«Prendi la psicologia e togliendo tutta la lagna dell’inconscio fanne una materia pratica e moderna». Quel lagnoso di Freud non sarebbe molto contento di sentirsi trattato così da una persona che deriva una porzione cospicua dei suoi attrezzi di lavoro dal magazzino della psicologia freudiana. Però Roberto Re, «allenatore dell’anima» – come si è definito in un’interessante intervista concessa a Elena Stancanelli sul quotidiano «La Repubblica» (www.repubblica.it/2009/02/sezioni) –, o, più tecnicisticamente, trainer motivazionale, dissemina molto più che tracce di psicologia rimasticata nel sito della sua organizzazione HRD Training Group (www.hrdonline.it), presentata come «un sogno ambizioso con precisi valori ed idee rivoluzionarie nel campo della formazione». Il poco più che quarantenne coach, vale a dire, secondo il nuovo significato del termine, sviluppatosi nell’ambiente aziendale e manageriale, ‘colui il quale aiuta «gli individui e gruppi di persone a raggiungere il massimo livello delle proprie capacità di performance»’ (la citazione è tratta da Robert Dilts, Il manuale del coach), tra i vari materiali scaricabili dal sito (estratti dei suoi libri di successo Leader di te stesso, Tempo di risultati, Smettila di incasinarti, e dispensine distribuite nei suoi seminari, frequentatissimi da manager in tutt’Italia ma anche all’estero) mette tre paginette sull’analisi transazionale, elaborata da Eric Berne negli anni Cinquanta proprio a partire dal ceppo freudiano tradizionale.
Il mestiere e le etichette
Roberto Re prende da Berne quel che gli serve per insegnare agli altri a «migliorare la relazione che viene a crearsi fra due individui che stanno comunicando» e butta il resto. Tutto ciò all’insegna del pragmatismo, perché Re deve badare al sodo, lo scopo non è di fare terapia ai manager sull’orlo della crisi di nervi, magari perché a spasso dopo essere stati travolti dalla crisi in atto (solo a Roma, nel 2008, in 600 hanno perso il posto) o perché passati da un’azienda grande, semi-decotta, a una piccola, con danno in termini di stipendio, posizione gerarchica e status. Lo scopo è portarli a rimettersi in gioco, affinché si adattino alla nuova situazione, allenandoli a prendere fiducia nelle qualità che possiedono e che sono rimaste travolte dal senso di frustrazione e sepolte sotto la sensazione di fallimento lavorativo ed esistenziale, perché, scrive Re in Leader di te stesso, «chi è leader di se stesso divent[a] naturalmente leader di altri» e può quindi tornare a fare l’utile rotella rilubrificata dell’ingranaggio aziendale sorridendo alla vita, ai subalterni come ai capi. Ecco perché Re può scrivere: «Non mi piace molto essere definito un “formatore”, non sono uno psicologo iscritto all’albo né, tanto meno, sono o voglio essere un terapeuta, anche se spesso svolgo in parte tutti e tre questi ruoli. Non mi piace nascondermi dietro etichette che non vogliono dire nulla».
Il coaching
Chi esercita il coaching (dal 1995 in italiano nel significato d’ambito aziendale; dagli anni Quaranta nell’inglese d’America), che sia declinato come personal, sport o business coaching, non sarà per forza uno psicologo, certo. I grandi maestri di Re, ovviamente americani, sono Roy Martina, che è un medico olistico, e, soprattutto, il guru Anthony Robbins, uno che, recita il sito www.hiperformance.it/anthonyrobbins, è «protagonista ogni anno di oltre 150 seminari internazionali, Coach personale di 3 Presidenti Usa, Leader Mondiali, Star e Campioni sportivi [...] riconosciuto, da oltre 30 anni, come il Formatore motivazionale n. 1 al mondo», tanto da essere divenuto un imprenditore (di sé stesso) di successo, pubblicando anche quattro best-seller mondiali.
Insomma, pare capire che il coach migliore è prima di tutto quello che è stato buono psicologo di sé. Che poi la psicologia c’entri, e molto, col lavoro di Robbins e soci, è confermato da HRD, l’acronimo che apre il nome dell’impresa di Re. HRD sta per Human Resource Development (‘sviluppo delle risorse umane’), e queste “risorse”, in quanto “umane”, vanno trattate a partire dal presupposto che «il successo in ogni attività è dato per l’80% dalla psicologia e per il 20% dalla tecnica», come scrive lo stesso Re. È però una psicologia, come dire, delimitata (tarpata?) e finalizzata, che verifica la sua efficacia in test di autostima scalari, come il mitico firewalking o “camminata sui carboni ardenti”, inventata da Re come “prova speciale” e conclusiva di un «seminario di una giornata di motivazione avanzata sulla pianificazione e focalizzazione sugli obiettivi».
