Una piccola premessa

Con l’emergenza Covid, mentre i linguisti si occupano di parole nuove che hanno acquisito una certa visibilità (lockdown, droplet, picco e plateau, infodemia ecc.), e i mezzi d’informazione si occupano delle categorie vistosamente più colpite (bar, ristoranti e alberghi in primis, ma poi anche guide turistiche e perfino scuole guida, senza contare il servizio del quotidiano «La Repubblica» sulla crisi della prostituzione), si trascura, ma direi “naturalmente”, ciò che era invisibile anche in tempi di non-pandemia: parlo delle scuole di lingua e cultura italiana per stranieri, strane entità che, chissà perché, sono del tutto sconosciute ai nostri connazionali, ma, quel che è peggio, se sono vagamente percepite vengono subito scambiate per quello che non sono.

Circola fra noi direttori di scuole d’italiano per stranieri il racconto di un’avventura che ciascuno riteneva fosse capitata solo a lui e che poi si scopre essere patrimonio di tutti: “Ho detto a un tale che ho una scuola di italiano per stranieri. E lui mi ha risposto: ah che bello! Posso mandare da te mia figlia che deve imparare l’inglese?”.

Quindi, se è vero come è vero che una cosa che non va in televisione non esiste, è tempo perso per le scuole d’italiano stare a rivendicare il diritto di essere considerate come una delle categorie più colpite dagli effetti della pandemia (qualche estremista come me sostiene la più colpita): forse bisognerà ripartire dall’inizio e spiegare prima di tutto che cosa sono. Cosa non facile perché quasi tutte le parole che servono a definirle vengono immediatamente prese per il verso sbagliato: scuola fa pensare subito a quella con i banchi biposto e magari con la cattedra fissata sulla pedana; stranieri che studiano italiano fa pensare, ai pochi che provano a pensarci, alla questione immigrazione/accoglienza/integrazione; cultura, dio ce ne scampi, ognuno se la interpreta come vuole; per non parlare di viaggi e turismo, parole che nella migliore delle ipotesi si associano ai fotografi compulsivi che ci immortalano in mutande nel nostro salotto fotografandoci dall’oblò di una nave da crociera autorizzata a scorrazzare anche nelle pozzanghere vicino a casa nostra durante un viaggio di sette giorni in quattordici porti diversi.

Viene così la voglia, dopo oltre quarant’anni di più o meno onorata esistenza, di provare a spiegare che cosa sia mai questa realtà delle scuole d’italiano, ma siamo ben consapevoli che difficilmente i nativi se ne ricorderanno per più di quei dieci minuti utili di solito come spunto, nelle cene fra amici, per parlare di come è buffo che all’estero bevano il cappuccino dopo pranzo o per citare la scena di quel film di Checco Zalone dove lui giustamente se la prende col ristoratore norvegese che mica lo sa che gli spaghetti non si devono servire scotti. Tuttavia ora ci proveremo.

Come tutto è cominciato

Dalla fine degli anni Settanta, del Novecento ovviamente, da quando in sostanza l’inglese si consolida un po’ ovunque come lingua veicolare internazionale, l’italiano comincia a diventare “una” delle lingue che si possono studiare, dopo l’inglese naturalmente!, senza più particolari complessi d’inferiorità verso il francese, la lingua della cultura fino a pochi anni prima, o verso lo spagnolo, la lingua più estesa geograficamente.

A questo aggiungiamo però qualche altro elemento di solito sottovalutato quando si parla di quegli anni fossilizzati nella ormai celebre definizione di “anni di piombo”:

- si tratta di anni in cui gli eredi dei figli dei fiori on the road americani cominciano a considerare il viaggio estivo all’estero come un fatto ben più importante della comune villeggiatura dei genitori;

- si ha la grande idea di inventare il biglietto ferroviario Interrail per i giovani, un biglietto che vale un mese e serve a viaggiare in tutt’Europa: e se ti organizzi e viaggi di notte, ti permette di dormire in treno e risparmiare sull’alloggio, altro che generazione-Erasmus!;

- si consolidano economicamente le nuove generazioni di figli degli emigranti italiani all’estero, nuove generazioni curiose di scoprire le proprie radici;

