È sempre interessante, spesso divertente, leggere l’esito di quei rapidi sondaggi che siti come Repubblica.it allestiscono per sapere dai lettori quali sono, secondo loro, le più significative parole dell’anno, da votare scegliendo entro una lista bloccata, presentata dalla redazione del sito stesso e di solito comprendente dieci vocaboli. Non si tratta per forza di parole nate nell’anno di riferimento (quello che va chiudendosi), ma di parole che, per motivi extra-linguistici, si sono imposte all’attenzione e all’emotività dei parlanti: talvolta si tratta di parole da tempo esistenti che però, a causa di fatti sociali, economici, politici specifici, sono cresciute improvvisamente nell’uso e nella capacità di penetrazione.

Scialla? No, spread

Quest’anno Repubblica.it s’è rivolta alla redazione della rivista «LId’O – Lingua Italiana d’oggi», diretta da Massimo Arcangeli (http://temi.repubblica.it/). La redazione della rivista ha selezionato le seguenti parole: default, equità, fancazzismo, indignato, nazione, rigore, scialla, spread, tablet, tweet. Al momento di andare in stampa (come si diceva e, forse, si dice ancora, nelle redazioni dei giornali cartacei), su più di 8.000 votanti, indignato era al primo posto col 33% dei suffragi, seguìto a un’incollatura (28%) da spread; distanziato, default col 12%; ancor più lontano, equità col 6%, alla pari con una parola finalmente meno ansiogena: tablet. Scialla, fermo al 2%, mostra che i votanti non sono troppo sereni, a onta del significato di questa forma imperativale tipica del gergo giovanilistico attuale (epicentro di diffusione, Roma), che vale ‘sta’ tranquillo, calmo, sereno’.

Indignados alla Puerta del Sol

Insomma, non ci vuole un mago per capire che tra le parole sottoposte al voto hanno avuto successo quelle che contrassegnano una stagione particolarmente difficile per la vita del nostro Paese: gli indignati sono tutti coloro che in Italia (e prima ancora in Spagna, dove si chiamarono indignados a partire dalla prima mobilitazione di piazza alla Puerta del Sol in Madrid, nel maggio del 2011) hanno denunciato e denunciano pacificamente, ma con grande vigore, la mancanza di prospettive per un futuro accettabile, contestando alla classe dirigente cecità politica ed esclusiva difesa suoi privilegi. Tale cecità e tali privilegi intoccabili, agli occhi di chi s’indigna, avrebbero lasciato libero il campo al predominio della più avventuristica finanza speculativa, individuata, tra l’altro, come artefice del famigerato fenomeno dello spread (propriamente ‘differenza tra i livelli di quotazione dei Buoni del tesoro decennali italiani e i corrispettivi Bund tedeschi’), il quale è assurto, nella seconda metà dell’anno 2011, a sintomo pre-agonico di un complessivo default del Paese, ovvero di un ‘fallimento determinato da una condizione di insolvenza nei confronti di obbligazioni o debiti’.

Come le canzonette estive

In effetti, la popolarità dei vocaboli premiati dai votanti del sondaggio allestito su Repubblica.it è stata ed è ampia. Il fatto è testimoniato anche dalla slabbratura semantica che le parole subiscono, ripetute, usate e riusate da politici e giornalisti, rigettate in pasto all’opinione pubblica, rimasticate da quest’ultima, riprese nuovamente in tv, per radio o sul web e dai giornali. Tanto che, tirate di qua e di là, spiegazzate, macchiate, messe in ammollo e stese al vento e al sole, finiscono col perdere l’originaria aderenza a un significato ristretto e concrescono su sé stesse come parole-stalattiti, ampliandosi in accezioni più generiche, ma anche, grazie allo sbrodolamento semantico, immediatamente comprensibili: uno dice «purtroppo lo spread è salito» e tutti, ormai, capiscono che la situazione finanziaria dell’Italia va male, anche se hanno dimenticato il significato tecnico pregnante del termine spread (qualcuno, ipercorreggendo, lo pronuncia pure sprìd). Spread diventa un prezzemolino nelle ciance tra persone civili che di economia sanno poco o niente; uno stereotipo che fa scattare comprensione generica e solidarietà conversazionale. In una società che tempesta di informazioni miste a chiacchiere i neuroni iperattivi e stressati di chi vorrebbe capire qualcosa del mondo in cui vive ma non ha la possibilità, la voglia o la capacità di fermarsi e selezionare, studiare e circoscrivere approfondendo, come scrive il linguista Giuseppe Antonelli «il tormentone è la vera icona linguistica della nostra epoca. Gli slogan politici si ripetono sempre uguali a sé stessi, con la stessa ossessività di quelli pubblicitari; i modi di dire ritornano nel discorso con la stessa ostinata frequenza di quelli delle canzonette estive. Il motivo è presto detto: come una goccia cinese, la ripetizione ottiene sempre il risultato desiderato».

L’importante è avere fame

Spesso succede che la parola detta e ripetuta non appartenga in partenza a un sottocodice. Si pensi al politichese berlusconiano di un’espressione come remare contro: sì, va bene, il riferimento originario è sportivo, ma già la metaforizzazione dilata il significato, tanto che, dopo un intenso uso da parte dei politici di governo nell’accezione di ‘ostacolare l’azione (positiva) del governo’, la locuzione, usurata semanticamente, viene usata, oltre che nel recinto settoriale della politica, anche nella lingua colloquiale, e a ogni piè sospinto: basta che si tratti di significare che c’è qualcuno che si oppone alle buone intenzioni di qualcun altro. Oppure pensiamo alla parola fame: da una serie di modi di dire traslati come avere fame di… (ricchezza, onori, successo, popolarità), nel senso di ‘avere un grande desiderio’, nella lingua degli sportivi (atleti, allenatori, giornalisti e telecronisti) si è sviluppato l’uso intensivo di avere fame assoluto, nell’accezione di ‘essere fortemente motivati, avere un forte desiderio di imporsi, di vincere’ (anche nella costruzione negativa: non avere (abbastanza) fame), fino a prevedere l’estrazione focalizzata del solo sostantivo fame, reso disponibile ad altre sinergie sintattiche e lessicali, come in questo passo di un articolo comparso sul quotidiano «La Stampa» (21 dicembre 2011, p. 57), in cui il giornalista riferisce parole attribuite all’allenatore della squadra di calcio della Juventus, Antonio Conte: «Il merito di tutto questo va ai giocatori – sorride il tecnico –: per la fame che hanno mostrato e per la voglia di sposare la mia idea di calcio».

Altra parola passe-partout,diventata un tormentone nell’ambito dei commenti sui fatti sportivi, è l’aggettivo importante (nel significato genericissimo di ‘apprezzabile, buono’) che, di volta in volta, si riferisce all’azione di una squadra, al tiro di un calciatore o alla sua prestazione complessiva, fino a essere abbinato in modo surrealmente vago a sostantivi inaspettati: «Oggi all’Olimpico si respira un’atmosfera importante […] Se il Torino vince può prendere il volo» (telecronaca su Sky calcio di Torino-Grosseto, serie Bwin, 5 ottobre 2011).

Il bello del tormentone, però, è che lo capiscono dal Bianco all’Etna. Perché il logorìo della lingua moderna spiana i picchi impervi e rende il cammino comunicativo più facile per tutti.

Crediti immagine: Les amants, René Magritte, Museum of Modern Art, New York.