Giuseppe Antonelli e Carlo Greppi, nell'incontro La lingua dell'odio (Memoriale della Shoah di Milano, 15 aprile 2019), hanno affrontato quattro parole che trasudano disprezzo, che suggeriscono una gerarchia, un'idea di dominio, un odio diffuso che se alimentato si traduce sempre, inevitabilmente, in un corpus di misure discriminatorie e persecutorie. La storia ce l'ha insegnato.

I bersagli? Sempre gli stessi. Gli “altri” (leggi: gli stranieri), i deboli, le donne, gli avversari politici. Non è sempre facile scorgere nitidamente i confini tra queste “categorie” additate come nemiche. Ma una cosa è certa: sono di continuo qualcosa da respingere, da neutralizzare, da ammansire o domare, da annientare.

Razza

Il ciclo di incontri si intitolava Premesso che non sono razzista e il lemma da cui partire non poteva che essere “razza”. «Dire che esistono le razze umane non vuol dire a priori che esistono razze umane superiori o inferiori, ma soltanto che esistono razze umane differenti» – forse questo assunto è per alcuni innocuo, in quanto non mostra la sua violenza potenziale. Eppure è nell'esordio de Il Manifesto degli scienziati razzisti del 1938 (alias il Manifesto della razza), e uscì qualche settimana prima della legislazione antisemita del fascismo. Una legislazione autonoma – ricalcata su quella analoga delle colonie – il cui esito conosciamo fin troppo bene.

Facciamo un balzo in avanti di un'ottantina d'anni.

La razza è un'invenzione «terribilmente pericolosa che sedimenta un potenziale discriminatorio e violento così forte (per la storia che il termine ha avuto in Occidente e altrove) da poter essere facilmente riattualizzato», avvertivano Adriano Favole e Stefano Allovio su “La Lettura” del «Corriere della Sera» nel febbraio del 2015, sottolineando il fatto che da decenni genetisti e antropologi ci ricordano che la razza umana è una sola (tra i tanti contributi si legga il recente libro di Guido Barbujani e Andrea Brunelli, Il giro del mondo in sei milioni di anni, Il Mulino 2018). Favole e Allovio proponevano di eliminare il lemma razza dalla Costituzione, anche se «con tutta evidenza, i costituenti citarono la razza per ragioni antidiscriminatorie». E, viene da aggiungere, se eliminassimo anche i derivati come, per l'appunto, razzista e razzismo? Non contribuiscono forse a rendere accettabile, o per lo meno dicibile, la grande menzogna della “razza”?

Me ne frego

“Tireremo diritto”, “tanti nemici tanto onore”, “boia chi molla”... Le espressioni che arrivano direttamente dall'humus fascista sono così tante che sono persino difficili da censire, continuamente riprese – testualmente – dal ministro dell'Interno di questo paese. “Me ne frego” le racchiude forse un po' tutte perché, anche se tendiamo a non pensarci, nasconde un'idea di dominio fisico, sessuale. Dell'uomo sulla donna, ovviamente. Un emblema di quello che racchiude quest'espressione abusata e ripresa sta nell'articolo Forza e consenso, apparso su «Gerarchia» nel marzo del 1923 a firma di Benito Mussolini. In questo pezzo è la libertà a dover essere domata. Da chi? Dai fascisti, naturalmente.

«Quando un gruppo o un partito è al potere, esso ha l’obbligo di fortificarvisi e di difendersi contro tutti. La verità palese ormai agli occhi di chiunque non li abbia bendati dal dogmatismo è che gli uomini sono forse stanchi di libertà. Ne hanno fatto un’orgia. La libertà non è oggi più la vergine casta e severa per la quale combatterono e morirono le generazioni della prima metà del secolo scorso. Per le giovinezze intrepide, inquiete ed aspre che si affacciarono al crepuscolo mattinale della nuova storia ci sono altre parole che esercitano un fascino molto maggiore, e sono: ordine, gerarchia, disciplina. […] Si sappia dunque, una volta per tutte, che il Fascismo non conosce idoli, non adora feticci: è già passato e, se sarà necessario, tornerà ancora tranquillamente a passare sul corpo più o meno decomposto della Dea Libertà».

Il fascismo aveva le idee piuttosto chiare: bisognava annientare le libertà e “vigilare il destino della razza”, la sua “potenza” demografica”, perché «tutte le nazioni e tutti gli Imperi hanno sentito il morso della loro decadenza, quando hanno visto diminuire il numero delle loro nascite», scrive ancora Mussolini nel 1927.

