L’approvazione della L.N. 482/1999 sulle minoranze ha evidenziato numerosi problemi relativi all’impostazione di una corretta politica linguistica nel nostro paese: tra gli altri, l’inaccettabile sperequazione che si è creata fra le minoranze ammesse a tutela e alcuni gruppi rimasti esclusi: rilevante in tal senso è il caso delle varietà italoromanze trapiantate fuori dalla loro area d’origine, escluse dai benefici della 482 in ragione di criteri classificatori e di valutazioni politico-culturali incoerenti con gli intendimenti stessi della legge. Rimane evidente infatti come questi gruppi, appartenenti alla tipologia della eteroglossie, non siano semplicisticamente omologabili alle realtà linguistiche regionali italiane, a loro volta, sia chiaro, meritevoli di tutela.

I dialetti "galloitalici" in Sicilia e in Basilicata

Un caso di particolare rilievo è quello dei cosiddetti dialetti “galloitalici” trapiantati nei secc. XII-XIII in Sicilia e in Basilicata, come conseguenza dell’immigrazione di genti provenienti dall’area di confine tra Liguria e Piemonte: se in territorio lucano questa componente linguistica (presente ad esempio a Tito, Picerno, Vaglio, Trecchina, Nemoli e nella stessa Potenza) ha perso col tempo molti elementi specifici dell’originaria alterità linguistica e culturale rispetto al panorama regionale, i cosiddetti “lombardi” (ossia “settentrionali”) di Sicilia, parlati da circa 60.000 persone, presentano ancora forme di riconosciuta e riconoscibile specificità rispetto alla lingua e alla cultura delle popolazioni contermini, ad esempio a Nicosia, Piazza Armerina e Aidone in provincia di Enna, a San Fratello, Novara di Sicilia e Montalbano Elicona in quella di Messina, a Ferla in provincia di Siracusa, e così via.

Il tabarchino di Sardegna

Nel caso poi più rilevante, quello del tabarchino di Sardegna, anche diversi fattori di carattere sociolinguistico assumono un ruolo centrale per la riflessione sul concetto di alterità linguistica e culturale. Carloforte e Calasetta, dove si parla questa lingua, rappresentano un’eredità significativa della presenza genovese nel Mediterraneo, conseguenza dell’espansione economica dell’antica Repubblica. Ma nel caso dei Tabarchini, il mantenimento del genovese come lingua comunitaria si appoggia anche a motivazioni più complesse, date dalla diversa specializzazione economica rispetto al resto della Sardegna, dalla micro-insularità del territorio e dall’inserzione dei due centri all’interno di un sistema economico e commerciale facente capo a Genova e alla Liguria.

La popolazione conservò quindi il genovese come elemento costitutivo di un’identità assai complessa, oggi profondamente diversa da quella dell’originario nucleo di coloni che nella prima metà del sec. XVI si trasferì a Tabarca, un isolotto lungo le coste della Tunisia, per passare poi nel sec. XVIII, a ondate successive, sulle due isole sarde di San Pietro e Sant’Antioco. Il tabarchino, per quanto sia rimasto fondamentalmente fedele all’originaria impronta genovese, si è arricchito col tempo, a sua volta, di elementi lessicali che sono il riflesso dei diversi contatti intrattenuti: pochi ma significativi gli arabismi e turchismi, abbastanza numerosi i sardismi, per quanto limitati ad alcuni ambiti semantici; significativi i sicilianismi, legati alla pratica della tonnara, caratteristici i francesismi che riflettono anche la continuità dei rapporti con la Tunisia coloniale.

