La pubblicizzazione del linguaggio studentesco e dello snob giovanile

Negli anni della ricostruzione, il linguaggio snob giovanile fu ampiamente pubblicizzato dai media. Il grande pubblico lo trovava divertente: la signorina snob, di Franca Valeri, ebbe un grande successo. In vent’anni, la sola Camilla Cederna scrisse decine di articoli sull’Europeo e sull’Espresso interamente dedicati a questo fenomeno. Un paio di esempi: «“Oh guarda chi si vede, come stai?” dice il giovane che incontra per strada la ragazza 1952. “Ciao”, risponde questa, e aggiunge con un sorriso: “La bambina è nera” o se no: “Non noti? La bambina ha lasciato giù un bel due chili”. La bambina è proprio lei, la ragazza alla moda, che attualmente ha il vezzo di parlare di sé stessa in terza persona, ed è così carina, che i suoi corteggiatori dichiarano che “spacca tutto” [...]. In questo momento hanno fortuna, cioè, come dicono loro, “vanno fortissimo” le brune [...]. Delle amiche che hanno successo, le ragazze 1952 non dicono “è bella” ma “è sexy” o “ci sa fare” (“sexy” è l’aggettivo più appropriato per definire questo nuovo tipo di adolescente). Di quella che non ha particolari attrattive fisiche, ma è piacente perché è allegra e spiritosa, si dice “non è sexy ma ha ginger”. Della grassottella senza risorse, le amiche eleganti e sexy dicono che “poverella è un niente, ma è tanto sweet”» (Europeo, 20 agosto 1952); «La ragazza moderna è cambiata un’altra volta. [...]. “È un macello”, esclamano quest’anno, volendo dire con ciò il massimo a cui può arrivare una fanciulla di ‘carineria’ e di ‘chic folle’ [...]. “Uffa! Basta! Non ne posso più! Anche tu sei così down? Sono stanca da morire!” Sono i modi di dire più frequenti di queste fanciulle» (Europeo, 11 giugno 1953).

Ma, di là dagli usi commerciali che se ne potevano fare, con la crescita economica il gergo giovanile stava ormai assumendo una effettiva rilevanza sociale: non era più uno slang dell’alta società, ma la modalità espressiva, sia pure limitata a particolari circostanze, di tanti ragazzi borghesi.

A questo si deve aggiungere che, negli anni Sessanta, il linguaggio studentesco e quello snob giovanile, cominciano in qualche modo a saldarsi. Nelle testimonianze del tempo il gergo studentesco non appare più come un nudo elenco di tessere lessicali, ma si presenta piuttosto come una deformazione della lingua parlata, che lo fa assomigliare al linguaggio snob. Basterà un esempio dal romanzo di Maria Corti, Il ballo dei sapienti (1966): «E subito si è fatto un crocchio di collettoni intorno a lui e lui in mezzo a mikeggiare».

Non facciamoci illusioni, però, sul carattere rivoluzionario di questo tipo di gerghi giovanili: l’utenza si è allargata, certo; ma si tratta pur sempre del linguaggio di un ceto medio conservatore. Le inquietudini che vi si riflettono sono soprattutto di ordine psicologico: esse parlano dell’insofferenza per ogni tipo di standard, anche linguistico.

C’è però qualcuno, in quegli stessi anni, che la rivoluzione sembra volerla fare sul serio.

“Dobbiamo andare.” “Dove andiamo?” “Non lo so, ma dobbiamo andare”: i beat

Da noi, in Italia, la beat generation non ebbe una chiara connotazione linguistica. Aveva invece il suo lessico ben riconoscibile negli Stati Uniti; lì si discettava, per esempio, sui significati di beat (più ‘beatus’, in un senso francescano, che ‘battuto’), si distinguevano i beat dagli hipster, si assegnavano significati particolari all’aggettivo cool ‘freddo’, si definiva square il borghese conformista, quello stesso borghese che gli studenti tedeschi avevano chiamato filisteo alla fine del Settecento.

In America la beat generation è la generazione giovanile degli anni Quaranta e Cinquanta. Jack Kerouac è il suo grande profeta e On the road – da cui è tratta la frase del titoletto – il suo romanzo-bandiera. In Italia, il movimento fu concretamente visibile sul territorio molto tardi. Nel mese di agosto del 1965 un gruppo di giovani beat, proveniente da varie parti d’Europa, soprattutto dall’Inghilterra, dalla Francia e dalla Germania, arrivò a Roma. Poveri per scelta e nomadi, i beat elessero domicilio sulla scalinata di Trinità dei Monti, dove mangiavano, suonavano, chiedevano l’elemosina. I romani, come fanno ogni volta che la città li costringe a confrontarsi con qualche elemento esotico, li osservarono inizialmente con perplessa curiosità; non sapevano niente di filosofie beat, perciò li chiamarono semplicemente i capelloni, per via dei capelli lunghi. Ben presto però la curiosità si tramutò in fastidio. Già a novembre scoppiò la prima rissa colossale in piazza di Spagna: clamore mediatico e fogli di via per molti capelloni. Ma il fenomeno a quel punto era conclamato. Piazza di Spagna rimase per anni un punto di ritrovo per gli hippy di tutto il mondo. Un fatto simile si verificò a Milano, nel 1966. Anche lì, la reazione della borghesia italiana non si fece attendere. Il posto in cui i giovani si erano accampati, in via Ripamonti, fu subito ribattezzato Barbonia city dai conservatori milanesi; poco tempo dopo, l’accampamento fu sgomberato dalla polizia.

Diversamente dai giovani snob, i beat costringevano la società civile a prendere una posizione forte; la loro semplice presenza costituiva un motivo di tensione. Rileggendo le cronache del tempo, non si capisce se a preoccupare fosse più la loro condotta di vita, giudicata immorale, o la scarsa propensione all’igiene: su Barbonia ormai rasa al suolo furono cosparsi chili di disinfettante. Un’idea dell’intensità delle reazioni può arrivare da questo articolo di Paolo Bugialli sul Corriere della sera del 5 novembre 1965: «Dicono [i capelloni] che non danno noia a nessuno e che stanno lì, sulla scalinata di Piazza di Spagna, perché è bello e gli piace. Non è una buona ragione. Essi sono brutti e non piacciono a noi», «essi dicono, esprimono il tormento della generazione della Bomba e bisognerebbe buttargliela», «come non si va nel Congo senza la vaccinazione contro la febbre gialla, così non si entra in Italia con i capelli lunghi: siamo in casa nostra, abbiamo il diritto di ricevere gli ospiti che vogliamo, e questi non li vogliamo» e così via.

I beat costituirono numericamente una minoranza rispetto all’intero mondo dei giovani. Il loro ruolo tuttavia non può essere trascurato, soprattutto per l’impronta che essi seppero dare all’intera epoca. Si associano, in modo più o meno appropriato, al mondo dei beat decine di gruppi, come i provos, i mods, gli onda verde, molti generi musicali (il rock, il surf, lo shake), diverse mode (l’abbigliamento yé yé, la minigonna); si aggiungano a tutto questo le parole d’ordine, largamente note e riusate da tutte le generazioni successive, come controcultura, cittadino del mondo, amore libero, fate l’amore non fate la guerra e tante altre.

In Italia, il linguaggio del movimento beat si confuse con il linguaggio politico del Sessantotto. Ne riparleremo.

Immagine: By Alexis Brown alexisrbrown (https://unsplash.com/photos/-Xv7k95vOFA) [CC0], via Wikimedia Commons