- l’Italia acquista all’estero un’immagine po’ particolare. Da un lato sta uscendo dai ben noti anni di piombo, ma dall’altro, piombo o non piombo, si tratta di anni in cui diventa culturalmente molto attrattiva: voto ai diciottenni, referendum su aborto e divorzio, nuovo diritto di famiglia, statuto dei lavoratori, innovazioni nella scuola (Don Milani), rivoluzioni nella psichiatria (legge Basaglia), nascita delle grandi firme nella moda (Roberto Cavalli, Laura Biagiotti, Armani, Versace, Rocco Barocco, Gianfranco Ferré e Dolce e Gabbana), e, solo per citare qualche nome del cinema, sono anni in cui i registi si chiamano Vittorio De Sica, Federico Fellini, Sergio Leone, Pierpaolo Pasolini, Elio Petri, Luchino Visconti, e un giovane Nanni Moretti. E nascono le tv private e nuovi giornali come «La Repubblica».

Un nuovo grand tour

Succede così che tutt’a un tratto cominciano a piovere in Italia non più solo i pullman di quei turisti che si fotografano inclinati sotto la Torre di Pisa, ma anche giovani e adulti stranieri curiosi di sperimentare autonomamente lo stile di vita all’italiana senza legarlo più necessariamente solo al Rinascimento o all’archeologia romana, ma anche a quei nuovi impulsi che nascono da un Paese tutto da scoprire nella sua creatività contemporanea.

Furbi come sempre, e forti del brand-Alighieri, i fiorentini intercettano per primi questa nuova tensione e in men che non si dica fanno fiorire sull’Arno decine e decine di scuole per stranieri, centri per l’insegnamento della lingua pronti ad accogliere questi viaggiatori-culturali che non aspettano altro che di essere assecondati nella propria volontà di farsi un’esperienza cultural-sentimentale soggiornando proprio in quella che era da sempre la meta preferita del grand tour dei tempi passati.

Lenta e sonnacchiosa come nella sua natura, anche Roma, poco dopo, magari con succursali di scuole fiorentine, si avvia ad essere patria di altre scuole d’italiano per stranieri.

Ci vogliono ancora un po’ di anni e, mentre il pubblico del viaggio-studio aumenta a dismisura, le scuole d’italiano crescono qualitativamente e anche numericamente. Non le troviamo più infatti solo nelle grandi città come Roma e Firenze; non sono più solo nei grandi centri e nei capoluoghi di provincia che per la loro estensione sembravano i più adatti ad accogliere i viaggiatori-culturali o i professionisti in Italia per imparare la lingua. Oggi in qualunque regione italiana, in molti piccoli centri di mare del Sud, nei suggestivi borghi del Centro, in tutte le regioni del Nord e sulle isole ci sono centri specializzati in grado di accogliere studenti di tutte le età che soggiornano in Italia per i motivi più diversi e che intendono sfruttare l’occasione di essere qui per imparare l’italiano. Tutte queste scuole che magari all’inizio si occupavano solo di fare lezione di lingua, si sono via via organizzate per rispondere alle esigenze specifiche del proprio pubblico di studenti, sviluppando intorno ai corsi un gran numero di attività culturali, visite guidate, escursioni, giornate dedicate all’eno-gastronomia, seminari di cinema, di musica, di attualità politica e tanto altro ancora, che sono spesso la chiave per integrarsi non solo linguisticamente ma anche identitariamente nella nostra realtà.

Chi frequenta queste scuole

I corsi delle scuole di lingua e cultura italiana per stranieri sono indirizzati a rispondere alle richieste di chi abbina l’apprendimento dell’italiano a differenti tipologie di soggiorno nella Penisola. In particolare:

- soggiorno per viaggio culturale: riguarda una fascia, certo la più ampia, di iscritti ai corsi delle scuole d’Italiano, che comprende quegli stranieri di tutte le età che, in tutte le indagini condotte dal Ministero degli Esteri, alla domanda “perché studi italiano?” hanno risposto “per il piacere di farlo, perché mi piace”. Si tratta di un pubblico estremamente motivato, di livello sociale e culturale di solito medio-alto o molto alto, assai esigente dal punto di vista qualitativo proprio perché considera l’apprendimento della lingua un vero investimento culturale da cui aspettarsi un ritorno concreto, peraltro immediatamente misurabile autovalutando la propria capacità di inserirsi nell’ambiente italofono. Per questo tipo di apprendenti l’approccio alla lingua non può prescindere dall’approccio alla cultura del Paese in cui la lingua è parlata.

