorio Coletti, intervista comparsa in letture.org

Immagine: Guerre stellari - Il ritorno dello Jedi (1983), regia di R. Marquand