Perché il mio recente volume Peste e corna. Come disintossicarsi da luoghi comuni, frasi fatte e compagnia bella? La domanda sorge spontanea e, tutto sommato, è più che legittima. In fin dei conti è l’ennesima eccezione che conferma la regola: avrei potuto cullarmi sugli allori e godermi il meritato successo dei miei precedenti libri, La strage dei congiuntivi (da cui presto trarranno un film; anche se si sa: il film è bello, ma il libro è tutta un’altra cosa) e Di grammatica non si muore, che sono stati a lungo sotto i riflettori e che a tutt’oggi continuano a ricevere elogi sperticati e vendere a palate.

Già, avrei potuto tirare il fiato e fare la pacchia ma, avendo l’argento vivo addosso, non riesco proprio a darmi all’ozio. E poi, voi mi insegnate, nella vita non si può mai sapere: ogni lasciata è persa. Da che mondo è mondo, la ruota gira e bisogna battere il ferro finché è caldo. Ecco perché, arrivando al dunque senza tirarla troppo per le lunghe, unendo l’utile al dilettevole e partendo dal presupposto che non c’è due senza tre (e si sa che la matematica non è un’opinione), ho rotto gli indugi e mi sono rimesso in gioco. Sono partito in quarta, gettandomi a capofitto in questo libro e iniziando, nei ritagli di tempo, a raccogliere tutte le frasi fatte, quelle frasi vuote, che passano di bocca in bocca, crescono come la gramigna, vengono ripetute fino alla nausea e, dagli oggi e dagli domani, fanno rivoltare lo stomaco, accapponare la pelle, rizzare i capelli e cadere le braccia.

Ma poi, una volta capita l’antifona, mi sono reso conto che queste frasi erano solo la punta dell’iceberg e così, prendendo la palla al balzo, ho fatto un deciso passo in avanti sullo stato dell’arte e ho esteso le mie ricerche a trecentosessanta gradi. A quel punto trovare la quadratura del cerchio è stato un gioco da ragazzi. Mano a mano, dopo aver scoperto tutti gli altarini, armandomi di santa pazienza, ho cercato col lanternino (in alcuni casi, non ho difficoltà a riconoscerlo, è stato peggio che andar di notte) e passato al setaccio, una dopo l’altra, tutte le espressioni stereotipate, le espressioni usa e getta, le espressioni meccaniche e chi più ne ha più ne metta.

Da cosa nasce cosa, facendo mente locale (ho una memoria di ferro), ho infilato nel calderone dell’aria fritta anche le metafore logore (ce ne sono a bizzeffe), i cliché (tutto fa brodo), i luoghi comuni (molti dei quali davvero terra terra) e, l’appetito vien mangiando, i modi di dire (che affondano le radici nei bei tempi andati, quando si poteva ancora dormire con la porta aperta e la verdura aveva tutto un altro sapore), le combinazioni di parole (che, per certi versi, sono il mio chiodo fisso), le formule di presunta saggezza un tot al chilo, i sintagmi stereotipati (che mi hanno dato del filo da torcere) e compagnia bella.

In men che non si dica ho preso carta e penna e iniziato a raccontare, per filo e per segno, tra il serio e il faceto, storie di tutti i giorni, episodi di vita vissuta, paradigmi dell’immaginario collettivo, vizi e virtù della nostra lingua e quant’altro. L’ho fatto, cercando di tenermi a cauta distanza dal visto e rivisto, dal trito e ritrito, evitando facili generalizzazioni, mettendo i puntini sulle i, analizzando di volta in volta i singoli contesti e distinguendo le frasi fatte che tutti noi, volenti o nolenti, adoperiamo a ogni piè sospinto, senza soluzione di continuità, e che arricchiscono e vivacizzano il linguaggio da quelle plastificate e inutili che, ripetute alla noia, irritano più della puntura di una zanzara e finiscono col diventare odiose (anche se, a pensarci bene, «Io odio le frasi fatte» è a sua volta una frase fatta).

Fermo restando (e chi si muove!) che molte espressioni, seppur consumate dalla ripetizione, sono parte integrante delle nostre conversazioni quotidiane, glissando elegantemente sulle enunciazioni di criteri come fissità sintagmatica, obbligatorietà (mi pare che voi linguisti la chiamiate «fissità paradigmatica») e frequenza d’uso, senza annoiare con fumose teorie (sull’argomento in questione sono già stati versati fiumi di inchiostro) e classificazioni (catalogare tutte le espressioni multi-parola sarebbe come cercare l’ago in un pagliaio e, alla fine della giostra, l’accademico esercizio si rivelerebbe un’inutile fatica di Sisifo), ho scritto.

Ma, detto in soldoni, in estrema sintesi e in parole povere, di cosa ho scritto? Ho scritto di quegli inutili riempitivi verbali che, a mio modestissimo parere (e voi vi starete legittimamente chiedendo: ma se il tuo parere è modestissimo, perché lo esprimi?), rappresentano la quintessenza della banalità espressiva e che, piaccia o non piaccia, troviamo ovunque e di tutte quelle espressioni fisse, ambigue, ricolme di tecnicismi collaterali, tratte dai linguaggi speciali (politichese, giornalese, burocratese…) che, nel loro eterno ripetersi, assumono le sembianze delle frasi fatte e risultano incomprensibili ai più o, peggio, non dicono nulla.

Qualche esempio? L’evento che si è tenuto «nella splendida cornice» del Castello Vattelappesca di «una ridente località», l’ennesimo «bagno di folla» o il «silenzio assordante» (l’ossimoro preferito dagli italiani); l’incidente stradale raccontato dal cronista frettoloso a suon di «asfalto reso viscido dalla pioggia», «ammasso di rottami» e «lamiere contorte»; il politico di turno che, tra un «fare sistema» e un «dovere morale», si dice «stanco dei soliti giochetti» e assicura che non ci saranno più «cittadini di serie A e cittadini di serie B»; i «combinati disposti», l’esibizionismo manieristico dei «conformemente a» e dei «d’uopo» e tutto l’ottuso e spesso inaccessibile formalismo amministrativo di sadici burocrati; il meteoterrorismo che ci bombarda con «sciabolate artiche», «bombe d’acqua» e «temperature sempre ben al di sopra o al di sotto della media stagionale» (anche se è vero che non esistono più le mezze stagioni).

Alla fine della fiera, e vengo al punto, senza raccontare frottole, vi garantisco comunqueche quello che leggerete è un buon libro, un libro di pregevole fattura (fatto come Dio comanda), un libro da comprare a scatola chiusa e da tenere sempre sul comodino, un libro che potrà piacere o non piacere, ma che in ogni caso vi farà sorridere e riflettere. Di questo ne sono certo. Sono pronto a metterci una mano sul fuoco, senza se e senza ma.

Immagine: Di Cantalamessa (Opera propria) [Public domain], attraverso Wikimedia Commons