I pescatori di corallo a Tabarca

L’identità tabarchina, non soltanto dal punto di vista linguistico, è insomma il frutto di una costruzione secolare, anche se in essa entra senz’altro in gioco in primo luogo la vicenda dei pescatori di corallo originari della Riviera di Ponente trasferitisi a Tabarca per rendere economicamente proficuo l’insediamento militare voluto da Carlo V per il controllo della costa magrebina, finanziato dalla famiglia genovese dei Lomellini. Tabarca mantenne sempre questa originaria vocazione, ma ad essa si affiancò ben presto una redditizia gestione dei traffici tra l’Africa settentrionale e la sponda europea, in un’epoca caratterizzata dalla teorica incomunicabilità tra il mondo islamico e quello cristiano. Unica enclave europea stabilmente impiantata sulla costa africana, Tabarca divenne così un emporio importante, una realtà extraterritoriale nella quale passavano merci e capitali ingenti. Essa prosperò fino a quando la sua esistenza convenne alle potenze interessate a questo singolare mercato. La crisi economica che conseguì all’alterarsi del fragile equilibrio che aveva consentito a lungo la sopravvivenza della colonia, indusse alcuni maggiorenti del luogo a negoziare il trasferimento di una parte della popolazione in Sardegna, dove la monarchia sabauda incentivava l’impianto di colonie destinate a ripopolare la fascia costiera. Nel 1738 Carloforte nacque da un progetto pianificato di insediamento, gestito da imprenditori tabarchini e genovesi sulla base di un’accurata ricognizione delle potenzialità economiche e commerciali dell’area.

Lo sviluppo economico e commerciale nell'Ottocento

I Tabarchini rimasti in Africa ebbero a scontare l’occupazione, la deportazione, il riscatto a più riprese, episodi che portarono a una diaspora protrattasi per alcuni decenni: alcuni si riunirono ai compatrioti carlofortini; altri si dispersero lungo la costa tunisina mantenendo la lingua originaria e la fede cristiana, e assumendo col tempo la condizione di minoranza etnico-religiosa tutelata in base alle consuetudini turche; altri ancora, riscattati dal re di Spagna, fondarono nel 1769 Nueva Tabarca su un isolotto nei pressi di Alicante (dove la lingua si estinse ai primi del Novecento); un ultimo nucleo infine popolò l’anno successivo la punta nord-occidentale dell’isola di Sant’Antioco, fondandovi Calasetta in diretta continuità con l’esperienza carlofortina.

La storia dei tabarchini nell’Ottocento, dopo l’episodio della deportazione della popolazione carlofortina in Tunisia (1798) e l’effimera occupazione da parte dei rivoluzionari francesi, è caratterizzata da un grandioso sviluppo economico e commerciale: se Calasetta sviluppò una vocazione agricola attraverso la monocultura della vite, Carloforte mise a frutto la propria posizione geografica, rimanendo a lungo il principale porto mercantile della Sardegna dopo Cagliari. A parte le attività tradizionali (pesca del corallo, tonnare, saline), il centro divenne così il punto d’imbarco dei prodotti minerari del Sulcis. Il trasferimento del minerale richiamò una forte immigrazione da varie aree del Mediterraneo e rappresentò fino a dopo la seconda guerra mondiale una risorsa importantissima per il paese, anche se le dure condizioni di lavoro suscitarono periodiche tensioni sociali, che contribuirono alla maturazione civile delle comunità tabarchine.

Turismo, dal secondo Novecento

Quest’epoca d’oro entrò in crisi soprattutto nel secondo dopoguerra, con l’esaurirsi a Carloforte delle attività legate alla movimentazione del minerale, per il diverso orientamento dei flussi commerciali che interessavano la Sardegna, per lo stesso ridimensionamento dell’economia vitivinicola calasettana. Lo sviluppo turistico dei due centri rappresenta oggi un nuovo elemento di scarto rispetto a un retroterra sardo che non è ancora decollato da questo punto di vista, e rappresenta quindi, ancora una volta, un elemento di alterità tale da contribuire per certi aspetti al mantenimento di una specificità rispetto al resto della Sardegna. Al tempo stesso, i flussi turistici non sono ancora tali da minacciare seriamente il tessuto comunitario e l’originalità culturale e linguistica di Carloforte e Calasetta, dove i rilevamenti statistici confermano negli ultimi decenni una forte tenuta dell’uso della lingua locale, con percentuali di particolare rilievo a Carloforte, dove il tabarchino risulta parlato da quasi il 90% della popolazione.