Il laico predicatore aziendale
Non si vuole definire un formatore (ma in parte lo è), né uno psicologo (ma in parte lo è) o un terapeuta (ma in parte lo è). Re, infatti, è qualcos’altro: è un predicatore, cioè un tipo particolare di comunicatore. Laico. Sul vessillo, il marchio dell’Azienda, che è motore di vita, individuale e collettiva. Il motto: se stai bene con te stesso, se sei forte con te stesso, sarai leader in azienda, cioè, per riflesso, nella vita. Il trainer motivazionale, il business coach non poteva che nascere negli Stati Uniti. Non poteva che prendere le vesti aggiornate del predicatore e adottare le sue prassi comunicative. Basta vedere come si esprime il nostro coach Re. Naturalmente il set preferito è la piazza (piccola: seminario; più ampia: conferenza), il canale, quello orale. Ma anche leggendo le sue pagine pubblicate, ci si fa un’idea del suo stile comunicativo. Intanto – paradossale ma ovvio, a pensarci bene – per risollevare l’animo e motivare i destinatari del suo catechismo (non a caso, ogni capitolo del libro si conclude con esercitazioni di verifica e ripasso), Re non usa mai o quasi mai i tecnicismi collaterali, gli anglicismi più o meno adattati (da time-table ‘foglio o agenda che riporta gli impegni e gli orari lavorativi’ e kick off ‘avvio, lancio [di un programma, di un progetto, di un piano di lavoro]’ a fasare ‘mettere in fase, allineare, detto di tempi o gruppi di lavoro’ e staffarsi ‘dotarsi di uno staff’), gli ibridi anglo-italici (dare un warning ‘avvertire’), insomma, il corredo soprattutto lessicale e formulaico che serve, all’interno, a «definire e rinsaldare l’identità dell’impresa» e, all’esterno, a offrire «dell’azienda un’immagine completa e credibile» (Giuseppe Antonelli, L’italiano nella società della comunicazione, Il Mulino), sprigionando una forte aura di prestigio. Re spoglia i manager del loro linguaggio e si rivolge a loro secondo gli eterni grimaldelli della retorica e le virtù dell’oratoria classica, usando eterne, semplici parole onnisemantiche, che pure i bambini possono capire – e un po’ a bambini si mettono, i dirigenti che vanno a entusiasmarsi pendendo dalle labbra del Re...
Grazie, nonno Quintiliano
Marco Fabio Quintiliano (35 ca.-95 d.C.) aveva già spiegato, nella sua Institutio oratoria (traduciamola, alla Re, con ‘la formazione dell’oratore’) che l’oratore ideale, il vir bonus dicendi peritus, «non docere modo sed movere etiam ac delectare audientis debet», cioè non deve soltanto insegnare, ma pure smuovere, scuotere gli animi (appassionare e motivare?) e divertire chi l’ascolta.
Mille e novecento anni dopo, il semiologo francese Algirdas Julien Greimas aggiunge che in Re e in tutti quelli che, predicatori o non predicatori, vogliono portare dalla loro parte chi li ascolta, la comunicazione si presenta tecnicamente come manipolazione discorsiva. Il discorso in sé non è vero, ma efficace, e la verità è un effetto di senso prodotto dal discorso stesso, in quanto questo ha come scopo, come scrive Greimas, «non il dire-vero ma il sembrare vero».
Il resto – le scelte linguistiche – viene da sé. Se prendiamo le prime pagine di Leader di te stesso abbiamo la conferma che Re è un abile comunicatore (predicatore) e ha appreso benissimo la lezione di nonno Quintiliano. Basti qualche esempio. Le strutture retoriche: subito Re accorcia le distanze, avvicina enunciatore (sé stesso) ed enunciatari (i lettori) usando i pronomi personali io e tu (embrayage): «Se stai leggendo queste righe, se hai deciso di leggere un libro dal titolo Leader di te stesso, anche se non so chi sei, conosco alcune cose di te». La struttura espositiva: domina il parlare per parabole, l’esemplificare per apologhi («un agente [...] vendeva un certo prodotto in Florida e poco tempo dopo iniziò a raggiungere...»; «Un tipo che voleva diventare milionario si avvicinò ad un ricco imprenditore di successo chiedendogli...») e non ci vuole molta fantasia per evocare grandi modelli religiosi (Bibbia) o modaioli modelli d’importazione (storie zen). Figure retoriche: la parenesi («Ma possiamo cambiare!...»; e, in generale, un uso incalzante delle esclamazioni), ribattuta magari da anafore («... Possiamo cambiare abitudini, comportamenti, modi di pensare... Possiamo evolverci, crescere e diventare... Possiamo uscire dalla scatola che la società, la famiglia, gli amici... Possiamo superare i limiti»), che a loro volta contengono ipnotiche terne («abitudini, comportamenti, modi di pensare», «la società, la famiglia, gli amici»). Lessico: semplice, comune, di alta frequenza, dominato da parole-simbolo vuote o, meglio, da ciascun utente riempibili a piacere (successo, felicità, risultato, motivazione, autostima, mente, cuore, visione meglio se chiara, valori, cambiamento), come quelle del politichese da comizio; pochi i tecnicismi, e ormai slavati dall’uso (marketing, implementare; più inusuale, ma fondamentale per Re, coaching, che viene ben spiegato, ovviamente). Infine, merita una segnalazione l’uso isolato di mission, inteso, per dilatazione semantica, non come ‘obiettivo primario di un’azienda’ ma come ‘scopo dell’esistenza personale e professionale’: il che, volendo, ci dice tutto sul “senso della vita” contenuto nella laica religione aziendalista del predicatore-coach.
Immagine: Tony Robbins. Crediti: Randy Stewart [CC by 2.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/2.0/deed.it)]. Fonte: https://www.flickr.com/photos/stewtopia/3948482669/, attraverso Wikimedia Commons.
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