In quale mondo viviamo, se abbiamo a che fare con le deiezioni canine e non con le feci (a dire il vero, quando ci capita di calpestarle, le chiamiamo, imprecando, in un altro modo) dei cani; se ci troviamo di fronte a uno stazionamento per autopubbliche a trazione ippica (si tratta di un parcheggio per carrozze, in piazza di Spagna, a Roma); se a un esame per la patente ci viene chiesto di parlare di un'anomalia altimetrica convessa della strada (il dosso!) o di un manufatto destinato allo smaltimento delle acque (una grondaia? No, una cunetta) [esempi tratti da Per difesa e per amore di Gian Luigi Beccaria, Garzanti 2006]; se, all'ingresso di un grande ospedale, dobbiamo impegnarci per decifrare un cartello con su scritto «Per mancanza di moneta divisionale, i pazienti solventi sono pregati di presentarsi allo sportello muniti della suddetta», vale a dire i pazienti si presentino alla cassa con i soldi contati, non siamo in grado di dare il resto per mancanza di spiccioli. Diremmo che viviamo in una realtà parallela, in cui il legame tra le cose e le parole si è fatto drammaticamente complicato. Di più, visto che la realtà è una sola: capiremmo che enti e istituzioni di vario genere hanno deciso di rendere difficile come un sudoku (ma non divertente, al limite, come quello) il rapporto di comunicazione con i cittadini e con gli utenti dei servizi pubblici e privati. Nella vita quotidiana, quando una persona ha a che fare con l'amministrazione pubblica dovrebbe imparare a conoscere l'italiano astruso (elasso 'trascorso', attergare 'scrivere a tergo di un documento', per vie brevi 'a voce o per telefono'), tecnicistico (zonizzazione, turnazione), aulico (ancorché, qualora, altresì invece di anche se, se, anche), ridondante (sorreggersi alle apposite maniglie: se sono qui, queste maniglie, certamente sono state messe apposta per farci qualcosa; o no?), che incute timore, quasi sacrale nei suoi rivestimenti e paramenti lessicali e sintattici (atteso che... fatto salvo + sostantivo, nel significato di 'tranne': fatto salvo l'obbligo), adoperato nelle carte degli uffici per comunicazioni interne e, ciò che più conta, esterne: in una parola, il burocratese, cioè la lingua della burocrazia (così come è stata soprannominata dalla stampa). La lingua che complica le cose, quando dovrebbe semplificarle, attraverso un uso (o utilizzo, come preferirebbe il burocrate) complicato della lingua. E dire che spesso il documento scritto in burocratese arrivato tra le mani del cittadino ha la forza dirompente (quasi magica) di un sovvertitore di destini, un rimescolatore di esistenze: come veicolo di disposizioni giuridiche, il foglietto scritto in modo contorto e difficile può dire, per esempio, che una pensione di reversibilità è assegnata o rifiutata; che l'assegnazione di un accompagno per invalidità totale è concessa o negata; che l'ammissione a un concorso è confermata o revocata. Cose che cambiano la vita, ma dette in malo modo, cioè in modo inadeguato, che possono perdipiù creare danno economico e non soltanto al singolo, ma anche alla collettività, per via di contenziosi e contestazioni che fanno spendere tempo e denaro intasando gli uffici pubblici, tra faldoni di pratiche proliferanti a partire da un iniziale vizio di chiarezza e semplicità concettuale e linguistica. «Parente povero» del linguaggio giuridico, come scrive Luca Serianni in Italiani scritti (Il Mulino, 2003), poiché «ha a che fare con fonti di diritto di rango inferiore», il linguaggio burocratico viene maneggiato dai burocrati con «minore cura formale» di quanto facciano giuristi e legali alle prese col "parente ricco".

Uno stile da manuale

Per fortuna, a partire dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso, qualcosa ha cominciato a muoversi nella direzione giusta. Ultimo segnale di una volontà dell'amministrazione pubblica di intervenire per favorire la semplificazione della comunicazione rivolta ai cittadini, una circolare del Ministero per i Beni e le Attività Culturali nella quale si invitano i Servizi interni ad un «uso corretto della lingua», considerato «funzionale all'attuazione dei principi che regolano la trasparenza dell'azione amministrativa, che si realizzano rendendo comprensibile ed efficace la terminologia utilizzata dall'Amministrazione anche nell'ambito delle attività di informazione e di comunicazione interna ed esterna». Nel documento si rileva: «a volte si è riscontrato che nella corrente attività amministrativa è presente l'impiego di un linguaggio poco efficace e non funzionale riferito ai beni e alle attività culturali». Dopo aver fornito alcune indicazioni di massima sull'opportunità di evitare «inutili anglicismi» (meglio carta di card; libreria di bookshop), «ipertecnicismi o arcaismi tipici del linguaggio burocratico», «espressioni sostituibili con termini più appropriati» (meglio beni culturali o patrimonio culturale invece del generico giacimenti culturali; meglio specificare se si tratti di museo, galleria, pinacoteca, area archeologica, invece di usare l'iperonimo passe-partout contenitore), il documento ricorda che alla fine del febbraio del 2007 una commissione tecnica ristretta, istituita dal Ministero, elaborerà proposte utili a promuovere l'«uso corretto del linguaggio tecnico-amministrativo» e la sua «semplificazione». Questa interessante circolare ha dietro di sé un cammino che comincia nel 1993 con la redazione, ispirata dall'ex ministro Sabino Cassese, di un Codice di stile delle comunicazioni scritte ad uso delle amministrazioni pubbliche, rivolto e inviato ai pubblici uffici affinché fosse usato per modificare certi atteggiamenti linguistici. Il progetto di "Semplificazione del linguaggio amministrativo", come ha spiegato lo studioso più impegnato nella sua elaborazione, Alfredo Fioritto, ha determinato sin dal 1994 ricadute pratiche, quando la collaborazione tra Dipartimento della Funzione Pubblica e alcune amministrazioni pubbliche e locali (a Roma, Bologna, l'Aquila, Melfi, Nuoro) ha permesso di avviare all'interno di queste un percorso di formazione che rendesse il personale degli uffici capace di comunicare e scrivere documenti in modo chiaro e semplice. Importante frutto di anni di sperimentazione sul campo è stato quindi il Manuale di stile. Strumenti per semplificare il linguaggio delle amministrazioni pubbliche (Il Mulino, 1997), curato dallo stesso Fioritto (dal quale ho tratto l'esempio dell'ospedale), che contiene preziosi esempi di riscrittura di documenti stesi originariamente in puro burocratese (sono riportate le versioni, per dir così, prima e dopo la cura), regole e consigli linguistici per aiutare le amministrazioni a meglio comunicare con i cittadini e un glossario di 500 termini (da abilitazione a voltura) del linguaggio giuridico e amministrativo. In seguito, nella direzione  ormai tracciata (e che in altri Paesi europei ed extra-europei si era presa ancor prima che da noi) si sono moltiplicate le iniziative nell'ambito dell'amministrazione pubblica e in altri enti. «Convincere tre milioni e mezzo di pubblici dipendenti a cambiare linguaggio è molto difficile. Ci stiamo provando ma è un lavoro faticosissimo»: così dichiarò nel 1998 l'allora Ministro della Funzione Pubblica Franco Bassanini. Le cose sono migliorate, da allora. Da allora, e non, alla latina, ex tunc, come ancora capitava di leggere in qualche circolare ministeriale fino a pochi anni fa.

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