Cosa devono fare dunque le donne, per i fascisti e i loro (in)degni eredi? Procreare, semplicemente, e in silenzio, se possibile. E intanto l'uomo forte, il condottiero, il capitano, il duce, pensa a comandare. E a decidere chi può far parte della nazione.

Pacchia

«Perché lo Stato deve distinguere chiaramente fra quelli che, come componenti del popolo, sono autori della sua vita e della sua grandezza, e quelli che abitano entro i confini di uno Stato esclusivamente per proprio vantaggio», se no si soccomberà «tra le braccia di queste sanguisughe». Per reagire bisognerà farsi guidare dall'intelletto, «e avremo come forza principale la volontà. Il sacro obbligo di agire in questa maniera darà la forza e la perseveranza mentre il nostro più grande difensore sarà il nostro ideale». In altre parole: la pacchia è finita.

Tutti gli ingredienti fin qui abbozzati precipitano sul tema della pacchia, della cuccagna: falsità e mistificazione della realtà, complottismi e meccanismi di creazione del capro espiatorio, gerarchie esplicite tra esseri umani, incubi demografici e criminalizzazione dell'altro in quanto tale, invocazione (più o meno esplicita) all'annientamento, come mettono bene in evidenza i passi citati dal Mein Kampf, il “vangelo” di Adolf Hitler che ebbe un successo editoriale strepitoso, nella Germania e nell'Europa tra le due guerre.

“Vermi”, “parassiti”, “opportunisti”, “sanguisughe”: i sinonimi sono incalcolabili e nel 2012 l'antropologo Alberto Salza ed Elena Bissaca, nel libro Eliminazioni di massa. Tattiche di controgenocidio (Sperling & Kupfer) provavano a proporre una soluzione che oggi, nell'era dell'odio gridato sui social e sapientemente coltivato dall'Internazionale nazionalista, andrebbe ribadita: «Scrivete le parole su dei cartoncini. Fateli allineare dai bambini in ordine crescente di gravità, dall’attività meno profittevole alla più profittevole. Discutete le parole, una per una. La loro piena comprensione, discussa assieme alla comunità di riferimento, tende a inibire il comportamento sotteso». Fatelo fare anche agli adulti, se posso aggiungere un suggerimento.

Buonista

Agli storici il grande successo recente del lemma buonista non può che far venire in mente un suo avo recente: “pietista”. N_on il movimento (“pietista”, per l'appunto) di rinnovamento della chiesa protestante del XVII secolo, ma il termine che spopolò nell'“anno infame” di cui abbiamo già parlato, il 1938._

Sul divieto di nuove concessioni per apertura di negozi ed esercizi pubblici ai richiedenti “di razza ebraica” leggiamo su «La Stampa» del 13 ottobre 1938: «Ai soliti pietisti, che non mancheranno nemmeno in questa occasione, ripeteremo quanto più volte abbiamo scritto: non è colpa nostra se gli ebrei, nella loro enorme maggioranza, si sono accaparrati attività lucrose e speculative, spregiando le nobili missioni del lavoro manuale riservato ai soli ariani». Sul «Corriere della Sera» del 6 dicembre 1938 scopriamo in parallelo che due fascisti vengono «puniti per pietismo filogiudaico», vengono espulsi dal partito perché «affett[i] da inguaribile spirito borghese, si abbandonava[no] ad incomposte manifestazioni pietistiche nei confronti di un giudeo». E, ancora su «La Stampa», il 15 novembre dello stesso anno, a proposito della situazione degli ebrei in Germania: «Cosa mai dovrebbero fare gli ebrei? obiettano i soliti pietisti i quali magari non si sono mai commossi a tante sofferenze umane di famiglie ariane sistemandole nell'ordine naturale delle cose». Ci ricordano gli argomenti dei sovranisti giallo-neri nostrani, non è vero? Non ci fa paura essere già arrivati qui?

Se permettiamo che nel nostro linguaggio e nei nostri pensieri si insinuino questo genere di parole – razza, me ne frego, pacchia, buonista, e tutti i loro parenti più o meno stretti – stiamo aprendo le porte a una società che classifica gli esseri umani, e decide chi può stare dentro e chi deve stare fuori, sbeffeggia o punisce chi si preoccupa delle sorti degli “altri”. Una società che abbiamo già visto, che ha già devastato l'Europa e il mondo intero.

Non so come andrà a finire, naturalmente, ma di una cosa sono piuttosto certo: la Storia, prima o poi, giudicherà anche noi.

Immagine: Ingresso principale del memoriale della Shoah di Milano - Stazione Centrale, piazza Edmond J. Safra, 1

Crediti immagine: Fcarbonara [CC BY-SA 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)]