Una guida necessaria alla libertà

Basterebbe una delle obiezioni che Alessandro Manzoni discute nella sua Relazione al Ministro della Pubblica Istruzione, Emilio Broglio, nel 1868, a darci un sicuro (tuttora valido) suggerimento su che cos’è, o dovrebbe essere, un vocabolario, ma soprattutto su quale ruolo ha la lingua nella vita di uno Stato e su quale ruolo lo Stato può avere nella vita di una lingua, di chi la parla e la scrive.

Una delle obiezioni che si potranno muovere alla proposta di un vocabolario del fiorentino dell’uso vivente, ipotizza Manzoni, potrebbe suonare così:

«Altra obiezione, l’enormità del pretendere che una città abbia a imporre una legge a un’intera nazione».

L’obiezione aiuta a definire, precisandoli, un punto di vista e un ruolo:

«Imporre una legge? come se un vocabolario avesse a essere una specie di codice penale con prescrizioni, divieti e sanzioni. Si tratta di somministrare un mezzo, e non d’imporre una legge. Essendo le lingue e imperfette e aumentabili di loro natura, nulla vieta, anzi tutto consiglia di prendere da dove torni meglio o anche di formare de’ novi vocaboli richiesti da novi bisogni, e che l’uso non somministri».

Lontano dall’essere un codice penale, il vocabolario dell’uso vivente potrà proporsi come mezzo, segnando le possibilità della lingua, non i suoi confini. L’intento è pratico, nella sostanza, ma risponde a un problema che tutti coloro che parlano (e coloro che scrivono) si trovano ad affrontare:

«Ma per aggiungere utilmente, è necessario conoscer la cosa a cui si vuole aggiungere; e poter quindi discernere ciò che le manchi in effetto. Altrimenti può accadere (e se accade!) che uno, non trovando un termine così detto italiano, di cui creda, e anche con ragione, d’aver bisogno, e non osando, anche qui con ragione, servirsi di quello che gli dà il suo idioma, corra, o a prenderlo da una lingua straniera, o a coniarne uno, mentre l’uso fiorentino glielo potrebbe dare benissimo, se ne avessimo il vocabolario».

Il vocabolario, che il Ministro è invitato a promuovere, non sarà strumento di imposizione di una nuova schiavitù dell’individuo, nel rapporto con la lingua (e perciò con lo Stato), ma potrà contribuire a dare nuovo slancio all’iniziativa personale, offrendo, nella sua completezza, «una guida necessaria alla libertà di aggiungere sensatamente e utilmente»:

«Così si accresce bensì quel guazzabuglio che s’è detto sopra, ma non s’aggiunge a una lingua più di quello che, col buttare una pietra in un mucchio di pietre, s’aiuti ad alzare una fabbrica. Invece (ciò che può parere strano a chi si fermi alla prima apparenza) la cognizione e l’accettazione di quell’uso dove altri sogna servitù, servirebbe a dare una guida necessaria alla libertà d’aggiungere sensatamente e utilmente».

Con queste (in altre) parole Manzoni consegna un’indicazione di lingua (e di cultura) al Ministro della Pubblica Istruzione e, con anticipo sui tempi a venire, prevede obiezioni che oggi, riformulata la questione, tornano a proporsi e a ricevere credito.

Non è un caso che il libro di Lucilla Pizzoli, La politica linguistica in Italia. Dall’unificazione al dibattito sull’internazionalizzazione (Roma, Carocci, 2018) ponga all’inizio del percorso di ricostruzione storico-critica proprio la Relazione del 1868, pietra miliare nella definizione di ciò che sarà l’italiano e del rapporto tra lo Stato e i cittadini in fatto di lingua.

Il volume colma una lacuna, evidente e certo non giustificata, degli studi, avvicinando i temi della politica linguistica con un approccio, troppo a lungo rimandato, che apparirà nuovo a chi si occupa di storia linguistica tra Ottocento e Novecento, ma anche a chi considera, in presa diretta, la situazione e i nodi critici dell’oggi.

Nelle diverse circostanze del vivere insieme

La Premessa segna, raccogliendo gli interrogativi condivisi, il campo dell’indagine. Le domande esprimono l’urgenza e il bisogno di riflettere su questi temi, in chiave storica e nella prospettiva dell’attualità, ma soprattutto estendendo l’inchiesta all’identità e alla filigrana sociale:

«Questo libro nasce dal tentativo di dare risposta ad alcune domande: è vero, come spesso si dice, che in Italia non c’è una politica linguistica? C’è stato qualcosa del genere in passato? Qual è, o quale dovrebbe essere, l’atteggiamento di uno Stato nei riguardi di questo argomento?» (p. 13)

Lucilla Pizzoli offre le risposte in un articolato quadro di trattazione, che fa il punto su “questioni” tanto complesse quanto significative. Il libro – precisa l’autrice – si propone di «indagare in che modo in Italia le istituzioni, ma in qualche misura anche gli altri attori in grado di influenzare i comportamenti linguistici dei singoli, abbiano agito per determinare la varietà o le varietà di lingua più adeguate nelle diverse circostanze del vivere insieme» (p. 13).