- soggiorno per motivi di studio: riguarda quella fascia di studenti delle scuole d’italiano, per lo più giovani, ma non solo, che hanno bisogno di imparare o perfezionare l’italiano per frequentare altri corsi di studio: corsi universitari, corsi presso istituti di design, di musica, di arte o corsi professionalizzanti in settori nei quali il marchio-Italia conferisce una percezione di qualità (moda, industria calzaturiera, gastronomia ecc.). Talora i corsi delle scuole d’italiano per questa fascia di pubblico vanno a integrare corsi di italiano organizzati all’interno di quegli stessi istituti che gli studenti frequentano come i corsi per gli studenti Erasmus organizzati in proprio dalle università, i corsi per studenti stranieri organizzati dalle accademie di arte o di design, i corsi universitari organizzati da università straniere con sede in Italia, i corsi per religiosi iscritti a università gestite dal Vaticano ecc.

- soggiorno per motivi di lavoro: riguarda stranieri residenti per periodi lunghi. L’apprendimento dell’italiano è in questo caso un’esigenza molto pragmatica perché permette l’integrazione dal punto di vista lavorativo sia di chi lavora sia della famiglia: l’acquisizione della lingua può essere necessaria per l’ottenimento del permesso di soggiorno o di lavoro, ma è per lo più indispensabile per l’integrazione sociale perfino nei numerosi casi in cui nell’ambiente di lavoro la lingua veicolare consolidata è l’inglese (grandi ditte multinazionali, imprese estere con sede in Italia, ambasciate e consolati, Enti internazionali, aziende automobilistiche, informatiche ecc.): per quanto l’italiano non sia strettamente necessario dal punto di vista specificamente lavorativo è comunque indispensabile per poter interagire con l’ambiente circostante e per saper valutare l’opportuno galateo comunicativo da rispettare anche all’esterno del proprio mondo lavorativo, galateo talvolta fatto di assunti taciti e pratiche indiscusse. Nel soggiorno per motivi di lavoro si includono anche stranieri che lavorano all’estero in ditte che hanno stretti rapporti con l’Italia (commercio, import-export, banche ecc.) e che, pur senza necessità di residenza sul territorio nazionale, hanno continua necessità di interagire con gli italiani.

Tipologia del viaggiatore culturale

Nella varietà tipologica legata alla nazione di origine, alle motivazioni che lo accostano alla nostra lingua, alla fascia d’età, al livello culturale ed economico, il pubblico delle scuole d’italiano ha come elemento comune alcuni aspetti che rendono il viaggiatore culturale come uno dei più preziosi nell’ambito della promozione dell’immagine dell’Italia all’estero.

- Lo studente dei corsi d’Italiano soggiorna in Italia per periodi non brevi: se, almeno negli ultimi anni, possiamo ragionevolmente pensare che la durata media del soggiorno sia di due o tre settimane, rimane sempre alta la percentuale di chi investe sul viaggio culturale anche quattro o più settimane.

- Lo studente dei corsi d’italiano è di solito fidelizzato: cioè torna a visitare questo Paese molte volte e talora ogni anno anche per tutta la vita. La nazione dei mille comuni è del resto meta ideale per non annoiarsi mai e per scoprire ogni volta realtà nuove.

- Lo studente dei corsi d’italiano promuove l’Italia all’estero: ne promuove l’immagine, la gastronomia, il gusto, la cultura e il paesaggio. Coinvolge gli amici e la famiglia e non di rado i figli dei fidelizzati rappresentano le nuove generazioni di studenti.

- Lo studente dei corsi d’italiano è solitamente di fascia socio-culturale alta e col suo soggiorno di studio, al di là dell’investimento nei centri linguistici, è fonte di indotto per altri promotori culturali (musei, teatri dell’opera, organismi archeologici ecc.) e anche per i migliori rappresentanti della cultura eno-gastronomica (bar, ristoranti e locali di intrattenimento in genere) oltre che di quella turistica (strutture alberghiere, agriturismi, trasporti ecc.).