Una cultura minoritaria non regressiva

Questa succinta panoramica aiuta a capire i motivi da un lato della conservazione della lingua tabarchina, capace di integrare una popolazione d’origine eterogenea chiamata a riconoscere in essa un elemento di peculiarità non solo idiomatica ma anche economica e sociale; dall’altro, le ragioni della profonda originalità culturale della comunità tabarchine, che fanno dei circa diecimila abitanti di Carloforte e Calasetta un caso forse unico in Italia e in Europa di cultura minoritaria non regressiva o in fase preagonica ma in grado al contrario di sostenere e promuovere la propria specificità: anche in reazione alla mancata tutela infatti, sono fiorite negli ultimi anni le iniziative e i progetti autogestiti a livello comunitario, che hanno portato alla fissazione di uno standard ortografico e di una grammatica, all’avvio di iniziative didattiche, alla realizzazione di strumenti utili alla diffusione e alla conoscenza in tutte le fasce di età di un idioma che vive anche, oggi, attraverso una rilevante produzione canora e letteraria.

Un caso di discriminazione

Si capisce allora come l’esclusione della minoranza tabarchina (come tale riconosciuta dalla comunità scientifica internazionale) dai benefici di tutela e promozione della lingua e della cultura locali previsti dalla legge nazionale rappresenti una discriminazione palese, contraria al principio costituzionale dell’eguaglianza, e come essa abbia suscitato prese di posizione delle istituzioni locali, del mondo intellettuale e delle associazioni rappresentative dei linguisti italiani, anche con l’avvio di iniziative di legge atte a ovviare a questa incresciosa sperequazione, che hanno riguardato spesso, estensivamente, anche il caso delle varietà altoitaliane della Sicilia. Il paradosso di una lingua minoritaria riconosciuta a livello regionale ma non a livello nazionale si associa per di più a quello, non meno assurdo, di una regione in cui i due soli comuni di Carloforte e Calasetta non hanno formalmente diritto ad accedere ai benefici della legge nazionale.

Se vale da un lato la considerazione che i tabarchini non hanno certamente bisogno, per continuare sulla strada della valorizzazione della propria specificità linguistica, del riconoscimento legislativo, resta il fatto che l’esclusione di questo gruppo dal novero delle minoranze linguistiche storiche ammesse a tutela mette in luce tutti i difetti dell’impostazione reazionaria ed etnicista che soggiace alla “politica linguistica” sviluppatasi in Italia in questi ultimi anni, in cui alla mancata considerazione della tipologia sociolinguistica si accompagna una sopravvalutazione della discriminante genealogica come criterio-guida nella scelta dei gruppi ammessi a beneficiare della legge: tali scelte finiscono per svuotare il provvedimento dei principi ideali in nome dei quali è stato emanato, ossia la “tutela” dei diritti linguistici di settori significativi della popolazione italiana in ottemperanza al dettato costituzionale.

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La prima puntata: Il bel paese là dove 'l “sì” suona. E anche l’“ô”, lo “ja”, lo “scì”…(Fiorenzo Toso, curatore del ciclo)

La seconda puntata: Il francese e il francoprovenzale (Matteo Rivoira)

La terza puntata: Alto Adige – Südtirol (Sudtirolo) (Marco Caria)

La quarta puntata: Lo sloveno (Franco Finco)

La quinta puntata: L’occitano cisalpino (Matteo Rivoira)

La sesta puntata: Il friulano (Franco Finco)

La settima puntata: I Ladini delle Dolomiti (Marco Forni)

L’ottava puntata: Il sardo (Fiorenzo Toso)

La nona puntata: Il catalano di Alghero (Marco Caria)

La decima puntata: Le isole linguistiche germanofone minori (Marco Caria)

L’undicesima puntata: La minoranza linguistica italo-albanese (arbëreshe) (Monica Genesin e Joachim Matzinger)

La dodicesima puntata: Le isole grecofone in Calabria e in Puglia (Domenica MinnitiGònias)

La tredicesima puntata: Isole linguistiche: la comunità degli Slavi del Molise (Antonietta Marra)

La quindicesima puntata: Il romanes, la lingua dei sinti e dei rom (Massimo Aresu)

Immagine: Carloforte, Isola di San Pietro, Carbonia-Iglesias, Sardegna, Italia

Crediti immagine: trolvag [CC BY-SA 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)]

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