Il punto di vista non è quindi soltanto quello del rapporto tra autorità e individuo (prospettiva più consueta, ma effettivamente parziale), ma si esprime nell’ottica di un più complesso studio del rapporto tra le forze in campo in un sistema in cui l’individuo è parte della società, legato agli altri individui nell’idea e soprattutto nella concretezza dello Stato.

La lettura manzoniana del rapporto del singolo nella società come “contratto”, oltre che sociale, anche linguistico, agisce tra le righe in questa fondamentale monografia dedicata alla politica linguistica, uno strumento critico che, con uno straordinario sforzo di completezza bibliografica, fa il punto sulla questione, fin dalla definizione teorica dello spazio di ricerca di chi si occupa di “politica linguistica” (La politica linguistica come disciplina autonoma tra lingua, diritto e società, pp. 17-40).

Legislazioni linguistiche, in Europa e in Italia

Definito il campo dell’indagine e il metodo, il volume entra nel cuore del tema e dei problemi con una scelta strategicamente rilevante: il capitolo Uno sguardo fuori dall’Italia: onu, Consiglio d’Europa, Unione Europea (pp. 41-62) traccia la storia di un percorso e definisce le politiche più recenti in fatto di lingua, offrendo una chiave di lettura della situazione attuale, ma anche di ciò che la vicenda comune negli ultimi secoli ha proposto ai singoli Stati in fatto di lingua.

Di grande interesse per chi si occupa di storia della lingua tra Ottocento e Novecento risulterà il capitolo La legislazione linguistica (pp. 63-102), in cui Pizzoli ricostruisce i principali momenti della politica linguistica italiana dall’Unità ai giorni nostri, dedicando pagine fondamentali al ventennio fascista e alle prescrizioni di autarchia linguistica.

Anche quanto risale a studi precedenti (tra gli altri, vanno segnalati quelli del compianto Sergio Raffaelli) trova qui nuova luce e opportuni approfondimenti: i rilievi vengono inquadrati nel rapporto complesso con ciò che era accaduto (alcune indicazioni ad esempio risalivano ai governi precedenti), ma anche in relazione a ciò che sarebbe stato nei decenni a venire. Su questa linea di ricerca, l’osservazione della politica linguistica non può tacere il contatto che tutti noi abbiamo con lo Stato, quotidianamente: ecco allora che il capitolo Amministrazione e burocrazia: da fattore di unificazione ad antilingua (pp. 103-137) traccia in modo lucido, opportunamente argomentato, il percorso attraverso cui la lingua degli uffici, prima soglia di unificazione dell’italiano nella penisola, sia diventata (già agli albori) fattore esclusivo.

L’antidoto – si direbbe – è da ricercare nelle pagine del capitolo successivo, L’educazione linguistica nella scuola e nell’università (pp. 139-180), un’occasione per discutere i temi che, in continuità e problematicamente, risultano fattori unificanti della lingua, nel punto di contatto tra l’individuo e lo Stato che la scuola offre a tutta la società. La trattazione, articolata e approfondita, offre percorsi di grande efficacia e novità, e in particolare, in riferimento ai tempi più recenti, invita alla riflessione sul rapporto con le altre lingue, l’inglese su tutte, ma anche gli idiomi delle comunità che vivono in Italia, nella direzione dello studio del plurilinguismo.

L’equilibrio difficile

L’Italia – ci fa riflettere Pizzoli – vive anche fuori dei suoi confini: l’italiano, lingua di identità nazionale e di partecipazione, va tutelato anche per i cittadini all’estero, per quelle comunità (è il tema del capitolo Interventi per l’italiano e gli italiani nel mondo, pp. 181-201) che hanno fatto del rapporto con la cultura originaria un momento vitale di definizione dell’appartenenza.

Chiude il volume un capitolo che conferma la novità del metodo e dell’approccio di Lucilla Pizzoli (Oltre lo Stato: le altre agenzie di politica linguistica, pp. 203-220): in queste pagine la studiosa fa riflettere sul ruolo di politica linguistica che nei secoli hanno svolto la Chiesa, le Accademie, ma anche i mass media, efficaci mezzi di trasmissione e spesso motori di notizie e di informazioni che condizionano il rapporto con la cultura e la partecipazione dei cittadini alla vita civile.

L’ombra di 1984 e del dizionario della neolingua si percepisce dietro l’angolo, un estremo della tensione tra lo Stato e il cittadino, tra gli individui nella società («Non capisci che lo scopo principale a cui tende la neolingua è quello di restringere al massimo la sfera d’azione del pensiero?»); la riflessione porta con sé la domanda che ogni giorno non può non farsi viva: può la tutela dell’individuo limitare la libertà (di parola)?

Il libro di Lucilla Pizzoli ci invita a riflettere sull’equilibrio, difficile e storicamente complesso, tra la tutela del cittadino (della sua esperienza personale) e la salvaguardia della libertà, riportandolo finalmente all’insieme dei rapporti di una società, in un accordo di parola e pensiero, tra individui che pensano e agiscono consapevolmente.

Immagine: Francesco Hayez [Public domain], via Wikimedia Commons

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