- Lo studente dei corsi d’italiano rifiuta di essere definito turista, nel senso di essere abbinato al turismo di massa e ha perfettamente ragione: il suo obiettivo è la vera integrazione, la possibilità di sentirsi italiano come arricchimento della propria identità. Non a caso sono numerosissimi quelli di loro che in Italia acquistano casa, dove soggiornano stagionalmente e nonostante questo continuano a girare e a esplorare altre regioni, rinnovando l’antica tradizione degli stranieri che producono vino in Toscana, che abitano per l’intera estate in Liguria, che dividono la loro esistenza fra quella in patria e quella nell’appartamentino di Trastevere a Roma.

- Fra gli studenti dei corsi d’italiano è frequente la presenza di personaggi che in patria ricoprono ruoli importanti o prestigiosi: le scuole d’italiano sono state frequentate da Primi Ministri, attori, calciatori, artisti, ricercatori, professori universitari, giornalisti, manager di grandi multinazionali e imprese. Grazie anche al contributo delle scuole questi personaggi diventano a loro volta ambasciatori d’Italia all’estero e promuovono l’interesse verso il nostro Paese con un effetto domino.

Le scuole d’italiano e i calcoli ministeriali

I dati sulla diffusione dello studio dell’italiano nel mondo sono per lo più forniti dal Ministero degli Esteri che tiene sotto controllo sia cattedre e lettorati nelle università straniere, sia i corsi gestiti o promossi dagli Istituti Italiani di Cultura all’estero.

Nel rapporto “L’italiano nel mondo che cambia - 2018” (Roma, 22 ottobre 2018, Villa Madama), i dati raccolti con il contributo del Ministero dell’Istruzione - Ministero dell’Università e della Ricerca, del Ministero per i Beni e le Attività culturali e per il Turismo, dell’Accademia della Crusca, della Società Dante Alighieri, delle Autorità confederali svizzere e di tanti altri, segnalano che almeno 2 milioni di persone ogni anno studiano la lingua italiana. Meno incoraggianti i numeri relativi alla diffusione della nostra lingua nelle scuole pubbliche europee, anche questi pubblicati col contributo del Mae ma nel 2017 (“Cifre chiave dell’insegnamento delle lingue a scuola in Europa”, Eurydice Italia).

Al di là di assai maldestre graduatorie in cui l’italiano risulterebbe “quarta lingua più studiata al mondo” o alternativamente “prima fra le quarte lingue più studiate al mondo”, certamente si può affermare che l’italiano è la prima lingua straniera studiata solo per piacere: la scelta dell’italiano è quasi sempre sganciata da un interesse pratico immediato.

I dati numerici, comunque preziosi per indirizzare i programmi di promozione, non possono però tenere conto dell’attività delle scuole private in cui si insegna italiano all’estero, disperse, non meno che in Italia, fra piccole iniziative di gruppi di insegnanti e grandi strutture: la sola Scuola d’Italiano di Oslo, tanto per fare un esempio, organizza corsi per oltre un migliaio di studenti a semestre ogni anno in una città che ha meno di 700 mila abitanti e dove oltre ai corsi di altre scuole private, oltre alla Dante Alighieri, oltre all’università, altri corsi sono organizzati dalla galassia di università popolari simili alle Volkshochschule tedesche o alle Eoi spagnole.

Ancora più frammentato il mondo delle scuole d’Italiano in Italia: i dati ministeriali tengono conto solo della quarantina di scuole associate all’Asils (Associazione scuole d’italiano lingua straniera), ma non di quelle di Italian in Italy né di quelle di Eduitalia. Tantomeno potrebbero tener conto delle numerose scuole che si sono solo di recente associate in Licet (Lingua italiana, Cultura e Turismo), associazione che ho il compito di presiedere e che nasce proprio per rispondere ai guai provocati dalla pandemia. I dati ministeriali, in sostanza, sono assai parziali.

Licet, un primo sondaggio

Un primo sondaggio Licet, ancora incompleto, ha provato a far la conta del gran numero di centri sorti anche in numerosissimi piccoli comuni che oggi costituiscono poli di attrazione non inferiori a quelli delle grandi città. Solo come dato indicativo si tenga conto che in questo sondaggio si è già rilevata la presenza di oltre 200 scuole che hanno l’italiano come unica lingua insegnata o comunque come lingua preminentemente insegnata (sono quindi escluse le scuole che insegnano “anche” italiano), spesso sorte dopo l’anno 2000 e distribuite sul territorio nazionale in queste percentuali: Abruzzo (1,78%); Basilicata (0,59%); Calabria (2,28%); Campania (5,35%); Emilia Romagna (6,54%); Friuli Venezia Giulia (1,78%); Lazio (7,14%); Liguria (8,92%); Lombardia (5,95%); Marche (6,54%); Piemonte (1,78%); Puglia (7,73%); Sardegna (5,35%); Sicilia (5,35%); Toscana (26,78%); Umbria (1,78%); Veneto (4,16%).

Si tenga conto inoltre che questi dati, oltre a non considerare le università straniere presenti in Italia, le Dante Alighieri e i centri per immigrati, costituiscono solo la base di una mappatura che certamente può essere ampliata e perfezionata.

Sembra facile

Sembra facile capire esattamente cosa sia una scuola d’italiano per stranieri. Ma per i non addetti ai lavori facile non lo è, prima di tutto per una questione terminologica:

- Scuola, riferito alle scuole d’italiano, va intesa nel senso etimologico, quello greco di σχολή, spazio deputato a soddisfare le proprie esigenze culturali, la propria sete di sapere, il bisogno di arricchire il proprio bagaglio di conoscenze, anche di quelle slegate da immediati rientri materiali o economici. Una scuola legata al tempo libero, all’otium e non al negotium: niente a che vedere insomma con la scuola dell’obbligo.

- Cultura si intende, in senso antropologico, come l’insieme di valori e di modelli di comportamento storicamente consolidati che caratterizzano un popolo o un gruppo sociale in riferimento a un determinato stile di vita.

- Turismo si intende non come turismo di massa, ma come quello legato al viaggio in Italia del grand tour, quello che caratterizzava i viaggiatori dei secoli scorsi – e in realtà, con modalità diverse, anche di oggi – che venivano nello Stivale per abbronzarsi al sole del nostro bagaglio culturale e per bagnarsi nel mare delle nostre tradizioni artistiche e musicali, molto più che per trascorrere una vacanza spensierata.

Si aggiunga a questo una certa pigrizia mentale per cui si fa fatica ad accettare che un organismo di formazione, e che per giunta si chiama scuola!, non abbia relazioni con campanelle che scandiscono le ore, con speciali ordinamenti disciplinari, con tradizionali rapporti gerarchici studente-insegnante, con orari fissi, col timore dell’interrogazione e cose del genere. Per cui gli stessi italiani che vanno a studiare per due settimane inglese in una scuola del Regno Unito e che non si sorprendono più di tanto se in quella scuola organizzano un pomeriggio di conversazione andando a cavallo nelle verdi campagne inglesi o una serata al pub per chiacchierare sbevazzando una birra rossa, si sorprendono come Alice nel paese delle Meraviglie se provi a spiegargli che la stessa cosa può succedere agli stranieri che vengono a seguire un corso d’italiano qui.

Del resto anche confondere le scuole d’italiano con le scuole di lingue è abbastanza comune. La differenza è enorme: una scuola di lingue si occupa di insegnare le lingue straniere agli italiani; i corsi sono quindi di solito semestrali, con una o due lezioni a settimana, l’organizzazione assomiglia di più a quella scolastica tradizionale e soprattutto il pubblico è fatto di residenti. E in caso di problemi, ad esempio, sostituire la lezione in presenza con quella online non crea scompensi troppo vistosi. La scuola d’italiano invece si rivolge a stranieri che vengono in Italia proprio per seguire un corso e integrarsi culturalmente: le lezioni, spesso a carattere intensivo, durano pochissime settimane; l’organizzazione è elastica e ricca di eventi; un’assenza non si recupera. In caso di problemi poi non è che sia semplice sostituire la lezione in presenza con la lezione online: parlare italiano guardando la foto di un gelato non è la stessa cosa che parlarlo leccando un cono ai frutti di bosco. E soprattutto una lezione in presenza, con il gelato vero, può essere fatta solo qui, mentre la foto del gelato puoi vederla anche in una lezione online fatta da un professore di Novosibirsk. Insomma, Magritte aveva capito tutto quando scriveva sotto la rappresentazione della pipa “questa non è una pipa”!

Sembra facile da capire eppure il mio amico continua a insistere per mandarmi sua figlia a studiare inglese nella mia scuola d’italiano.

Perché nessuno sa che cosa siano queste scuole

Sarebbe facile, e forse giusto, dare la colpa alle scuole stesse che in tanti anni non hanno mai saputo organizzarsi o fare gruppo per raccontare “che cosa sono”. Ma in realtà il problema, come si sarebbe detto in altri tempi, è a monte, nel senso che le stesse scuole, probabilmente, non sanno esattamente che cosa sono.

Quando agli inizi della pandemia Covid-19 è arrivata la notizia che avrebbero dovuto chiudere le scuole di ogni ordine e grado non pochi fra i direttori si sono domandati “ma io sono una scuola di ogni ordine e grado?”. Di più, io mi sono perfino chiesto: “Ma io, al di là del nome, sono una scuola?” E c’è chi in quell’occasione si è rivolto a un Prefetto per fargli proprio questa domanda. E il Prefetto (d’altra parte non è che i Prefetti siano tenuti a sapere che cosa sia una scuola d’Italiano per stranieri e soprattutto non gli è richiesto di muoversi agilmente nel concetto di σχολή fra otium e negotium) pare che dopo aver letto la parola “scuola” abbia sentenziato coscienziosamente che “tutte le scuole di ogni ordine e grado devono essere chiuse”.

Sarebbe stato divertente continuare a lungo in questo ping-pong contenutistico-terminologico, ma solo pochi giorni dopo il lockdown imposto a tutta la nazione ha interrotto la spassosa querelle.

Questi annosi problemi di identità si manifestano poi nell’incertezza del referente istituzionale: se le scuole sono scuole dovrebbero forse far capo al Ministero dell’Istruzione: ma è in grado questo Ministero di assecondare strutture che nulla hanno a che vedere, né organizzativamente né economicamente, con le scuole pubbliche, con quelle parificate e con quelle private?

Forse allora le scuole d’italiano dovrebbero interloquire col Ministero degli Esteri: è del resto il Ministero che gestisce gli Istituti di Cultura e le Ambasciate. Queste rappresentanze dell’Italia all’estero sono nostri promotori: un addetto culturale promuove all’estero le imprese culturali italiane come un addetto commerciale promuove la Barilla o la ex-Fiat. Ma nello stesso tempo, le stesse istituzioni italiane all’estero, si sa, si finanziano spesso con corsi di lingua gestiti in proprio. Finisce quindi qualche volta che i nostri promotori si trasformino in concorrenti, come quando i Consolati rilasciano il visto di studio agli studenti solo a condizione che abbiano frequentato all’estero almeno un corso-principianti. È come se un addetto commerciale del Consolato Italiano di Timbuktu concedesse l’acquisto degli spaghetti Barilla solo a chi prima ha acquistato un chilo di pasta fatta in casa prodotta nel consolato stesso. Che magari è ottima, ma lo scompenso resta.

E allora, visto che entrare nel Ministero degli Interni per ricordare che le scuole d’italiano potrebbero anche essere di qualche aiuto nel gestire la formazione linguistica dei migranti è tempo perso (e perfino pericoloso, troppi piedi si andrebbero a pestare!), non resta che sperare nel Ministero per i Beni e le Attività culturali e per il Turismo che già nel suo nome sembrerebbe rispecchiare molte delle nostre caratteristiche. Il Ministero non lo sa, ma le scuole d’italiano si muoverebbero assai naturalmente sotto un ombrello MiBACT.

Questo mare di incertezze “esistenziali” ha sempre suggerito alle varie scuole di svolgere la loro attività chiuse nel proprio bozzolo, fidelizzando il proprio pubblico e accontentandosi di quanto con fatica sono riuscite a mettere in piedi, rinunciando a perdere tempo e denaro in una battaglia persa in partenza.

Ma tutte le contraddizioni esplodono fragorosamente e stavolta drammaticamente quando, all’inizio del 2020, arriva la pandemia.

Le scuole d’italiano, la pandemia e Kennedy

La crisi derivata dalla pandemia da coronavirus tocca le scuole d’italiano forse più di ogni altro settore produttivo italiano. Le scuole hanno chiuso i battenti il 4 marzo 2020. Da allora continuano a pagare i costi di gestione, ma contemporaneamente ricevono cancellazioni e rimborsano studenti già iscritti e che avevano già pagato, non ricevono più entrate di nessun tipo, le nuove iscrizioni si contano sulle dita di una mano. La riapertura di luglio, al di là di questioni-sicurezza, è simbolica: si riapre senza studenti.

La maggior parte delle scuole chiuderà per non riaprire più. Se altri settori turistici possono recuperare parte del loro fatturato attraverso incentivi come il “bonus vacanza” o indirizzando la propria attività verso gli italiani un tempo esterofili (bar, ristoranti, alberghi, spiagge ecc.), il settore italiano per stranieri è indissolubilmente legato alla presenza di stranieri nel nostro territorio. Questo significa che la ripresa, progressiva e lenta, è legata a:

a) La ripresa effettiva dei viaggi internazionali

**
b) La ripresa economica degli Stati esteri**

**
c) La ripresa della fiducia in generale in attività che richiedono socializzazione**

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d) La ripresa della fiducia nella percezione di sicurezza che offre l’Italia dopo l’immagine devastante che è emersa nella primavera 2020.**

Stanti questi presupposti e nella speranza che nuove ondate di focolai da coronavirus non generino panorami ancora più gravi, le scuole d’italiano possono solo augurarsi che l’affluenza di studenti riprenda dall’estate del 2021, se non in modo paragonabile a quella dell’anno precedente la pandemia, almeno in misura pari al 60% dell’attività del 2019. Ma a giugno del 2021 dovranno pur arrivare vive, cosa di cui è legittimo dubitare. Del resto, visto che sono invisibili, la perdita di poche migliaia di posti di lavoro, la scomparsa di alcune professionalità difficilmente recuperabili, il dissolversi di qualche centinaio di milioni di euro di indotto (e che saranno mai rispetto ai tanti miliardi in arrivo col Recovery Fund?) certamente non solleciteranno lacrime di giornalisti pietosi già impegnati in altri pianti, non stimoleranno l’interesse di politici affamati di consenso, non ispireranno la solidarietà di vendicativi connazionali che della scuola ricordano solo il dietro-la-lavagna.

I supporti economici, assistenza nel pagamento dei furibondi canoni di affitto, casse integrazioni prolungate per i dipendenti, piccole percentuali di finanziamenti a fondo perduto, visto che il credito d’imposta servirà solo a chi in futuro avrà ancora imposte da pagare, sono destinati a ben più visibili settori: sembra addirittura insperabile per le scuole d’italiano aspettarsi qualcosa.

La giovane associazione Licet ha fatto suo perciò il motto kennedyano: “non chiedetevi che cosa lo Stato può fare per voi ma cosa voi potete fare per lo Stato”.

Duecento centri di soggiorno linguistico e di viaggio-studio sparsi per la nazione sono duecento calamite capaci di attrarre stranieri e di dare un forte impulso al rilancio di quel turismo importante di cui tanto si parla nei piani di rinascita del Paese. Ogni scuola dispone di indirizzari, di contatti, di piccole macchine propagandistiche capaci di invogliare gli stranieri a tornare in Italia; ogni scuola ha fatto questo per anni, solo per sviluppare la propria attività. Oggi è il momento di farlo tutti insieme per rilanciare un mercato al di là del singolo interesse, giacché solo da un rilancio generale il singolo interesse potrà, forse, ancora essere soddisfatto.

Da questa premessa nasce la nuova associazione Licet che conta sulla sinergia fra tutte le scuole per questo risultato. D’altra parte propagandare l’Italia, per chi lo sa fare, è addirittura entusiasmante. Perché, come scriveva uno studente anni fa:
“La mia miglior pizza l’ho mangiata a Buenos Aires; la miglior Casta Diva l’ho sentita ad Atene; la mia giacca Armani l’ho comprata a New York; l’Italia non è per me uno Stato: è un’idea transnazionale patrimonio di tutti nel mondo”.

**Sitografia
**(tutti i materiali erano consultabili in data 05.07.20)

L’italiano nel mondo che cambia – 2018, Roma, 22 ottobre 2018

Incontro streaming con Roberto Tartaglione, Direttore Scudit Scuola d’Italiano Roma, Stampa Estera Roma, 27.05.2020

Tutelare le scuole di italiano per stranieri, in «La Nazione», 22.05.2020

Siamo un motore del turismo ma ci hanno dimenticato, in «La Repubblica», 22.05.2020

Immagine: Palazzo Firenze a Roma sede dal 1926 della Società Dante Alighieri

Crediti immagine: Lalupa / CC BY-SA (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)